L'Argentina vista come è - 03
dell'organismo. Ne soffrono tutti: è come se l'aria a poco a poco fosse
divenuta meno respirabile; i ricchi come i poveri sentono l'affanno
della soffocazione.
Il debito pubblico è difficile a precisarsi; si conta a miliardi, non a
centinaia di milioni; cioè ammonta a una cifra spaventosa rispetto alla
popolazione del paese. L'alto cambio sull'oro rende gravosissimo il
pagamento degli interessi dei prestiti esteri, il quale pagamento, del
resto, non è regolare che sui preventivi. Ordinariamente si pagano
questi interessi con nuovi prestiti a breve scadenza. Si allarga il
male. Il dissesto è generale. Agli impiegati ora si paga lo stipendio se
si può. Vi sono degli impiegati che debbono avere fino a tre mesi di
stipendio. Le somme dovute dallo Stato a privati--riconosciute con
regolari mandati di pagamento--non vengono pagate. Occorrono pressioni,
inframmettenze extra-legali, _pots de vin_. Questa ritrosia del Governo
al pagamento dei debiti ha persino fatto sorgere un nuovo mestiere:
quello di _tramitador_. Il _tramitador_ è una persona che vende la sua
influenza; egli s'incarica di far pagare dalla tesoreria i mandati di
pagamento dei clienti, e si prende perciò il venti o il trenta per cento
sulle somme. L'immoralità diventa abituale. Non basterebbe un libro ad
enumerare le mangerie, i furti, le irregolarità che si verificano
abitualmente nelle amministrazioni del Governo argentino, ai quali si
deve non poco l'aggravamento della situazione generale.
Passando dallo Stato alle altre amministrazioni pubbliche si trovano gli
stessi mali nella stessa proporzione. La Municipalità di Buenos Aires
naviga in pessime acque. Il Governo ha dovuto creare una specie di
Comitato amministratore per evitarle il fallimento. Naturalmente anche
qui gli impiegati non sono pagati. Non è molto che gli spazzini
pubblici hanno fatto una dimostrazione ostile alla Intendenza
municipale--brandendo le scope--per reclamare il pagamento degli
stipendî arretrati. I maestri non sono meglio trattati degli spazzini.
Immaginate da questi indici la miseria che si nasconde sotto la
splendida vernice di questa grande Metropoli.
Vi sono migliaia e migliaia di persone in assoluta miseria. Al Consolato
d'Italia è una processione continua di sventurati che vanno a domandare
l'elemosina dei dieci e dei venti _centavos_ per mangiare. Il minimo
numero di disoccupati è calcolato a quarantamila; ma sono certamente di
più.
L'industria langue, il commercio è arenato. La media totale degli affari
commerciali è diminuita della metà. Avvengono dei fallimenti per
milioni; cadono dei colossi. La somma dei fallimenti arriva a circa
venti milioni di franchi al mese. A questa statistica fa riscontro
quella dei suicidî. Uno dei più forti commercianti stranieri,
interrogato sulla gravità della crisi, mi ha detto:--La crisi è tale che
non potrebbe essere di più!--Un altro commerciante, alla stessa domanda,
mi ha risposto:--Immaginate che in seguito ad un male non curato
sopravvenga la cancrena. Ebbene, la crisi del novantuno era il male;
quella di oggi è la cancrena!
Questa è la situazione descritta in poche parole. Il male è tanto più
grave in quanto che è profondo. Le cause sono molte; recenti e lontane,
passeggiere e durevoli. Le lontane e le durevoli sono le principali, e
perciò la guarigione è difficile.
*
* *
Una delle cause della crisi è l'accentramento a Buenos Aires di grande
parte della vita argentina. Questa Repubblica dà l'idea d'un mostro che
abbia un corpo piccolo e debole, ed una grande, smisurata testa. La
popolazione della capitale è di più che 800,000 abitanti, e tutto il
resto dello Stato non ha nemmeno quattro milioni. La sproporzione è
enorme.
In un paese che, come l'Argentina, non ha altra vera ricchezza che la
produzione agricola, che non possiede o quasi industrie, questa
mostruosa capitale tanto popolata significa non solo che un'infinità di
gente è completamente sottratta all'unico lavoro proficuo--quello dei
campi--ma che tutta questa gente vive interamente alle spalle degli
altri, e di una vita enormemente dispendiosa. Buenos Aires assorbe
troppe risorse argentine. È un lusso, una «spesa di rappresentanza» che
solo potrebbe permettersi un ricco popolo di cento milioni d'uomini.
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia supera Parigi di
settimila e Berlino di seimila e trecento ettari. Ha edifici grandiosi,
grandi _boulevards_, parchi, ha centoquaranta chilometri di
pavimentazione in legno, un porto che è unico nel suo genere, un
impianto d'acqua potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî
pubblici straordinarî. L'esistenza di questa città è un fenomeno
puramente americano, di quelli che sfuggono in parte alla nostra
analisi.
La Buenos Aires d'oggi è sorta sull'antica città così, come un'impresa,
come una speculazione ben lanciata, in forza di uno di quegli
inesplicabili delirî collettivi che afferrano talvolta i popoli davanti
alla prospettiva della rapida ricchezza. L'Argentina appariva il paese
incantato che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità avvenire
venne ipotecata in una febbre di affari, i quali non avevano altra base
che delle speranze assurde. Le fonti della prosperità vennero trascurate
per delle speculazioni fantastiche: l'Argentina vera fu perduta di
vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano delle
fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva come se l'Europa intera
avesse dovuto rovesciarsi qua. I terreni aumentavano di valore fino
all'incredibile. L'affarismo escogitava delle imprese favolose. Si
arrivò a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni furono
pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Plata è morta, e si
visita come Pompei. I capitali e le braccia stranieri affluivano
attratti da rimunerazioni enormi. L'oro correva a rivi. Il Rio della
Plata meritava il suo nome. La disonestà trionfava. S'ipotecava per
centomila lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d'onestà, di
giustizia, di dignità, d'amor patrio erano travolti dalla febbre della
ricchezza. I governanti arricchivano e lasciavano arricchire le loro
clientele.
La _corrida_, come fu chiamata, cioè la corsa di depositanti alle
Banche, cominciò nel 1890 e finì nel 1891 col fallimento generale. Le
Banche argentine fallirono. Il Banco della Provincia di Buenos Aires
fallì per due miliardi. Era il terzo istituto di credito del
mondo--prima di divenirne il primo istituto di.... discredito. Centinaia
di milioni di sudati risparmî dei nostri emigranti furono perduti.
In quel violento, turbinoso accentramento d'affari e di lavoro si formò
la Buenos Aires d'oggi, che così cara costa alla Repubblica. Alla sua
vita manca la base.
Gl'interessi della capitale sono in contrapposizione a quelli delle
provincie. Con ciò che è costato l'abbellimento, il lusso e la comodità
di Buenos Aires, l'Argentina poteva mettersi comodamente in condizioni
da vincere in tempo la concorrenza di quei paesi che hanno la stessa sua
produzione: gli Stati Uniti, il Canadà, l'Australia, e fra poco si potrà
aggiungere la Siberia.
