L'Argentina vista come è - 09

Total number of words is 4350
Total number of unique words is 1813
29.7 of words are in the 2000 most common words
43.1 of words are in the 5000 most common words
51.3 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
_lincolns_ per gli ovini, e delle migliori razze di cavalli da corsa, da
tiro, da sella e da lavoro.
L'esportazione di bestiame ha raggiunto una media di mezzo milione circa
d'animali all'anno. Parola d'onore, di fronte a questa cifra ci sarebbe
da stupire della crisi argentina e delle profonde miserie di quella
Repubblica, se non si conoscesse che razza d'amministrazioni pubbliche
vi sono, che governi si succedono al potere, e che giustizia vi regna.
Uno studioso di scienze economiche che conosce profondamente le finanze
della Repubblica, mi diceva un giorno: Se si fosse dovuto studiare a
bella posta uno speciale sistema di governo e di finanza per rovinare
questo paese, non si poteva far di meglio che applicare i sistemi che
sono stati applicati!
*
* *
San Jacinto è arrivato improvvisamente, tanto più che tali profonde
meditazioni politico-finanziarie mi avevano conciliato un sonno non meno
profondo. Mi sono svegliato all'ombra di enormi eucaliptus
fiancheggianti un bel viale. Da una parte, fra i tronchi, vedevo una
distesa di giardino, fra il cui verde appariva una villetta rosa, una di
quelle villette americane basse e irregolari, così simpatiche e ospitali
con le loro verande, le loro balaustrate fiorite e i loro _patios_
freschi come cortiletti di convento. Come certe fonti pare che invitino
a bere, così queste case _criolle_ pare che invitino ad entrare. Fra gli
alberi, lontano, gruppi di casette, anch'esse color rosa, scuderie a
fascie rosse e bianche, tettoie, una chiesuola dal campanile acuminato.
Due _gauchi_ a cavallo hanno traversato galoppando il viale, lontano,
fra nembi di polverone.
Un gentiluomo in _reding-dress_ seguito da due grossi mastini inglesi è
comparso sul viale al rumore della vettura, e mi è venuto incontro
sorridendo. Era il capo dell'_estancia_, il governatore generale di San
Jacinto e del suo popolo mansueto.
Io lo credevo un estanciero _criollo_; e immaginino i lettori la mia
gioia quando mi sono sentito dare il benvenuto nel più puro idioma
bolognese. Ci siamo salutati con effusione.
--Domani--mi ha detto mentre mi conduceva nella casa--visiteremo
l'_estancia_, nelle ore fresche del mattino. Lei cavalca?
--Come un centauro... se il cavallo è molto docile.
--Bene, allora domani all'alba in sella.
E si è allontanato per dare degli ordini. Io mi sono gettato sopra un
molle _pliant_; avevo ancora negli occhi la gran luce, e tutto mi
appariva avvolto del seducente velo d'una tenebre misteriosa; il
silenzio assoluto e solenne della campagna sotto il sole cocente mi dava
il senso d'una sordità dolcissima. Il riposo era così completo, che io
l'ho assaporato lungamente, centellinando da buongustaio!


VITA MANDRIANA.
[Dal _Corriere della Sera_ del 25 giugno 1902.]

San Jacinto de Mercedes.
Il mio ospite, questo estanciero bolognese che mi fa gli onori di casa
della campagna americana--un simpatico tipo da romanzo, uno di quegli
avventurosi eroi alla Ohnet che ritrovano in una esistenza di rude
lavoro la ricchezza perduta per una gioventù spensierata e mondana--, mi
dice di amare molto la sua vita di solitudine selvaggia. E io lo credo
bene.
Egli ha conosciuto troppo la società per non preferire l'isolamento. Ha
vissuto troppo fra gli uomini per non amare le bestie. La bestia ha
sull'uomo questo vantaggio, che è infinitamente più buona. La cattiveria
è una prerogativa umana, e l'uomo domina più perchè cattivo che perchè
intelligente.
