L'Argentina vista come è - 14

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suoi polli. Una colonia di gallesi stabilitasi da 28 anni nel Chobut, ha
protestato presso il Governo patrio contro molte ingiustizie delle quali
era vittima. In simili casi noi scambiamo dei telegrammi col Governo
argentino,--se non ci limitiamo ai colloquî col suo rappresentante in
Roma--riceviamo le abituali e recise smentite accompagnate da commoventi
assicurazioni d'amicizia e di simpatia e ci dichiariamo contentoni. Il
Governo inglese conosce il valore di certe assicurazioni ufficiali. È
più pratico: esso ha inviato una Commissione d'inchiesta a vedere e
riferire. La Commissione è giunta alla chetichella, evitando ogni
contatto con le autorità per non intralciare l'azione del suo Governo, e
si è messa al lavoro. Ha constatato delle cose da far fremere
d'indignazione ogni buona anima anglo-sassone, ed ha riferito. Il
Governo inglese ha offerto a quei coloni delle terre al Canadà. In un
momento, per pubblica sottoscrizione, a Londra, si sono raccolte
ottantamila lire per le spese di viaggio, ed ultimamente i gallesi del
Chobut sono tornati a rifugiarsi ancora all'ombra protettrice
dell'_Union Jack_. Tutto questo è passato senza che venisse scambiata
col Governo argentino la minima nota, che avrebbe procurato o bugie o
inutile tensione di rapporti.
Così pure l'Inghilterra ha agito per la chiusura dei suoi porti al
bestiame argentino, in seguito alla tentata introduzione in Inghilterra
di buoi argentini affetti d'afta epizootica. Ogni tanto il Governo della
Repubblica dichiara che l'afta non c'è più; il Governo inglese, per
conto suo, rinnova un'inchiesta presso gli _estancieros_ inglesi, in
conseguenza della quale i porti seguitano a essere chiusi.
*
* *
È inutile continuare il paragone tra l'opera della nostra diplomazia in
America e l'opera delle altre. Per ragioni che non dipendono certamente
nè dalla volontà, nè dalla qualità dei nostri rappresentanti, ma da
tutto un sistema sbagliato, la nostra diplomazia, almeno laggiù, non
risponde a tutti i suoi scopi.
Essa ha una missione che è politica, economica ed umanitaria; ebbene,
noi laggiù siamo poco temuti e poco rispettati, poco tutelati e poco
difesi.
Questa è l'amara verità.


CONCLUDENDO SULL'ARGENTINA.
[Dal _Corriere della Sera_ del 5 settembre 1902.]