Invece all'Argentina manca il primo elemento di successo, che sarebbe
una viabilità a buon mercato e facile. La canalizzazione delle acque, la
navigazione dei grandi fiumi che vengono tutti a riunirsi, come le
stecche di un ventaglio, all'immenso Rio della Plata, hanno uno sviluppo
insufficientissimo. Le ferrovie, tutte in mano di Compagnie inglesi, per
il costo esagerato dei noli rappresentano uno sfruttamento rovinoso per
il produttore. Le ferrovie hanno poi una sfera limitata d'azione lungo
il loro percorso, tanto più ristretta quanto più elevato è il costo dei
trasporti; e non esistono strade. Se si esce da Buenos Aires non si
trovano comunicazioni. Tempo fa i soldati della guarnigione per recarsi
ad un nuovo campo di manovre, qui vicino, smarrirono la strada. Dai
grandi _boulevards_ in asfalto illuminati a luce elettrica si passa al
niente.
*
* *
La conseguenza è che certi prodotti argentini portati qui vengono a
costare come i prodotti analoghi europei sbarcati e sdaziati (e i dazî
sono molto forti). Il vino di Mendoza, per esempio, costa quasi come il
vino italiano.
In alcuni luoghi si lasciano i raccolti sulla pianta per l'impossibilità
del trasporto. Si prende ciò che necessita per l'uso locale. Un
diplomatico che ha visitato l'interno recentemente, mi raccontava delle
enormi quantità di grano abbandonato che marcisce nei pressi delle
stazioni ferroviarie per mancanza delle grandi somme necessarie al
pagamento del trasporto.
La difficoltà delle comunicazioni rende lento e poco proficuo il lavoro
di colonizzazione in tanti territorî, che per la loro fertilità si
presterebbero a culture fortunate, ma che si trovano situati lontani
dalle linee ferroviarie. La zona sfruttata deve essere forzatamente
limitata. L'Argentina non può estrinsecare tutte le sue energie. È come
un albero, ricco di frutti splendidi ma posti troppo in alto per
arrivarvi con le mani. E mancano le scale.
Vi sono dei prodotti necessarî, per esempio il legname da costruzione, i
quali vengono importati dal Canadà, dagli Stati Uniti, e persino dalla
Norvegia, e che si trovano in enorme abbondanza nel paese. Il trasporto
ne è impossibile. Si è costretti a comperare ciò che si ha in casa, e
che si potrebbe anche vendere.
La produzione argentina si trova perciò in condizioni d'inferiorità sui
mercati; il margine di guadagno è minimo. Basta che sopravvenga un
ribasso nei prezzi perchè si verifichi un ristagno disastroso, come
avviene ora nel commercio della lana, la quale forma una delle più
grandi produzioni del paese. Vi sono sul solo mercato di Buenos Aires
dodici milioni di chili di lane giacenti.
L'Argentina, immensa e varia, avrebbe delle risorse inesauribili. Con
tutte le condizioni difficili create al suo commercio, la sua
esportazione ha superato, nel solo corso di quest'anno, l'importazione
di circa cinquanta milioni di _pesos_ oro, ossia duecento cinquanta
milioni di lire. Ma la situazione creata a questo paese è tale che tutti
questi milioni di _superavit_ attivo bastano appena ad impedire un
peggioramento economico. Essi tornano all'estero sotto forma di
dividendi e di interessi.
*
* *
È Buenos Aires il centro della rovina argentina. Essa ha stornato dai
campi la ricchezza. Per un lungo e recente periodo l'affarismo ha fatto
di questa città come un'immensa bisca: da ogni parte si accorreva a
giuocare. Si giuocava sul valore dei terreni, degli edifici, sui
prestiti, sulle azioni dei Banchi, sulle azioni delle imprese più varie
e più assurde. L'enorme movimento del denaro aveva creato una prosperità
favolosa, ma fittizia. Lo sperpero era enorme. Lo _standard_ di vita
generale giunse ad un lusso senza riscontri. Il bisogno del lusso portò
alla disonestà sistematica. Una disonestà inaudita.
Le opere pubbliche di Buenos Aires sono state pagate molto ma molto al
disopra del loro valore. Centinaia d'intermediarî vi si sono arricchiti.
I ministri divenivano arcimilionarî. Si davano concessioni di favore ad
imprese d'ogni genere--le ferrovie, per esempio, e i lavori delle «Acque
correnti»--pur di guadagnarci sopra, abbandonando così il paese, mani e
piedi legati, allo sfruttamento straniero, senza speranza di redenzione.
«Après nous le déluge»--pareva che dicessero, come altrettanti Re Soli,
i governanti argentini!
E il «déluge» non s'è fatto aspettare. È caduto sotto forma di crisi
universale. Lo stato dell'Argentina è grave, ma non disperato. Solo
spaventa questo: che se la prosperità effimera creata dalla speculazione
epilettica, è scomparsa, non sono però scomparsi il lusso e altri
malanni che ne furono la conseguenza. I quali quando si attaccano ad un
uomo come ad un popolo mettono troppe radici per guarire presto.
Specialmente se non sono curati. E qui non lo sono, almeno quanto
occorrerebbe.
L'ARGENTINA E IL CAPITALE INGLESE.
[Dal _Corriere della Sera_ del 16 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
L'Argentina è finanziariamente nelle mani dell'Inghilterra. Tutte le
imprese più remunerative sono inglesi. Due di esse, la ferroviaria e la
bancaria, rappresentano da sole i coefficienti principali dell'attivo
nazionale: l'una comanda alla produzione, l'altra ai trasporti, ossia
alla commerciabilità della produzione. Esserne padroni significa avere
nelle mani la vita della nazione.
L'Argentina lavora per l'Inghilterra: tutta la differenza attiva fra
l'esportazione e l'importazione, ossia il guadagno, va a Londra sotto
varie forme. Il problema è troppo interessante per noi, che qui
rappresentiamo il lavoro, per non esaminarlo con attenzione.
*
* *
È nel periodo più nefasto della speculazione--giunta al parossismo sotto
la presidenza di Juarez Celman--che la egemonia inglese sugli affari si
affermò. Gl'inglesi hanno dimostrato una volta di più di essere degli
uomini pratici. Essi hanno saputo mantenersi estranei al delirio che
aveva afferrato tutti i latini arrivati qui, e profittare delle
circostanze con una antiveggenza sorprendente. E prima di tutto seppero
profittare ammirabilmente della corruzione governativa per ottenere
concessioni di favore, le cui condizioni stupiscono profondamente chi
non sa a quale punto di cecità e di, diciamo, mancanza di scrupolo erano
arrivati quei governanti.