Basta viverla un po' questa vita dell'estancia per sentirne tutto
l'incanto. Non c'è nulla: comodità poche, varietà nessuna, un orizzonte
infinito e monotono, un silenzio perpetuo. È che il godimento non viene
dai beni presenti, ma dai mali assenti. È un po' la gioia del
perseguitato che si sente libero in un asilo tranquillo--e ogni uomo nel
consorzio dei suoi simili è sempre un perseguitato più o meno.
Pensavo queste cose stamani galoppando come un pazzo per la campagna,
nell'ora gloriosa dell'alba. Il primo raggio di sole dorava le cime
delle alte erbe ed i calici spinosi dei cardi colossali, mentre in
basso, raso terra, persistevano le ultime ombre violastre, come un
rimasuglio della notte. Intorno a me si levavano a nuvoli gli uccelli
schiamazzando. I cani del mio ospite mi seguivano abbaiando
festosamente. Ieri mi hanno accolto ringhiando, ma, dopo avermi annusato
con diffidenza e riconosciuto all'odore per un buon diavolo, hanno
sollecitato le mie carezze mugolando con l'aria di chiedermi scusa. Ora
sono miei grandi amici.
Disseminate per la pianura erano piccole mandrie di buoi, dalla schiena
fulva e lucida, pascolanti tranquilli. Due _gauchos_ sopraggiunti di
galoppo hanno cominciato a percorrere il campo mandando un grido strano,
un _ahooo!_ lungo e gutturale. Li ho veduti sparire lontano, fra le
erbe, con le camiciole svolazzanti nella foga della corsa come _blouses_
di fantini: poi sono tornati al loro galoppetto _criollo_, silenziosi e
tranquilli.
Stavo chiedendomi la ragione di quella corsa, quando ho osservato una
cosa strana. I buoi ai gridi dei due uomini hanno cessato dal pascolare,
levando il muso come per ascoltar meglio; poi si sono messi in cammino,
lentamente, senza fretta, da bestie che sanno il fatto loro, ruminando
per non perdere il tempo. Ecco che in un minuto tutte le mandrie sono in
moto, sfilano attraverso il campo da ogni parte dirette ad un punto
lontano, una radura senz'erba, dove s'adunano. È una specie di _meeting_
di buoi; arrivano, si fermano placidamente e aspettano. Dopo poco tempo
ve ne è una folla di migliaia.
Il mio ospite, che mi ha raggiunto, mi spiega che il luogo del convegno
si chiama _rodeo_, che i buoi li si aduna per «lavorarli», ossia per
scegliere i migliori, per selezionare i malati, per esaminare le loro
condizioni, per esporli ai compratori. Ma nessuno potrà mai spiegare
l'obbedienza spontanea di questi animali, che vivono nella completa
libertà, al grido d'un uomo. È uno dei più curiosi spettacoli che io
abbia mai veduto. I cavalli dei reggimenti accorrono ai segnali di
tromba perchè sanno di ricevere la biada; un'obbedienza interessata. Ma
al _rodeo_ queste povere bestie non ricevono nulla; per accorrervi anzi
lasciano la colazione a mezzo. L'abitudine spiega poco e l'istinto meno.
Cosa diamine passa per la mente d'un bue quando il _gaucho_ grida il suo
_ahooo_!?
*
* *
Questa volta i buoi sono stati adunati per scegliere fra loro i più
grassi destinati ad essere imbarcati per l'Africa Australe. I _gauchos_
a cavallo entrano fra l'enorme mandria, e col petto della cavalcatura,
addestrata a tale lavoro, spingono fuori il bue scelto, che appena
libero dai compagni, spaventato dagli urti, prende la fuga. Il _gaucho_
stringendolo col cavallo a destra o a sinistra ne regola la direzione;
quando lo ha condotto lontano in un luogo prestabilito, lo abbandona. Il
bue s'arresta, e si volge tranquillamente a vedere il suo persecutore
che si allontana, mentre altri buoi sopraggiungono sbuffanti a riunirsi
ad esso, formando a poco a poco la mandria dei grassi sfortunati.
Un grande bue fulvo si ribella. Balzato fuori dalla mandria, abbassa la
testa pesante e fugge pazzamente, con la coda sollevata, muggendo,
lasciandosi indietro l'uomo.--_El lazo! El lazo!_--gridano i _gauchos_
precipitandosi alla caccia. Il bue compie un giro cercando di
raggiungere il verde pascolo, e passa vicino a noi, terribile, con la
bocca aperta e bavosa, la lingua di traverso, gli occhi sanguigni.