Scrivendo le mie prime lettere dell'Argentina, non avrei creduto di
dover intrattenere in seguito il lettore così a lungo sulle cose di
quella Repubblica. Intendevo di tracciare rapidamente, come meglio
potevo, la fisionomia di quel paese dove tanti italiani vivono,
riportare semplicemente le impressioni di quello strano stato di cose
osservato con occhio italiano. Ma le prime pubblicazioni assunsero un
carattere per me assolutamente inaspettato: quello di rivelazioni.
Le brevi e presto spente polemiche sollevate in quel momento,
dimostrarono che quanto scrivevo riusciva per molti nuovo. Ho creduto
mio dovere d'offrire i più ampi particolari, di non attenermi più alla
semplice esposizione delle mie osservazioni personali, ma dimostrare,
con la maggiore larghezza di prove, fatti e documenti, la verità.
Scrivendo da laggiù, tutto mi potevo immaginare, fuori che di dire cose
nuove per noi. Non riportavo certo delle storie segrete: chi vive e chi
ha vissuto nell'Argentina le conosce bene pur troppo. Si tratta di una
situazione nota a milioni di persone, della quale centinaia di giornali
locali scrivono ampiamente e uomini politici discutono; si tratta di
fatti tangibili, controllati da tutto un popolo, i quali possono essere
giudicati in un modo o in un altro, a seconda la coscienza o
l'abitudine, ma che sono fatti; si tratta di tutta la vita speciale d'un
paese, per un buon terzo di sangue italiano, e nella quale nulla v'è di
misterioso e di celato. E noi, noi italiani che più di ogni altro popolo
avevamo il diritto ed il dovere di sapere tutto, noi, nella maggioranza,
ne sapevamo poco o nulla.
*
* *
Questo fatto ci condanna. Noi possiamo gridare contro le ingiustizie e
contro gli inganni che così spesso attendono i nostri poveri emigranti,
ma non potremo con questo toglierci di dosso la parte di responsabilità
che noi abbiamo di quei mali. La nostra colpa si chiama indifferenza.
Da trent'anni la nostra emigrazione si dirige nelle regioni del
Sud-America, attiratavi in tutti i modi, e noi non abbiamo quasi sentito
il bisogno di sapere esattamente che cosa avvenisse di questo torrente
di popolo che abbandonava la patria. Qualche voce onesta si è levata di
tanto in tanto a denunziare delle infamie di cui sono vittime i nostri
emigranti, ma s'è spenta senza lasciare una eco lunga e profonda nella
coscienza pubblica. Si è trovato che l'emigrazione era una necessità, un
bisogno, come una valvola di sicurezza che ci salvava dai pericoli della
sovrapopolazione, e questa constatazione ha servito troppo di scusa alla
nostra indifferenza. E quando, dopo tanti anni, abbiamo pensato ai
nostri emigranti, non abbiamo visto che le miserie della loro partenza;
e non spingendo lo sguardo più lontano del mare abbiamo rese migliori le
condizioni del loro viaggio, senza por mente che il viaggio è niente, è
il brevissimo esordio delle loro sofferenze, è la soglia della loro
nuova vita, una soglia che può essere indifferentemente rude o levigata.
Di quei paesi e della vita che vi si svolge noi abbiamo avute relazioni
interessate--sulle quali è degno sorvolare--le quali non ci hanno
mostrato che i lati belli e seducenti. Abbiamo visto le ricchezze e
abbiamo visto i progressi, e ce ne siamo accontentati, senza domandare
quanto queste bellezze costavano del nostro sangue. Non abbiamo
domandato le tavole della mortalità, non abbiamo visto i caduti
dell'immenso esercito nostro, che ha traversato a squadre l'Atlantico
per combattere silenzioso, sotto altra bandiera, la più disperata
battaglia.
Nulla abbiamo saputo, nella nostra maggioranza, dei tranelli, dei
soprusi, delle violenze e delle ingiustizie che tanto spesso attendono i
nostri lavoratori--come potevamo porgere aiuto, tutela e difesa? Le cose
americane ci sono sembrate tanto lontane, che non ci hanno interessato
che vagamente, come curiosità. Così abbiamo lasciato che quei mali
crescessero, ingigantissero, divenissero endemici, pressochè incurabili.
*
* *
Non possiamo pensare seriamente a rimediare al passato: siamo costretti
ad assistere allo spettacolo di tanti dolori e tanta miseria impotenti a
portarvi sollievo. Molta parte di tante sciagure è dovuta a cause sulle
quali noi non possiamo nulla. Il Governo argentino ha il diritto pieno
di essere cattivo o pessimo, di fare debiti e d'imporre gravami al
popolo, di reggersi come meglio crede, di ruinare o no le finanze del
paese.
Ma il passato può servirci di scuola per l'avvenire. La crisi argentina,
per quanto grave, volgerà ad una soluzione; quel Governo--che già ha
destinato non lievi fondi per la propaganda all'estero in favore
dell'emigrazione--aprirà alla colonizzazione nuovi territorî non ancora
sfruttati: la corrente emigratoria si riformerà, e fino ad una nuova
crisi le cose cammineranno bene (bene nel senso generale dell'economia
pubblica, intendiamoci).
Ebbene, profittiamo di questa sosta per preparare la nostra emigrazione.
Facciamo in modo che le illusioni scompaiano dalla fantasia delle nostre
masse prima che queste si muovano di casa, prima che la stessa dolorosa
e irreparabile realtà laggiù venga con le lacrime più amare a lavar via
i loro sogni. Che emigrino, ma emigrino armate e pronte. Che sappiano
tutto dall'A alla Zeta, che conoscano il buono e il cattivo, che possano
agire con la loro mente e con il loro criterio illuminati dalla piena
conoscenza delle cose, che conoscano i sentieri della riuscita e anche i
precipizî che li costeggiano, le trappole che vi sono tese, le imboscate
preparate. Allora solo avremo un'emigrazione forte, cosciente, utile a
sè e alla patria.
In questa santa propaganda sta il nostro primo dovere: ma non basta.
Regoliamo la nostra emigrazione. Prima che essa si muova pretendiamo di
sapere dove andrà e che lavoro le è riserbato; domandiamo delle
garanzie. Se per la colonizzazione d'un nuovo territorio occorrono