Così si formano le Compagnie ferroviarie inglesi, le quali sono oggi
padrone di 12,684 chilometri di ferrovie, ossia di tutto il transito
della Nazione. A queste Compagnie il Governo garantisce un minimo di
utili sopra un capitale fissato, e non ha nessun diritto d'intervento se
non quando l'utile risultasse superiore a un elevato per cento. La
Compagnia ha mano libera su tutto, sui noli, sulle velocità, sugli
orarî, sugli stipendî agli impiegati, sui movimenti del personale. Gli
affari vanno benone. Vi sono delle linee che fruttano il dodici, altre
il quindici, altre anche di più: i noli si mantengono fortissimi, e
tuttavia il Governo non può intervenire: deve assistere indifferente a
questo sfruttamento enorme della produzione. Ed ecco perchè:
Le Compagnie, oltre al capitale fissato come base per i rapporti col
Governo, si sono riservate l'emissione di «titoli non commerciabili» al
4 e al 5 per cento, emissione che per una sapiente scappatoia può essere
illimitata. Gl'interessi su questi titoli gravano al passivo della
Compagnia e servono a ridurre gli utili alle proporzioni necessarie per
togliere al Governo ogni diritto d'intervento. Così in apparenza l'utile
è sempre inferiore alla percentuale sopra cui comincia la partecipazione
dello Stato, ma in realtà è maggiore, perchè i possessori di questi
titoli non sono che gli stessi azionisti della Compagnia.
Al Governo argentino è dunque tolto ogni e qualsiasi controllo sulle
proprie ferrovie. In forza di questo stato di cose, si è potuto vedere
in certe linee i noli aumentare nella proporzione da 45 a 92, e tuttavia
scemare gli utili. In forza di questo stato di cose, gli stipendî agli
impiegati inglesi possono arrivare a delle cifre principesche.
La produzione argentina intanto trova nei trasporti il più grave
ostacolo ad uno sviluppo rapido. Le Compagnie ferroviarie se ne curano
poco: esse sono in una botte di ferro.
*
* *
Ma se si esamina il funzionamento delle Banche nell'Argentina, si rimane
ancora più meravigliati. Leggere di cose bancarie argentine è divertente
quanto il leggere dei romanzi inverosimili. C'è del fantastico.
Osserviamo un Banco inglese--osservarne uno è come osservarli tutti--;
il «River Plate Bank ltd». Nell'89 aveva sessantamila azioni con un
capitale versato di seicentomila sterline, ossia di dieci sterline per
azione. Alla fine di quell'anno gli utili furono del 40 per cento, di
cui il 15 venne dato come dividendo e il 25 per cento fu capitalizzato,
di modo che l'azione da dieci sterline passò a rappresentare un capitale
di dodici sterline e mezza. Nell'anno appresso si ebbe un dividendo del
15 per cento sul nuovo capitale, ossia del 18.75 per cento sul capitale
versato, più un altro 25 per cento capitalizzato, e l'azione rappresentò
un capitale di quindici sterline. Nel 91 arrivò la catastrofe generale,
il fallimento delle Banche argentine, la moratoria concessa a tutti con
legge del Parlamento: fu un anno disastroso. E tuttavia il nostro «River
Plate Bank» ebbe un dividendo del 9.16 per cento sul capitale totale,
ossia del 13.75 per cento sul capitale versato. I dividendi hanno
continuato ad aumentare con un crescendo che non ha certo un riscontro
con l'aumento degli affari, che invece sono in pieno ristagno. Nel 92 si
ebbe il 18.75 per cento, nel 93 il 18.75 per cento, nel 94 il 22.50 per
cento, nel 95 il 24 per cento, nel 96 il 27 per cento, nel 97 il 30 per
cento, nel 98 il 30 per cento, nel 99 il 30 per cento, nel 1900 il 50
per cento. In dodici anni si ebbe dunque il 298.50 per cento di
dividendi, più il 116 per cento del fondo di riserva--che oggi arriva al
milione di sterline--ossia un 514.50 per cento di utili netti. Il 42.87
per cento all'anno!
Questi utili in affari di denaro qui non sono straordinarî, perchè qui,
come ho accennato, gli alti interessi, diciamo così, dominano. Ma
bisogna por mente che le Banche inglesi sono le più numerose, e
soprattutto le più forti. Le altre Banche non sono che dei satelliti nel
sistema planetario della finanza argentina, nel quale il capitale
inglese rappresenta il sole. Quale enorme assorbimento d'energia non
rappresentano da soli i dividendi che prendono la via di Londra? Il
«London e Brazilian Bank» ha dato quest'anno il 46 per cento di
dividendo, con tutto che nei cambî col Brasile questa Banca ha perduto
la bellezza di 84 mila sterline! Il totale dei dividendi delle Banche
inglesi si può certamente ritenere superiore ai tre milioni di _pesos_
oro, ossia ai quindici milioni di franchi, calcolando modestamente!
La supremazia delle Banche inglesi sul mercato argentino è una
conseguenza logica degli errori e delle colpe commesse nel periodo
dell'affarismo di recente memoria. Al sopraggiungere della crisi del
1891, caddero il «Banco Nacional» e il «Banco della Provincia de Buenos
Aires» e con essi l'Argentina perdette i due unici sostegni della sua
indipendenza economica. È vero che i sostegni funzionavano male! Le
Banche inglesi furono quasi le sole a resistere. Continuarono con calma
le loro operazioni riuscendo a vincere il panico dei depositarî. Le
Compagnie ferroviarie versarono nelle Banche inglesi i loro
introiti--gl'inglesi, beati loro, sono sempre uniti e d'accordo--e quei
milioni non arrivarono inopportuni per fronteggiare la crisi. Il cambio
giunse al 480%, e le Banche inglesi cambiarono il loro oro; quando il
cambio è sceso, dopo sette anni, al 206%, le Banche inglesi hanno
reintegrato, guadagnando così il 234 per cento. La loro posizione è
formidabile. Le ferrovie della provincia di Buenos Aires versano
settimanalmente 600,000 _pesos_ oro, e il solo movimento di denaro delle
Compagnie ferroviarie basterebbe alla vita delle Banche, senz'altro.
Ma il credito incrollabile che le Banche inglesi godono attira a
centinaia di milioni di _pesos_ i depositi privati: esse sono diventate
il tramite principale dei movimenti di denaro, sono divenute il centro
d'un enorme cumulo di affari bancarî.
*
* *
Tutto questo non basta. Gl'inglesi sono anche i detentori della maggior
parte del debito pubblico argentino, che è di trecentottanta milioni di
_pesos_ oro, vale a dire di un miliardo e novecento milioni di franchi.
Di modo che l'Inghilterra in interessi e dividendi assorbe alle finanze
argentine circa quarantasei o quarantasette milioni di _pesos_ oro
all'anno--cioè duecentotrenta o duecentotrentacinque milioni di
franchi--così ripartiti:
Dalle imprese ferroviarie 17 milioni e mezzo, dalle Banche 3 milioni, da
varie imprese 2 milioni, dalle finanze governative per interessi del
debito pubblico 24 milioni.
L'esportazione supererà quest'anno l'importazione, si calcola, di circa
cinquanta milioni di _pesos_. È chiaro che questo _superavit_ attivo è
insufficiente alla benchè minima capitalizzazione; gli sforzi della
produzione sono fiaccati.
Ma noi non abbiamo veduto che la supremazia finanziaria inglese; vi è
anche la supremazia commerciale. Le ferrovie hanno concessioni di leghe
di territorî lungo il loro svolgimento. Nelle regioni più fertili
abbondano le _estancias_ inglesi. I prodotti di queste _estancias_, per
la facilità dei trasporti e per i favori di cui godono, vengono ad avere
una posizione privilegiata sui mercati.