Stormiscono gli sterpi sotto i suoi passi pesanti e precipitosi, e
lascia dietro di sè tutta una treccia di erbe abbassate e di cardi
spezzati, come una valanga nera e ruggente. I _gauchos_ lo rincorrono,
curvi sull'arcione. Agitano in aria il _lazo_ che sibila roteando. Il
primo laccio è lanciato; si svolge per l'aria come un serpentello lungo
e sottile, e cade sulla testa del bue. Ma il nodo scorsoio non ha fatto
presa; il bue scuote il capo correndo e si libera. Un secondo laccio
parte col grande nodo aperto. Il bue afferrato improvvisamente per il
collo si arresta; salta con la schiena ad arco; tempesta la terra con le
zampe poderose, mentre dalla gola strozzata dal laccio gli esce un
ululato terribile, lungo e lamentoso. Un altro _lazo_ destramente
lanciato gli afferra le zampe. Il bue cade agitandosi, si risolleva
terribile, ricade. È legato da quelle sottili corde di cuoio come
Gulliver dai fili dei lillipuziani. Il furore cede al terrore. Tenta di
liberarsi con un ultimo supremo sforzo, e resta in ginocchio, immobile,
sbuffante col pelo irto, con la testa bassa sul gran petto ansimante, la
bocca bavosa, mandando ad intervalli un muggito disperato che sembra il
pianto mostruoso di un gigante vinto.
A questo punto il mio amico mi grida: Guardate, guardate gli altri! e mi
accenna le mandrie. Tutti i buoi assistono alla lotta, attenti come gli
spettatori d'una _plaza de toros_. Non ve n'è uno che non guardi. I più
lontani sollevano il muso per veder meglio, e lo appoggiano dolcemente
sulla groppa del vicino. Qualcuno si fa strada a forza fra i compagni
per giungere alla prima fila, e lì si arresta, col collo teso, i grandi
occhi fissi, attenti e meditativi. Sotto la selva delle corna sono
migliaia d'occhi curiosi, che esprimono una meraviglia calma e
dignitosa. Quando il bue domato entra nella sua mandria, ancora tutto
fremente, col muso rigato dal sangue che cola da un corno spezzato, i
compagni lo circondano premurosamente, lo annusano, lo fiancheggiano e
lo seguono, quasi per fargli coraggio, per recargli il conforto delle
loro simpatie e della loro solidarietà. La povera bestia si rifugia nel
centro del gruppo, accompagnata da un vero corteggio.
Nessuno ha mai pensato a studiare la vita di queste grandi società
bovine: il bue sembra un animale completamente noto, e non è vero.
Lasciato libero forma delle tribù, ubbidisce a dei capi, segue delle
leggi che noi non conosciamo; ha delle speciali manovre d'offesa e
difesa contro i nemici comuni; sottomette poi tutta la sua
organizzazione sociale al supremo controllo dell'uomo per ragioni
misteriose.
Il cavallo è certo molto meno intelligente. Il cavallo libero ha per
maggiore caratteristica la paura. È più timido di una gazzella. Non è
possibile avvicinare una mandria di cavalli senza provocare ciò che qui,
con un vocabolo pieno d'espressione, si chiama _disparada_. La
_disparada_ è una fuga frenetica. Uno spettacolo superbo.
*
* *
Quando ci siamo diretti, dopo un galoppo di qualche ora, verso la parte
dell'estancia destinata all'allevamento dei cavalli, ero già prevenuto.
Al nostro appressarci alla prima mandria tutti i cavalli hanno sollevato
la testa nella espressione di «all'erta» con le orecchie dritte e
immobili. Poi, quando siamo stati a cinquanta passi, e potevamo
scorgere perfettamente le forme gentili di questi cavalli _criolli_, che
pare conservino ancora un po' del sangue dei loro padri arabo-spagnoli,
è avvenuta la _disparada_. Quei due o trecento cavalli si sono
precipitati ad una fuga furibonda.