cinquantamila lavoratori, ci siano note le condizioni del lavoro e le
forme di contratto. L'emigrante partendo deve potersi dire, supponiamo:
Vado nella tal regione, avrò tanta terra, a questi patti, che mi
convengono. Gli emigranti meridionali potranno scegliere le regioni più
calde, quelli dell'alta Italia le temperate. Tutto questo non può
avvenire laggiù dove gli emigranti appena sbarcati si agglomerano
nell'attesa che si disponga di loro, ignari di tutto, nell'impossibilità
materiale, una volta disseminati per la Repubblica, di reagire, di
protestare, di far ascoltare la propria voce.
E quando è giunto sul posto l'emigrante non deve essere abbandonato
dalla vigile tutela della Patria, l'osservanza dei patti deve venir
controllata con i mezzi più rapidi, più serî e più discreti.
*
* *
Guardiamo l'emigrazione sotto il suo vero aspetto. Non si tratta già di
zavorra che noi gettiamo per andar più leggeri, come una comoda teoria
vuol far credere. Non si tratta di poveraglia della quale dobbiamo
essere felici di disfarci, ringraziando quei paesi che le offrono la
tradizionale «ospitalità generosa», come si ha il coraggio anche oggi di
ripetere da certuni. No, no, la cosa è, grazie a Dio, molto più degna:
si tratta in fondo di domanda di mano d'opera da parte dei nuovi paesi,
e da parte nostra. È un commercio di forze, nobili forze dalle quali
tutto scaturisce; forze motrici della civiltà. Noi non siamo affatto
costretti a gettarle via; la sovrabbondanza di mano d'opera in Italia
non è assoluta, ma relativa alla penuria che altri ne hanno. Tanto è
vero che la corrente emigratrice subisce variazioni d'importanza non
tanto per mutamenti di condizioni nostre quanto per mutamenti di quelle
dei nuovi paesi, e le statistiche dell'emigrazione nell'Argentina lo
dicono; se l'Argentina non migliorerà la sua situazione, vedrà che la
nostra «zavorra» può anche restare a casa. V'è domanda e offerta;
possiamo dunque trattare.
Il Governo nostro ha compreso vagamente questo quando, sulla fine dello
scorso anno, ha proposto al Governo Argentino di fare un esperimento di
emigrazione scelta per la colonizzazione, sotto date condizioni,
cominciando con alcune centinaia di lavoratori. Era un principio
d'interessamento. Ma il Governo argentino, che incondizionatamente ha
ricevuto l'anno passato trentun mila emigranti italiani, ha evitato ogni
trattativa declinando l'offerta. Bisognava impedire l'emigrazione
incondizionata, e si sarebbe venuti a trattative. Noi non conosciamo che
due estreme misure in fatto d'emigrazione, egualmente cattive: o
proibirla assolutamente per un dato paese, o permetterla senza limiti,
senza freni e senza misura. Per l'emigrazione in certi Stati dovremmo
porre delle condizioni. Se esse non vengono accettate vorrà dire: o che
non v'è richiesta di lavoro--e allora è sempre bene che gli emigranti
non partano--; o che non ve alcuna intenzione di garantire gli emigranti
degli abusi, le frodi, le violenze e le ingiustizie--e allora è
egualmente bene che gli emigranti non partano, per risparmiarsi
inevitabili dolori e disinganni, o che si dirigano altrove, dove i loro
diritti siano meglio riconosciuti e più rispettati.
*
* *
È bene che l'opinione pubblica in Italia cominci ad interessarsi
seriamente a quanto avviene al di là dell'Atlantico. Al Governo
argentino è mancato assolutamente finora il controllo dell'opinione
straniera, e questo controllo potrà migliorare molte cose più di tutte
le diplomazie riunite.
Il popolo argentino tiene immensamente all'apparenza. «Il nostro ideale
non consiste nell'acquistare valore»--ha scritto un uomo politico
argentino, Agostino Alvarez--«ma nell'acquistare importanza». È una
caratteristica tutta spagnuola questa, di coprire fieramente con un bel
mantello tutte le proprie macchie e le proprie miserie. Sempre negli
scritti e nei discorsi traspare il pensiero: Che si direbbe all'estero
se si sapesse che....? L'«estero» è per loro come l'opinione pubblica
per un privato. Quanta gente non fa del male non perchè non ne avrebbe
voglia, ma perchè ha paura che si sappia? Così gli argentini agirebbero
forse meglio se sapessero di essere osservati. E a noi importerà poco
che il bene venga consigliato dall'orgoglio e dall'amor proprio
piuttosto che dalla convinzione, purchè il bene venga.
È così vero questo, che ora, in seguito a pubblicazioni sulle cose
argentine fatte dalla parte più seria ed autorevole dalla stampa
inglese, pubblicazioni nelle quali la Giustizia, le amministrazioni, il
Governo, le finanze dell'Argentina venivano crudamente descritti, sono
cominciate laggiù serie discussioni sopra nuove e importanti riforme.
Le riforme forse non verranno, ma se ne parla, e questo per l'Argentina
è già un bel risultato dovuto tutto al controllo dell'opinione pubblica
straniera, che per gli argentini è una cosa tanto nuova quanto
fastidiosa.
Noi più degli inglesi abbiamo interesse, non solo, ma dovere di tenerci
informati delle faccende argentine. Essi vigilano i loro capitali; noi
abbiamo da vigilare i nostri fratelli. La differenza è infinita. Le
disgrazie inglesi nell'Argentina sono scritte in belle cifre al «dare»
del libro mastro: non esiste cifra che possa segnare il valore di tutti
i dolori, le angoscie, le disperazioni, le lagrime e il sangue, che
formano la somma delle disgrazie nostre.
*
* *
Se potessi esser certo di aver col mio povero lavoro contribuito a fare
una parte minima di bene, io mi sentirei felice. Ma i mali sono tanto
vasti, profondi ed antichi, che io, ponendo oggi la parola «fine» a
questa mia rapida esposizione delle cose argentine, non posso sottrarmi
a quel senso di amarezza e di sconforto che accascia chi sente d'aver
compito un lavoro inutile, e s'accorge della sproporzione immensa fra le
proprie forze e lo scopo che si era prefisso.

FINE.

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