Oltre agli estancieros vi sono i commercianti inglesi, importatori ed
esportatori. Per quel sentimento di unione e solidarietà che è una delle
più invidiabili caratteristiche inglesi, ed anche in forza di quella
massima inglese che _the onesty is the best policy_--l'onestà è la
miglior politica--questi commercianti godono presso gl'istituti bancarî
inglesi di un credito illimitato. E, data la forza delle Banche inglesi,
questi commercianti sono d'una potenza enorme. La concorrenza con loro è
impossibile. Il commercio va scivolando nelle loro mani. I soli scambi
con l'Inghilterra si aggirano sui sessanta milioni annui di _pesos_ oro,
cioè sui trecento milioni di franchi all'anno!
*
* *
Concludendo: guadagna davvero chi ha saputo ed ha avuto i mezzi di
fare.
LE NOSTRE LETTERE DALL'ARGENTINA. CONTINUANDO....
[Dal _Corriere della Sera_ del 23 maggio 1902.]
Le prime lettere dall'Argentina, pubblicate nel _Corriere_, hanno
suscitato polemiche che l'amico lettore non ha forse dimenticato. Sono
stato accusato di malignità, di menzogna e di peggio.
Al momento di continuare la pubblicazione delle «lettere argentine»,
nelle quali riassumo la imparziale osservazione dei fatti, permettetemi
di parlarvi un poco delle pubblicazioni passate, per le quali tanti
attacchi feroci e ingiusti mi sono stati mossi.
Non è per difendere me; no, è per difendere la verità.
Qualunque sdegno di uomo offeso, qualsiasi legittima indignazione di
onest'uomo attaccato ingiustamente, qualsiasi scatto d'amor proprio
dolorosamente ferito sono ben poca cosa di fronte alla rivolta impetuosa
che divampa nell'animo di chi, conoscendo il vero, lo vede calpestato,
nascosto, lo sente negare senza pudore e senza vergogna. E specialmente
quando questa verità si riferisce a sofferenze, lotte, dolori, miserie e
lacrime di tanti e tanti nostri fratelli!
Qui la questione personale passa in seconda linea. Non vengo a parlarvi
della guerra sleale che mi è stata mossa, degli ostacoli frapposti alla
mia strada, delle ire e degli odî suscitati contro di me, come delle
minaccie e degli insulti che ne sono stati le conseguenze, delle
calunnie basse e ridicole con le quali si è aizzato contro di me il
furore della folla argentina, come per porre un supremo ostacolo al
compimento del mio dovere. Tutto ciò non interessa che me, al più.
Voglio invece parlarvi di quanto ho scritto, che è la verità; e la
verità interessa tutti.
È necessario che non solo sia conosciuta, ma creduta. Pensate che ora,
mentre ben trentatre Società operaie dell'Argentina lanciano agli operai
italiani un manifesto esponendo la loro miseria coi dati ufficialmente
riconosciuti esatti, continuano a salpare per quella Repubblica nostre
navi cariche d'emigranti, i quali vanno con la credula mente piena di
errori e l'anima piena di sogni; e proprio in questo momento un _maggior
numero_ di disgraziati lascia l'Argentina in cerca di pane; pensate a
questa enormità, che mentre migliaia di persone, le quali hanno vissuto
laggiù, che parlano la lingua del paese, che conoscono l'ambiente, si
riducono ad abbracciare la più disperata delle risoluzioni: la fuga,
altre migliaia di persone ignoranti di tutto, ossia in condizione di
enorme inferiorità, si dirigono ciecamente verso quella terra che li
affascina. L'umile posizione che questi allucinati abbandonano in Patria
e che ad essi sembra misera di fronte alla fortuna che sognano, diviene
precisamente la mèta agognata dalla triste e disfatta folla dei
disillusi fuggitivi. E chi può fuggire è pur sempre fortunato! Quanti
non ne hanno più la forza; oh! quando la miseria pone il piede
sul vinto non se lo lascia facilmente sfuggire! _Dodicimila e
quattrocentosessantotto_ emigranti hanno lasciato l'Argentina nel solo
mese di marzo, e dodicimiladuecento ottantatre vi hanno approdato!
Pensate a queste cifre, e ditemi se non è necessario e urgente che la
verità sia nota. Tutti questi nostri emigranti partirebbero forse se
conoscessero niente altro che le cifre dei rimpatri? Non cadrebbe la
benda dai loro occhi? Il tacere è un delitto.
*
* *
Le prime «lettere argentine» sono state conosciute nella Repubblica per
mezzo dei telegrammi dall'Italia diretti al giornale _La Prensa_. Quando
vi avrò detto che questi telegrammi, che poi altri giornali hanno
riportato, avevano dei titoli di questo genere: _Insultos à los
Argentinos_. _Nuevas apreciaciones injuriosas_. _Un enemigo de
l'Argentina_. _Opiniones falseadas_, ecc., vi avrò dato un'idea del modo
antipatico col quale le mie lettere sono state portate a conoscenza del
pubblico.
L'opera mia dunque è stata giudicata laggiù sulla base di questi
documenti: ebbene, con tutto ciò la stampa indipendente si è schierata
tutta dalla mia parte. E fra la stampa indipendente debbo notare prima
di tutto la stampa estera.
La _Patria degli Italiani_ ha dichiarato che quanto avevo detto era una
verità nota e ripetuta, e quando il testo delle lettere è giunto, lo ha
integralmente riportato. _The Standard_, organo della Colonia inglese,
ha detto fra l'altro:
«Queste corrispondenze potranno fare più bene della malsana massa
di altre pubblicazioni la cui schifosa adulazione eccita
sospetti. Siccome il paese è commercialmente, politicamente e
socialmente malato, il Barzini fa bene a dirlo, dissipando così
malintesi e disperdendo illusioni. Noi non crediamo che abbia
calcato le ombre, poichè queste crescono invece di diminuire;
l'incauto emigrante che crede di trovare integrità di governo e
di giustizia è messo in guardia. Togliendo di mezzo le false
idee, egli ci rende un buon servizio. I nostri migliori amici non
sono quelli che ci adulano, e la stampa indigena dovrebbe porsi
bene in mente ciò nel pesare il valore delle opinioni del
Barzini.»
_Le Courrier de la Plata_, giornale della collettività francese,
conclude così un articolo sulla questione, dopo avere accennato agli
errori dei Governi, ai furti ufficiali, ai _deficit_ dei bilanci, e agli
altri mali che rendono la situazione sempre peggiore e che compromettono
gravemente tutte le speranze fondate sull'avvenire argentino:
«Le ragioni che il Barzini invoca non sono che troppo fondate, e
i giornali del paese che le discutono l'accusano solo di
esagerazione.
«Non si gridi al partito preso di malevolenza! Gli articoli del
_Corriere della Sera_ segnalando il male, rendono un vero servizio
alla Repubblica. Il giorno in cui si terrà conto di questi
consigli e in cui si cambierà strada, le profezie favorevoli
espresse dal signor Martinez nelle sue conferenze, si
convertiranno in una realtà.»
Il _Correo Español_, organo della importante Colonia spagnuola, dopo
aver riportato i telegrammi della _Prensa_, accompagnandoli con
apprezzamenti lusinghieri per il _Corriere_, aggiunge, rivolgendosi alla
stampa argentina:
«Potrebbero i giornali indignati, con la mano sul cuore,
affermare che sono falsi questi giudizî?
divenuta meno respirabile; i ricchi come i poveri sentono l'affanno
della soffocazione.