Andavano tutti uniti; facevano pensare ad una carica di cavalleria senza
i cavalieri. Non abbiamo più veduto che una moltitudine di schiene dai
lombi contratti nello sforzo d'un furioso galoppo, uno sventolamento di
criniere e di code. I cavalli hanno fatto dei pazzi giri per la pianura,
giri capricciosi senza ragione apparente, fino a che si sono calmati e
hanno ripreso a pascolare lontano lontano.
Queste fughe di cavalli sono pericolosissime per chi si trova sulla loro
strada. Il cavallo spaventato è cieco; investe qualunque ostacolo. Il
_gaucho_ sorpreso da una _disparada_ non ha che una via di salvezza:
fuggire nella stessa direzione; unirsi alla mandria. Succede allora
talvolta che egli perde il controllo della sua cavalcatura, ripresa
dall'istinto selvaggio, e deve seguire la fuga capricciosa fino alla
fine, prigioniero di quell'uragano di bestie. La _disparada_ era la più
terribile arma degli indiani contro le truppe argentine. All'appressarsi
dei soldati adunavano tutti i loro cavalli in grandi mandrie, poi, al
momento opportuno, gridando e sventolando il _poncho_ provocavano la
fuga nella direzione dei nemici. Non vi era salvezza; la _disparada_
rovesciava e calpestava compagnie intere.
Nella Pampa lontana e deserta avvengono talvolta delle fughe di cavalli,
causate dalle punture dei _mosquitos_. Comincia una mandria a fuggire,
verso la direzione del vento, per liberarsi delle nuvole di insetti che
la tormenta. Ad essa altre se ne aggiungono, ed altre ancora. Si forma
un esercito di cavalli che passa come un ciclone sollevando immense
colonne di polvere; lo scalpitìo, simile al brontolare lontano della
bufera, si ode da lungi e il _gaucho_ che lo conosce bene fugge ventre a
terra per assistere al passaggio di quella fantastica emigrazione dalla
maggiore distanza possibile.
*
* *
Entriamo nei _corrales_, i grandi recinti dentro i quali si chiudono i
cavalli selvaggi per gettar loro il _lazo_. Un bel puledro è stato
afferrato col laccio alle gambe e al collo. Sei _gauchos_ saltati di
sella tentano di tenerlo fermo, tirando le corde. Il cavallo rantolante
per la gola serrata s'impenna, impunta le gambe appaiate dai lacci e
trascina a tratti gli uomini con un moto pauroso del collo. Il domatore,
un giovane bruno i cui lineamenti tradiscono il sangue indiano, vestito
nel tradizionale costume della pampa, la camiciola ricamata e il
_chiripà_ rimboccato alla cintura come la vestaglia degli arabi, si
appressa cautamente sostenendo l'ampio _recado_, la sella gaucha. Il
_recado_ è tutto il patrimonio del _gaucho_. È formato da un po' di ogni
cosa; vi è una coperta, un _poncho_, una pelle di guanaco: durante i
riposi diventa letto, diventa sedile, diventa tetto. Il _recado_ è la
casa dell'uomo della prateria. Ogni cura egli pone nell'abbellirlo,
nell'aggiungervi ornamenti d'argento, staffe di corno intagliato, nastri
colorati, fiocchi di seta; il _recado_ è il suo orgoglio.
Il domatore tocca con la mano carezzevole il collo dell'animale, che dà
un balzo, fremendo, quasi pieno di orrore e di disgusto più che di
paura; il disgusto di un sovrano prigioniero che si senta toccare da
mano plebea. I lacci si tendono nello sforzo unito dei sei uomini; in
questo momento la sella scivola dolcemente sulla groppa del cavallo.
L'animale si getta a terra in un parossismo di furore.
Gli uomini gli si precipitano addosso. È una lotta di pochi istanti,
dopo la quale il cavallo scalpitando si leva in piedi, completamente
bardato, il suo muso sporco di polvere e di sangue è ingabbiato
nell'immonda testiera dal largo morso e all'addome è accinghiato
strettamente il _recado_ variopinto. Ma ha un'aria così minacciosa, con
la criniera eretta, gli occhi ardenti, le narici aperte e sbuffanti, che
gli uomini rinculano in giro come i _capeadores_ intorno al toro ferito
che si risolleva muggendo. Non hanno però abbandonato le redini, e
cautamente, con l'aiuto di cavalli addestrati, vecchi complici che lo
sospingono, è condotto all'aperto.
Allora, lentamente, con un fare noncurante e dinoccolato, il giovane
indiano si appressa alla bestia. Dà una calma occhiata investigatrice
alle fibbie e ai nodi della bardatura, si stringe sui fianchi l'alta
cintura ornata d'argento e poi risolutamente balza in sella d'un colpo
afferrandosi alla criniera.
Il cavallo resta per un momento immobile, come stordito da tanto ardire,
con i garetti tesi, i muscoli contratti. Quindi si solleva sulle zampe
posteriori e si rovescia a terra. Dopo un istante fra i folti nembi di
polverone si vede il cavallo di nuovo in piedi scalpitante. Spicca salti
terribili, furibondo, ma sulla sua groppa rimane l'uomo, curvo sulla
criniera, impavido, saldo. Improvvisamente il cavallo prende la fuga e
si allontana in un galoppo infernale verso l'orizzonte infinito, che il
miraggio abbellisce di tremuli laghi sui quali i lontani boschetti di
eucaliptus si specchiano nitidamente.
Pochi minuti dopo torna al piccolo galoppo, tutto intriso di schiuma,
con gli occhi smorti e la bocca insanguinata, umile, obbediente alla
volontà di quel fanciullo attaccato alla sua groppa: domato.
Povero sovrano della prateria! Chi sa che non sarà proprio lui a
ricondurmi tra qualche mese--attaccato ad una modesta vettura di
piazza--all'imbarco sulle banchine del Porto Madero!
*
* *
Abbiamo continuato il nostro giro per l'estancia, sotto un sole torrido
che accecava e stordiva. Ed ho un ricordo vago di quella corsa per prati
senza fine. Rammento delle grandi tettoie presso un boschetto, sotto le
quali ingrassano dei buoi colossali e delle pecore che sembrano enormi
batuffoli di lana bianca, destinati a figurare in non so quale
esposizione di bestiame: e delle scuderie divise in _boxes_, dai quali
sporgono le teste di nobilissimi cavalli inglesi la cui genealogia mi
veniva illustrata da un _trainer_, inglese puro sangue anche lui, che da
venti anni è nell'Argentina e non parla spagnuolo. «Non parlo _ancora_
castigliano, _not yet_»--mi ha detto flemmaticamente.
--Oh!--ho risposto--è questione di tempo!
Rammento un _toril_ dove sultaneggiano dei tori mastodontici venuti
dall'Inghilterra, i quali hanno ai loro ordini servi e scudieri;
rammento numerose famiglie di struzzi che fuggivano davanti al nostro
galoppo, simili a gruppi di piccoli cammelli con due sole gambe.
Dopo sei ore di cavallo ho cominciato ad accorgermi che la sella
indigena è deplorevolmente incomoda; che il sole del gennaio
sud-americano dà dei punti a quello del nostro agosto; che la pianura
sconfinata ha--come il mare--le sue attrattive, ma che qualche gruppo
d'alberi--come un po' di terraferma in navigazione--sarebbero d'una
comodità indiscutibile.
Ma la fatica, il caldo e la sella incomoda ho presto dimenticato laggiù
nel fresco _patio_ della villetta rosa, dondolandomi nell'amaca. E
pensando alla vita della prateria ho provato una grande compassione per
me stesso che andavo a rituffarmi nella vita sociale, laggiù a Buenos
Aires.
Bella cosa esser _gaucho_! Perchè, vedete, il cavallo selvaggio, il toro
furioso, la tormenta della Pampa, il sole tropicale sono tutte cose
pericolose, non c'è dubbio; ma, non è forse peggio, qualche volta, quel
mostro che chiamiamo... «il nostro simile?»


IL LAVORO ITALIANO NELL'ARGENTINA.
[Dal _Corriere della Sera_ del 29 giugno 1902.]