Il debito pubblico è difficile a precisarsi; si conta a miliardi, non a
centinaia di milioni; cioè ammonta a una cifra spaventosa rispetto alla
popolazione del paese. L'alto cambio sull'oro rende gravosissimo il
pagamento degli interessi dei prestiti esteri, il quale pagamento, del
resto, non è regolare che sui preventivi. Ordinariamente si pagano
questi interessi con nuovi prestiti a breve scadenza. Si allarga il
male. Il dissesto è generale. Agli impiegati ora si paga lo stipendio se
si può. Vi sono degli impiegati che debbono avere fino a tre mesi di
stipendio. Le somme dovute dallo Stato a privati--riconosciute con
regolari mandati di pagamento--non vengono pagate. Occorrono pressioni,
inframmettenze extra-legali, _pots de vin_. Questa ritrosia del Governo
al pagamento dei debiti ha persino fatto sorgere un nuovo mestiere:
quello di _tramitador_. Il _tramitador_ è una persona che vende la sua
influenza; egli s'incarica di far pagare dalla tesoreria i mandati di
pagamento dei clienti, e si prende perciò il venti o il trenta per cento
sulle somme. L'immoralità diventa abituale. Non basterebbe un libro ad
enumerare le mangerie, i furti, le irregolarità che si verificano
abitualmente nelle amministrazioni del Governo argentino, ai quali si
deve non poco l'aggravamento della situazione generale.
Passando dallo Stato alle altre amministrazioni pubbliche si trovano gli
stessi mali nella stessa proporzione. La Municipalità di Buenos Aires
naviga in pessime acque. Il Governo ha dovuto creare una specie di
Comitato amministratore per evitarle il fallimento. Naturalmente anche
qui gli impiegati non sono pagati. Non è molto che gli spazzini
pubblici hanno fatto una dimostrazione ostile alla Intendenza
municipale--brandendo le scope--per reclamare il pagamento degli
stipendî arretrati. I maestri non sono meglio trattati degli spazzini.
Immaginate da questi indici la miseria che si nasconde sotto la
splendida vernice di questa grande Metropoli.
Vi sono migliaia e migliaia di persone in assoluta miseria. Al Consolato
d'Italia è una processione continua di sventurati che vanno a domandare
l'elemosina dei dieci e dei venti _centavos_ per mangiare. Il minimo
numero di disoccupati è calcolato a quarantamila; ma sono certamente di
più.
L'industria langue, il commercio è arenato. La media totale degli affari
commerciali è diminuita della metà. Avvengono dei fallimenti per
milioni; cadono dei colossi. La somma dei fallimenti arriva a circa
venti milioni di franchi al mese. A questa statistica fa riscontro
quella dei suicidî. Uno dei più forti commercianti stranieri,
interrogato sulla gravità della crisi, mi ha detto:--La crisi è tale che
non potrebbe essere di più!--Un altro commerciante, alla stessa domanda,
mi ha risposto:--Immaginate che in seguito ad un male non curato
sopravvenga la cancrena. Ebbene, la crisi del novantuno era il male;
quella di oggi è la cancrena!
Questa è la situazione descritta in poche parole. Il male è tanto più
grave in quanto che è profondo. Le cause sono molte; recenti e lontane,
passeggiere e durevoli. Le lontane e le durevoli sono le principali, e
perciò la guarigione è difficile.
*
* *
Una delle cause della crisi è l'accentramento a Buenos Aires di grande
parte della vita argentina. Questa Repubblica dà l'idea d'un mostro che
abbia un corpo piccolo e debole, ed una grande, smisurata testa. La
popolazione della capitale è di più che 800,000 abitanti, e tutto il
resto dello Stato non ha nemmeno quattro milioni. La sproporzione è
enorme.
In un paese che, come l'Argentina, non ha altra vera ricchezza che la
produzione agricola, che non possiede o quasi industrie, questa
mostruosa capitale tanto popolata significa non solo che un'infinità di
gente è completamente sottratta all'unico lavoro proficuo--quello dei
campi--ma che tutta questa gente vive interamente alle spalle degli
altri, e di una vita enormemente dispendiosa. Buenos Aires assorbe
troppe risorse argentine. È un lusso, una «spesa di rappresentanza» che
solo potrebbe permettersi un ricco popolo di cento milioni d'uomini.
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia supera Parigi di
settimila e Berlino di seimila e trecento ettari. Ha edifici grandiosi,
grandi _boulevards_, parchi, ha centoquaranta chilometri di
pavimentazione in legno, un porto che è unico nel suo genere, un
impianto d'acqua potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî
pubblici straordinarî. L'esistenza di questa città è un fenomeno
puramente americano, di quelli che sfuggono in parte alla nostra
analisi.
La Buenos Aires d'oggi è sorta sull'antica città così, come un'impresa,
come una speculazione ben lanciata, in forza di uno di quegli
inesplicabili delirî collettivi che afferrano talvolta i popoli davanti
alla prospettiva della rapida ricchezza. L'Argentina appariva il paese
incantato che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità avvenire
venne ipotecata in una febbre di affari, i quali non avevano altra base
che delle speranze assurde. Le fonti della prosperità vennero trascurate
per delle speculazioni fantastiche: l'Argentina vera fu perduta di
vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano delle
fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva come se l'Europa intera
avesse dovuto rovesciarsi qua. I terreni aumentavano di valore fino
all'incredibile. L'affarismo escogitava delle imprese favolose. Si
arrivò a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni furono
pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Plata è morta, e si
visita come Pompei. I capitali e le braccia stranieri affluivano
attratti da rimunerazioni enormi. L'oro correva a rivi. Il Rio della
Plata meritava il suo nome. La disonestà trionfava. S'ipotecava per
centomila lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d'onestà, di
giustizia, di dignità, d'amor patrio erano travolti dalla febbre della
ricchezza. I governanti arricchivano e lasciavano arricchire le loro
clientele.
La _corrida_, come fu chiamata, cioè la corsa di depositanti alle
Banche, cominciò nel 1890 e finì nel 1891 col fallimento generale. Le
Banche argentine fallirono. Il Banco della Provincia di Buenos Aires
fallì per due miliardi. Era il terzo istituto di credito del
mondo--prima di divenirne il primo istituto di.... discredito. Centinaia
di milioni di sudati risparmî dei nostri emigranti furono perduti.
In quel violento, turbinoso accentramento d'affari e di lavoro si formò
la Buenos Aires d'oggi, che così cara costa alla Repubblica. Alla sua
vita manca la base.
Gl'interessi della capitale sono in contrapposizione a quelli delle
provincie. Con ciò che è costato l'abbellimento, il lusso e la comodità
di Buenos Aires, l'Argentina poteva mettersi comodamente in condizioni
da vincere in tempo la concorrenza di quei paesi che hanno la stessa sua
produzione: gli Stati Uniti, il Canadà, l'Australia, e fra poco si potrà
aggiungere la Siberia.