In una voluminosa pubblicazione, edita or sono tre anni per cura d'un
Comitato della «Camera Italiana di Commercio» di Buenos Aires,
pubblicazione di carattere ufficiale che è una specie di bilancio
dell'opera nostra nell'Argentina, al capitolo dell'industria si legge:
«E _noi_ (italiani) cerca questa ospite terra, alle _nostre_ braccia si
apre, e il _nostro_ sudore domanda per fecondarsi. _Noi_ abbiamo steso
per tutte le linee di ferro; _noi_ strappati i metalli alle vene delle
roccie; _noi_ staccati i marmi e i graniti dalle montagne e svelti i
tronchi dalle radici; _noi_ innalzate al cielo le moli dei palazzi e dei
tempî; _noi_ addolciti i costumi, infiorata la vita; dischiuse le
intelligenze. Che ci manca? Il coraggio di dire di noi ciò che è nel
pensiero di tutti e sulle labbra di molti!»
Sante parole!
Ebbene, abbiamolo una buona volta questo coraggio della verità, senza
trepidare per suscettibilità offese e per risentimenti sollevati. Che è
mai «nel pensiero di tutti e sulle labbra di molti?»
È che noi italiani siamo le api operaie di quel grande alveare; è che
l'Argentina esiste e vive in virtù del lavoro italiano. Senza di noi non
avrebbe produzione, non avrebbe nè agricoltura, nè industria, non
avrebbe teatri, palazzi, porti, ferrovie. È il lavoro dei nostri
connazionali che ha veramente creato l'Argentina d'oggi, la quale senza
di esso non avrebbe nessuna potenza economica, come un Guatemala od una
Bolivia qualunque.
*
* *
Giungendo a Buenos Aires i grandi piroscafi transatlantici s'inoltrano
lentamente in un canale lungo ventun chilometri, scavato nel fondo del
torbido Rio della Plata e segnato sulle acque agitate con centinaia di
boe e segnali luminosi. Chi ha tracciato questo solco colossale nel
letto del fiume? Degli operai genovesi. S'incontrano rimorchiatori che
trascinano affannosamente le navi all'entrata del porto. Le loro piccole
ciurme sono italiane. Ogni tanto i piroscafi passano rasente a dalle
enormi draghe. Chi sono quegli operai che le manovrano lavorando sotto
al sole cocente, in mezzo al frastuono degli immani macchinarî? Sono
italiani: ecco, riconoscono la bandiera della patria a poppa della nave
che passa, si sollevano dal lavoro, guardano pensosamente, e salutano.
Si appressa un vaporino, una scala è gettata e compare il pilota sul
ponte. È italiano.
Si arriva al porto--la cui grandezza stona, in questi tempi di crisi,
con la pace che vi regna, ora che le settantasette gru idrauliche sugli
enormi scali sono in troppa parte inoperose. Chi ha fondato, costruito,
eretto, armato, montato tutto questo? Operai italiani. Il granito delle
grandi pareli dei bacini e dei _docks_ viene dal Tandil, dove braccia
italiane lo strappano alle colline, lo spezzano, lo sagomano, lo
trasportano. Laggiù fra le lontane solitudini migliaia d'italiani,
riuniti in poveri villaggi, lavorano le cave di granito che italiani
hanno scoperto: e il rombo del loro lavoro echeggia per le valli
deserte--quando una crisi politica o economica non li snida e non li
ricaccia affamati, come nel novanta e come adesso, nella mandria immensa
dei senza lavoro!
Dal ponte della nave ormeggiata l'occhio spazia sulla città, i cui mille
pinnacoli, cupole, campanili si ergono sulla moltitudine dei tetti.
Tutto ciò che si vede è stato fatto da braccia italiane. Il lavoro
materiale italiano entra in proporzione del _novantasei per cento_ su
quanto si fa laggiù.
Nel 1855 Buenos Aires non era che una ben misera città, fangosa e
sporca. Le case piccole, basse, primitive, costruite senza calce con
informi mattoni e fango, non avevano altro di buono che il _patio_: cioè
a dire che la parte migliore della casa era fuori di casa. Persino
l'abitazione del dittatore Rosas, che per venti anni ha imperato
sull'Argentina, non era che una misera stamberga che fino a due anni fa
si poteva vedere ancora in piedi ma pencolante, come quelle vecchie case
inglesi dell'epoca d'Elisabetta, in Holborn, che tanto piacevano a
Dickens.
In quell'epoca circa giunse laggiù il primo architetto. Era italiano,
milanese. Poi altri lo seguirono. A questi nostri compatriotti si
debbono le pi ime costruzioni civili di Buenos Aires. Già le braccia
italiane giungevano in numero sufficiente per eseguire i loro progetti.
Sorsero i primi palazzi, e poi dei teatri, degli ospedali, delle scuole.
Braccia italiane costruirono senza posa. Da quell'anno sono state erette
più di cinquantamila case; ossia tutta la città è rinata dalle sue
maceriuzze fangose. E, se non in ogni costruzione è entrata la mente
italiana, certo tutte sono dovute al lavoro materiale di quelle macchine
umane che noi esportiamo gratis. E là ne abbiamo mandato per un valore
di forse sette miliardi, se è giusto il calcolo degli americani del nord
che attribuiscono ad ogni emigrante il valore di mille dollari.
Se per un miracolo tutto ciò che è prodotto dal lavoro italiano potesse
scorgersi, assumesse un colore speciale, rosso, supponiamo, si vedrebbe
Buenos Aires tutta intera, dal fiume ai campi dell'ovest, imporporarsi
come sotto il riflesso d'un incendio sterminato. Da lì il colore di
fuoco serpeggerebbe lungo tutte le ferrovie, lungo i fiumi, accenderebbe
i battelli che li percorrono, e le città che toccano, i canali che vanno
a irrigare le arse pianure di Cordoba e di Mendoza e di San Juan: si
propagherebbe allargandosi per i campi di Santa Fè, di Rosario, di
Buenos Aires, di Entre Rio, e giù al sud tingerebbe Bahia Blanca e il
suo grande porto militare che il talento italiano ha ideato e braccia
italiane hanno costruito. Non una città, non una colonia sfuggirebbero.
Non so se mai si farà una carta geografica che mostri il lavoro dei
popoli, come si fanno le carte idrografiche per indicare l'altezza delle
pioggie nei differenti paesi, e le carte etnografiche che mostrano le
varie razze umane sparse pel mondo. Certo è che su questa carta
l'Argentina tutta, dal Chaco alla Terra del Fuoco e dalla Cordigliera
delle Ande al Plata, dovrebbe essere dipinta del colore indicato nel
margine da queste parole: Lavoro italiano!
*
* *
L'Argentina non aveva agricoltura prima che i coloni italiani andassero
a dissodarne le sconfinate pianure. La Spagna, all'epoca della sua
dominazione, forniva le farine; poi le fornì il Cile. «In gran parte la
ragione di tale trascuratezza--dice un culto studioso della materia,
Giacomo Grippa, in una monografia comparsa nel libro di cui ho parlato
in principio--è da cercarsi nella indolenza degli abitanti, che non
cedette a nessun tentativo che si facesse per scuoterla.» L'agricoltura
argentina, che forma la principale ricchezza del paese, è un prodigio
italiano. Si pensi che i campi di Santa Fè, di Cordoba e di Entre Rios,
da dove questi prodotti vengono, erano _pampas_, pianura selvaggia,
senz'acqua, coperta da vegetazione sterposa, da cardi, da cactus, e che
sono i nostri contadini che l'hanno resa fertile, con anni e anni di
lavoro assiduo tenace. Si pensi che la conquista di tanto territorio è
costata tanto sacrificio di vite italiane, quanto nessuna guerra nostra.
Dall'agricoltura sono nate le industrie, con le quali il paese si è
emancipato dall'estero per alcuni prodotti di prima necessità. E gli
iniziatori dell'industria argentina sono quasi tutti italiani. Perchè,
vedete, si potranno trovare dei _figli del paese_ concessionarî di
lavori, intraprenditori, impresarî; talvolta commercianti;
rarissimamente industriali; operai mai.