Invece all'Argentina manca il primo elemento di successo, che sarebbe
una viabilità a buon mercato e facile. La canalizzazione delle acque, la
navigazione dei grandi fiumi che vengono tutti a riunirsi, come le
stecche di un ventaglio, all'immenso Rio della Plata, hanno uno sviluppo
insufficientissimo. Le ferrovie, tutte in mano di Compagnie inglesi, per
il costo esagerato dei noli rappresentano uno sfruttamento rovinoso per
il produttore. Le ferrovie hanno poi una sfera limitata d'azione lungo
il loro percorso, tanto più ristretta quanto più elevato è il costo dei
trasporti; e non esistono strade. Se si esce da Buenos Aires non si
trovano comunicazioni. Tempo fa i soldati della guarnigione per recarsi
ad un nuovo campo di manovre, qui vicino, smarrirono la strada. Dai
grandi _boulevards_ in asfalto illuminati a luce elettrica si passa al
niente.
*
* *
La conseguenza è che certi prodotti argentini portati qui vengono a
costare come i prodotti analoghi europei sbarcati e sdaziati (e i dazî
sono molto forti). Il vino di Mendoza, per esempio, costa quasi come il
vino italiano.
In alcuni luoghi si lasciano i raccolti sulla pianta per l'impossibilità
del trasporto. Si prende ciò che necessita per l'uso locale. Un
diplomatico che ha visitato l'interno recentemente, mi raccontava delle
enormi quantità di grano abbandonato che marcisce nei pressi delle
stazioni ferroviarie per mancanza delle grandi somme necessarie al
pagamento del trasporto.
La difficoltà delle comunicazioni rende lento e poco proficuo il lavoro
di colonizzazione in tanti territorî, che per la loro fertilità si
presterebbero a culture fortunate, ma che si trovano situati lontani
dalle linee ferroviarie. La zona sfruttata deve essere forzatamente
limitata. L'Argentina non può estrinsecare tutte le sue energie. È come
un albero, ricco di frutti splendidi ma posti troppo in alto per
arrivarvi con le mani. E mancano le scale.
Vi sono dei prodotti necessarî, per esempio il legname da costruzione, i
quali vengono importati dal Canadà, dagli Stati Uniti, e persino dalla
Norvegia, e che si trovano in enorme abbondanza nel paese. Il trasporto
ne è impossibile. Si è costretti a comperare ciò che si ha in casa, e
che si potrebbe anche vendere.
La produzione argentina si trova perciò in condizioni d'inferiorità sui
mercati; il margine di guadagno è minimo. Basta che sopravvenga un
ribasso nei prezzi perchè si verifichi un ristagno disastroso, come
avviene ora nel commercio della lana, la quale forma una delle più
grandi produzioni del paese. Vi sono sul solo mercato di Buenos Aires
dodici milioni di chili di lane giacenti.
L'Argentina, immensa e varia, avrebbe delle risorse inesauribili. Con
tutte le condizioni difficili create al suo commercio, la sua
esportazione ha superato, nel solo corso di quest'anno, l'importazione
di circa cinquanta milioni di _pesos_ oro, ossia duecento cinquanta
milioni di lire. Ma la situazione creata a questo paese è tale che tutti
questi milioni di _superavit_ attivo bastano appena ad impedire un
peggioramento economico. Essi tornano all'estero sotto forma di
dividendi e di interessi.
*
* *
È Buenos Aires il centro della rovina argentina. Essa ha stornato dai
campi la ricchezza. Per un lungo e recente periodo l'affarismo ha fatto
di questa città come un'immensa bisca: da ogni parte si accorreva a
giuocare. Si giuocava sul valore dei terreni, degli edifici, sui
prestiti, sulle azioni dei Banchi, sulle azioni delle imprese più varie
e più assurde. L'enorme movimento del denaro aveva creato una prosperità
favolosa, ma fittizia. Lo sperpero era enorme. Lo _standard_ di vita
generale giunse ad un lusso senza riscontri. Il bisogno del lusso portò
alla disonestà sistematica. Una disonestà inaudita.
Le opere pubbliche di Buenos Aires sono state pagate molto ma molto al
disopra del loro valore. Centinaia d'intermediarî vi si sono arricchiti.
I ministri divenivano arcimilionarî. Si davano concessioni di favore ad
imprese d'ogni genere--le ferrovie, per esempio, e i lavori delle «Acque
correnti»--pur di guadagnarci sopra, abbandonando così il paese, mani e
piedi legati, allo sfruttamento straniero, senza speranza di redenzione.
«Après nous le déluge»--pareva che dicessero, come altrettanti Re Soli,
i governanti argentini!
E il «déluge» non s'è fatto aspettare. È caduto sotto forma di crisi
universale. Lo stato dell'Argentina è grave, ma non disperato. Solo
spaventa questo: che se la prosperità effimera creata dalla speculazione
epilettica, è scomparsa, non sono però scomparsi il lusso e altri
malanni che ne furono la conseguenza. I quali quando si attaccano ad un
uomo come ad un popolo mettono troppe radici per guarire presto.
Specialmente se non sono curati. E qui non lo sono, almeno quanto
occorrerebbe.
L'ARGENTINA E IL CAPITALE INGLESE.
[Dal _Corriere della Sera_ del 16 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
L'Argentina è finanziariamente nelle mani dell'Inghilterra. Tutte le
imprese più remunerative sono inglesi. Due di esse, la ferroviaria e la
bancaria, rappresentano da sole i coefficienti principali dell'attivo
nazionale: l'una comanda alla produzione, l'altra ai trasporti, ossia
alla commerciabilità della produzione. Esserne padroni significa avere
nelle mani la vita della nazione.
L'Argentina lavora per l'Inghilterra: tutta la differenza attiva fra
l'esportazione e l'importazione, ossia il guadagno, va a Londra sotto
varie forme. Il problema è troppo interessante per noi, che qui
rappresentiamo il lavoro, per non esaminarlo con attenzione.
*
* *
È nel periodo più nefasto della speculazione--giunta al parossismo sotto
la presidenza di Juarez Celman--che la egemonia inglese sugli affari si
affermò. Gl'inglesi hanno dimostrato una volta di più di essere degli
uomini pratici. Essi hanno saputo mantenersi estranei al delirio che
aveva afferrato tutti i latini arrivati qui, e profittare delle
circostanze con una antiveggenza sorprendente. E prima di tutto seppero
profittare ammirabilmente della corruzione governativa per ottenere
concessioni di favore, le cui condizioni stupiscono profondamente chi
non sa a quale punto di cecità e di, diciamo, mancanza di scrupolo erano
arrivati quei governanti.
Così si formano le Compagnie ferroviarie inglesi, le quali sono oggi
padrone di 12,684 chilometri di ferrovie, ossia di tutto il transito
della Nazione. A queste Compagnie il Governo garantisce un minimo di
utili sopra un capitale fissato, e non ha nessun diritto d'intervento se
non quando l'utile risultasse superiore a un elevato per cento. La
Compagnia ha mano libera su tutto, sui noli, sulle velocità, sugli
orarî, sugli stipendî agli impiegati, sui movimenti del personale. Gli
affari vanno benone. Vi sono delle linee che fruttano il dodici, altre
il quindici, altre anche di più: i noli si mantengono fortissimi, e
tuttavia il Governo non può intervenire: deve assistere indifferente a
questo sfruttamento enorme della produzione. Ed ecco perchè:
Le Compagnie, oltre al capitale fissato come base per i rapporti col
Governo, si sono riservate l'emissione di «titoli non commerciabili» al
4 e al 5 per cento, emissione che per una sapiente scappatoia può essere
illimitata. Gl'interessi su questi titoli gravano al passivo della
Compagnia e servono a ridurre gli utili alle proporzioni necessarie per
togliere al Governo ogni diritto d'intervento. Così in apparenza l'utile
è sempre inferiore alla percentuale sopra cui comincia la partecipazione
dello Stato, ma in realtà è maggiore, perchè i possessori di questi
titoli non sono che gli stessi azionisti della Compagnia.