La coltura estensiva richiedeva macchine. Qualche povero fabbro italiano
audace e volonteroso tentò di copiare le macchine straniere che
capitavano nelle sue mani per le riparazioni. Riuscì. La sua fucina si
ampliò a poco a poco, divenne officina, divenne fonderia. Dopo una lotta
lenta, assidua e tenace come il battere del suo martello, vide il suo
stabilimento aumentare, ed ergersi le ciminiere fumanti nel cielo; udì
sempre più prepotente intorno a lui lo strepito infernale e divino del
lavoro. Trovò imitatori: altri stabilimenti sorsero. Gli opificî fondati
da italiani producono i tre quinti del totale lavoro del ferro in tutta
la Repubblica. O meglio producevano, perchè ora tanti forni sono
spenti, tante macchine immote, tante officine silenziose.
Altre industrie affini a quella del ferro sono sorte per opera
d'italiani: fabbriche di mulini, di bilancie, di oggetti d'ogni metallo.
L'industria dei metalli è quasi tutta italiana.
E qui un'osservazione, per dissipare un pregiudizio molto diffuso e
dannoso. Le fabbriche e le imprese dovute alla iniziativa e al lavoro
italiani non possono chiamarsi italiane che impropriamente, perchè il
capitale che ne è l'anima si è formato laggiù, vi è radicato
profondamente, è argentino, là si sviluppa e lascia tutti i suoi frutti.
Disgraziatamente la mente che ha ideato e diretto il lavoro produttore,
e le braccia che lo hanno eseguito, che sono italiane, non possono
considerarsi che come apparecchi e macchine di precisione la cui
provenienza è indifferente per la nazionalità dell'impresa. È necessario
por mente a questo per non cadere in errore nell'apprezzare il _valore_
dal punto di vista nostro, di quanto vado nominando come italiano.
Quando si dice opificio, fabbrica, banca, commercio o impresa inglese o
You have read 1 text from Italian literature.
Next - L'Argentina vista come è - 10
  • Parts
  • L'Argentina vista come è - 01
    Total number of words is 4064
    Total number of unique words is 1657
    33.9 of words are in the 2000 most common words
    48.0 of words are in the 5000 most common words
    55.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 02
    Total number of words is 4279
    Total number of unique words is 1853
    30.5 of words are in the 2000 most common words
    44.6 of words are in the 5000 most common words
    51.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 03
    Total number of words is 4172
    Total number of unique words is 1551
    32.6 of words are in the 2000 most common words
    47.3 of words are in the 5000 most common words
    54.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 04
    Total number of words is 4190
    Total number of unique words is 1646
    31.2 of words are in the 2000 most common words
    46.4 of words are in the 5000 most common words
    53.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 05
    Total number of words is 4189
    Total number of unique words is 1698
    31.9 of words are in the 2000 most common words
    48.1 of words are in the 5000 most common words
    56.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 06
    Total number of words is 4190
    Total number of unique words is 1703
    32.8 of words are in the 2000 most common words
    46.1 of words are in the 5000 most common words
    53.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 07
    Total number of words is 4318
    Total number of unique words is 1731
    31.6 of words are in the 2000 most common words
    47.6 of words are in the 5000 most common words
    55.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 08
    Total number of words is 4318
    Total number of unique words is 1798
    30.8 of words are in the 2000 most common words
    44.8 of words are in the 5000 most common words
    52.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 09
    Total number of words is 4350
    Total number of unique words is 1813
    29.7 of words are in the 2000 most common words
    43.1 of words are in the 5000 most common words
    51.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 10
    Total number of words is 4254
    Total number of unique words is 1711
    31.5 of words are in the 2000 most common words
    46.8 of words are in the 5000 most common words
    53.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 11
    Total number of words is 4297
    Total number of unique words is 1546
    36.3 of words are in the 2000 most common words
    51.0 of words are in the 5000 most common words
    57.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 12
    Total number of words is 4386
    Total number of unique words is 1668
    32.2 of words are in the 2000 most common words
    46.4 of words are in the 5000 most common words
    54.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 13
    Total number of words is 4276
    Total number of unique words is 1650
    33.2 of words are in the 2000 most common words
    47.4 of words are in the 5000 most common words
    53.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • L'Argentina vista come è - 14
    Total number of words is 2153
    Total number of unique words is 955
    39.9 of words are in the 2000 most common words
    54.0 of words are in the 5000 most common words
    60.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.