Al Governo argentino è dunque tolto ogni e qualsiasi controllo sulle
proprie ferrovie. In forza di questo stato di cose, si è potuto vedere
in certe linee i noli aumentare nella proporzione da 45 a 92, e tuttavia
scemare gli utili. In forza di questo stato di cose, gli stipendî agli
impiegati inglesi possono arrivare a delle cifre principesche.
La produzione argentina intanto trova nei trasporti il più grave
ostacolo ad uno sviluppo rapido. Le Compagnie ferroviarie se ne curano
poco: esse sono in una botte di ferro.
*
* *
Ma se si esamina il funzionamento delle Banche nell'Argentina, si rimane
ancora più meravigliati. Leggere di cose bancarie argentine è divertente
quanto il leggere dei romanzi inverosimili. C'è del fantastico.
Osserviamo un Banco inglese--osservarne uno è come osservarli tutti--;
il «River Plate Bank ltd». Nell'89 aveva sessantamila azioni con un
capitale versato di seicentomila sterline, ossia di dieci sterline per
azione. Alla fine di quell'anno gli utili furono del 40 per cento, di
cui il 15 venne dato come dividendo e il 25 per cento fu capitalizzato,
di modo che l'azione da dieci sterline passò a rappresentare un capitale
di dodici sterline e mezza. Nell'anno appresso si ebbe un dividendo del
15 per cento sul nuovo capitale, ossia del 18.75 per cento sul capitale
versato, più un altro 25 per cento capitalizzato, e l'azione rappresentò
un capitale di quindici sterline. Nel 91 arrivò la catastrofe generale,
il fallimento delle Banche argentine, la moratoria concessa a tutti con
legge del Parlamento: fu un anno disastroso. E tuttavia il nostro «River
Plate Bank» ebbe un dividendo del 9.16 per cento sul capitale totale,
ossia del 13.75 per cento sul capitale versato. I dividendi hanno
continuato ad aumentare con un crescendo che non ha certo un riscontro
con l'aumento degli affari, che invece sono in pieno ristagno. Nel 92 si
ebbe il 18.75 per cento, nel 93 il 18.75 per cento, nel 94 il 22.50 per
cento, nel 95 il 24 per cento, nel 96 il 27 per cento, nel 97 il 30 per
cento, nel 98 il 30 per cento, nel 99 il 30 per cento, nel 1900 il 50
per cento. In dodici anni si ebbe dunque il 298.50 per cento di
dividendi, più il 116 per cento del fondo di riserva--che oggi arriva al
milione di sterline--ossia un 514.50 per cento di utili netti. Il 42.87
per cento all'anno!
Questi utili in affari di denaro qui non sono straordinarî, perchè qui,
come ho accennato, gli alti interessi, diciamo così, dominano. Ma
bisogna por mente che le Banche inglesi sono le più numerose, e
soprattutto le più forti. Le altre Banche non sono che dei satelliti nel
sistema planetario della finanza argentina, nel quale il capitale
inglese rappresenta il sole. Quale enorme assorbimento d'energia non
rappresentano da soli i dividendi che prendono la via di Londra? Il
«London e Brazilian Bank» ha dato quest'anno il 46 per cento di
dividendo, con tutto che nei cambî col Brasile questa Banca ha perduto
la bellezza di 84 mila sterline! Il totale dei dividendi delle Banche
inglesi si può certamente ritenere superiore ai tre milioni di _pesos_
oro, ossia ai quindici milioni di franchi, calcolando modestamente!
La supremazia delle Banche inglesi sul mercato argentino è una
conseguenza logica degli errori e delle colpe commesse nel periodo
dell'affarismo di recente memoria. Al sopraggiungere della crisi del
1891, caddero il «Banco Nacional» e il «Banco della Provincia de Buenos
Aires» e con essi l'Argentina perdette i due unici sostegni della sua
indipendenza economica. È vero che i sostegni funzionavano male! Le
Banche inglesi furono quasi le sole a resistere. Continuarono con calma
le loro operazioni riuscendo a vincere il panico dei depositarî. Le
Compagnie ferroviarie versarono nelle Banche inglesi i loro
introiti--gl'inglesi, beati loro, sono sempre uniti e d'accordo--e quei
milioni non arrivarono inopportuni per fronteggiare la crisi. Il cambio
giunse al 480%, e le Banche inglesi cambiarono il loro oro; quando il
cambio è sceso, dopo sette anni, al 206%, le Banche inglesi hanno
reintegrato, guadagnando così il 234 per cento. La loro posizione è
formidabile. Le ferrovie della provincia di Buenos Aires versano
settimanalmente 600,000 _pesos_ oro, e il solo movimento di denaro delle
Compagnie ferroviarie basterebbe alla vita delle Banche, senz'altro.
Ma il credito incrollabile che le Banche inglesi godono attira a
centinaia di milioni di _pesos_ i depositi privati: esse sono diventate
il tramite principale dei movimenti di denaro, sono divenute il centro
d'un enorme cumulo di affari bancarî.
*
* *
Tutto questo non basta. Gl'inglesi sono anche i detentori della maggior
parte del debito pubblico argentino, che è di trecentottanta milioni di
_pesos_ oro, vale a dire di un miliardo e novecento milioni di franchi.
Di modo che l'Inghilterra in interessi e dividendi assorbe alle finanze
argentine circa quarantasei o quarantasette milioni di _pesos_ oro
all'anno--cioè duecentotrenta o duecentotrentacinque milioni di
franchi--così ripartiti:
Dalle imprese ferroviarie 17 milioni e mezzo, dalle Banche 3 milioni, da
varie imprese 2 milioni, dalle finanze governative per interessi del
debito pubblico 24 milioni.
L'esportazione supererà quest'anno l'importazione, si calcola, di circa
cinquanta milioni di _pesos_. È chiaro che questo _superavit_ attivo è
insufficiente alla benchè minima capitalizzazione; gli sforzi della
produzione sono fiaccati.
Ma noi non abbiamo veduto che la supremazia finanziaria inglese; vi è
anche la supremazia commerciale. Le ferrovie hanno concessioni di leghe
di territorî lungo il loro svolgimento. Nelle regioni più fertili
abbondano le _estancias_ inglesi. I prodotti di queste _estancias_, per
la facilità dei trasporti e per i favori di cui godono, vengono ad avere
una posizione privilegiata sui mercati.
Oltre agli estancieros vi sono i commercianti inglesi, importatori ed
esportatori. Per quel sentimento di unione e solidarietà che è una delle
più invidiabili caratteristiche inglesi, ed anche in forza di quella
massima inglese che _the onesty is the best policy_--l'onestà è la
miglior politica--questi commercianti godono presso gl'istituti bancarî
inglesi di un credito illimitato. E, data la forza delle Banche inglesi,
questi commercianti sono d'una potenza enorme. La concorrenza con loro è
impossibile. Il commercio va scivolando nelle loro mani. I soli scambi
con l'Inghilterra si aggirano sui sessanta milioni annui di _pesos_ oro,
cioè sui trecento milioni di franchi all'anno!
*
* *
Concludendo: guadagna davvero chi ha saputo ed ha avuto i mezzi di
fare.
LE NOSTRE LETTERE DALL'ARGENTINA. CONTINUANDO....
[Dal _Corriere della Sera_ del 23 maggio 1902.]
Le prime lettere dall'Argentina, pubblicate nel _Corriere_, hanno
suscitato polemiche che l'amico lettore non ha forse dimenticato. Sono
stato accusato di malignità, di menzogna e di peggio.
Al momento di continuare la pubblicazione delle «lettere argentine»,
nelle quali riassumo la imparziale osservazione dei fatti, permettetemi
di parlarvi un poco delle pubblicazioni passate, per le quali tanti
attacchi feroci e ingiusti mi sono stati mossi.
Non è per difendere me; no, è per difendere la verità.
Qualunque sdegno di uomo offeso, qualsiasi legittima indignazione di
onest'uomo attaccato ingiustamente, qualsiasi scatto d'amor proprio
dolorosamente ferito sono ben poca cosa di fronte alla rivolta impetuosa
che divampa nell'animo di chi, conoscendo il vero, lo vede calpestato,
nascosto, lo sente negare senza pudore e senza vergogna. E specialmente
quando questa verità si riferisce a sofferenze, lotte, dolori, miserie e
lacrime di tanti e tanti nostri fratelli!
Qui la questione personale passa in seconda linea. Non vengo a parlarvi
della guerra sleale che mi è stata mossa, degli ostacoli frapposti alla
mia strada, delle ire e degli odî suscitati contro di me, come delle
minaccie e degli insulti che ne sono stati le conseguenze, delle
calunnie basse e ridicole con le quali si è aizzato contro di me il
furore della folla argentina, come per porre un supremo ostacolo al
compimento del mio dovere. Tutto ciò non interessa che me, al più.
Voglio invece parlarvi di quanto ho scritto, che è la verità; e la
verità interessa tutti.
È necessario che non solo sia conosciuta, ma creduta. Pensate che ora,
mentre ben trentatre Società operaie dell'Argentina lanciano agli operai
italiani un manifesto esponendo la loro miseria coi dati ufficialmente
riconosciuti esatti, continuano a salpare per quella Repubblica nostre
navi cariche d'emigranti, i quali vanno con la credula mente piena di
errori e l'anima piena di sogni; e proprio in questo momento un _maggior
numero_ di disgraziati lascia l'Argentina in cerca di pane; pensate a
questa enormità, che mentre migliaia di persone, le quali hanno vissuto
laggiù, che parlano la lingua del paese, che conoscono l'ambiente, si
riducono ad abbracciare la più disperata delle risoluzioni: la fuga,
altre migliaia di persone ignoranti di tutto, ossia in condizione di
enorme inferiorità, si dirigono ciecamente verso quella terra che li
affascina. L'umile posizione che questi allucinati abbandonano in Patria
e che ad essi sembra misera di fronte alla fortuna che sognano, diviene
precisamente la mèta agognata dalla triste e disfatta folla dei
disillusi fuggitivi. E chi può fuggire è pur sempre fortunato! Quanti
non ne hanno più la forza; oh! quando la miseria pone il piede
sul vinto non se lo lascia facilmente sfuggire! _Dodicimila e
quattrocentosessantotto_ emigranti hanno lasciato l'Argentina nel solo
mese di marzo, e dodicimiladuecento ottantatre vi hanno approdato!
Pensate a queste cifre, e ditemi se non è necessario e urgente che la
verità sia nota. Tutti questi nostri emigranti partirebbero forse se
conoscessero niente altro che le cifre dei rimpatri? Non cadrebbe la
benda dai loro occhi? Il tacere è un delitto.
*
* *
Le prime «lettere argentine» sono state conosciute nella Repubblica per
mezzo dei telegrammi dall'Italia diretti al giornale _La Prensa_. Quando
vi avrò detto che questi telegrammi, che poi altri giornali hanno
riportato, avevano dei titoli di questo genere: _Insultos à los
Argentinos_. _Nuevas apreciaciones injuriosas_. _Un enemigo de
l'Argentina_. _Opiniones falseadas_, ecc., vi avrò dato un'idea del modo
antipatico col quale le mie lettere sono state portate a conoscenza del
pubblico.
L'opera mia dunque è stata giudicata laggiù sulla base di questi
documenti: ebbene, con tutto ciò la stampa indipendente si è schierata
tutta dalla mia parte. E fra la stampa indipendente debbo notare prima
di tutto la stampa estera.
La _Patria degli Italiani_ ha dichiarato che quanto avevo detto era una
verità nota e ripetuta, e quando il testo delle lettere è giunto, lo ha
integralmente riportato. _The Standard_, organo della Colonia inglese,
ha detto fra l'altro:
«Queste corrispondenze potranno fare più bene della malsana massa
di altre pubblicazioni la cui schifosa adulazione eccita
sospetti. Siccome il paese è commercialmente, politicamente e
socialmente malato, il Barzini fa bene a dirlo, dissipando così
malintesi e disperdendo illusioni. Noi non crediamo che abbia
calcato le ombre, poichè queste crescono invece di diminuire;
l'incauto emigrante che crede di trovare integrità di governo e
di giustizia è messo in guardia. Togliendo di mezzo le false
idee, egli ci rende un buon servizio. I nostri migliori amici non
sono quelli che ci adulano, e la stampa indigena dovrebbe porsi
bene in mente ciò nel pesare il valore delle opinioni del
Barzini.»
_Le Courrier de la Plata_, giornale della collettività francese,
conclude così un articolo sulla questione, dopo avere accennato agli
errori dei Governi, ai furti ufficiali, ai _deficit_ dei bilanci, e agli
altri mali che rendono la situazione sempre peggiore e che compromettono
gravemente tutte le speranze fondate sull'avvenire argentino:
«Le ragioni che il Barzini invoca non sono che troppo fondate, e
i giornali del paese che le discutono l'accusano solo di
esagerazione.
«Non si gridi al partito preso di malevolenza! Gli articoli del
_Corriere della Sera_ segnalando il male, rendono un vero servizio
alla Repubblica. Il giorno in cui si terrà conto di questi
consigli e in cui si cambierà strada, le profezie favorevoli
espresse dal signor Martinez nelle sue conferenze, si
convertiranno in una realtà.»
Il _Correo Español_, organo della importante Colonia spagnuola, dopo
aver riportato i telegrammi della _Prensa_, accompagnandoli con
apprezzamenti lusinghieri per il _Corriere_, aggiunge, rivolgendosi alla
stampa argentina:
«Potrebbero i giornali indignati, con la mano sul cuore,
affermare che sono falsi questi giudizî?
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