L'Argentina vista come è - 11

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normale dei nostri spiriti; la discussione ci piace. Anche quando siamo
in due abbiamo sempre qualche idea altrui da combattere e qualche idea
nostra da patrocinare. È un difetto latino; le nostre anime si avvolgono
nell'antica toga sempre pronte all'orazione. Le discussioni sprizzano
fuori dall'urto delle opinioni come le scintille dall'urto dei corpi, e
noi amiamo soverchiamente queste scintille della discussione. Da questo
viene il caratteristico chiacchierìo tumultuoso della nostra folla a
cui si contrappone il mutismo solenne e impressionante della folla
inglese, per esempio, della quale si ode il rumore, ma non la voce. Una
folla anglo-sassone o teutonica agitata da un entusiasmo è unita persino
nell'_evviva!_, col suo _hip, hip, urrah!_, e canta in coro. E il canto
collettivo--anche quando è stonato--è il segno migliore dell'accordo.
Questo nostro spirito di scissione noi lo troviamo esagerato negli
italiani all'estero, e specialmente in America. La massa della nostra
emigrazione, come già abbiamo avuto occasione di rilevare, proveniente
da paesi diversissimi, misera e incolta nella generalità dei casi, è nel
complesso deficiente di quelle qualità che formano il carattere
nazionale. Per di più la necessità del lavoro la divide: la lotta
accanita per l'esistenza o per la fortuna fa di un uomo quasi
l'avversario d'ogni altro uomo. Le preoccupazioni della vita attuale
distolgono la mente dalle cose della patria, le cui conseguenze, del
resto, non sono più immediate; la distanza e il tempo annebbiano e
discolorano quanto si è lasciato indietro; sulla nuova terra altre
tradizioni ed altre usanze fioriscono e fanno dimenticare le antiche;
ogni cosa, insomma, concorre ad allentare i vincoli dell'unione. Infine
l'allargarsi d'una nuova civiltà offre a tutte le ambizioni in
concorrenza l'esca di nuovi onori, reali e fittizî.
L'onore che è più a portata di mano laggiù è dato dalla carica di
presidente, di consigliere, di segretario, di qualche cosa insomma di
una società italiana. Vi sono società italiane utili e benemerite della
collettività, ma ve ne sono molte il cui scopo è proprio quello di
fornire delle cariche sociali ai soci, un titolo onorifico da sostituire
al cavalierato che il democratico regime americano non ammette. Le
cariche sociali vi si cambiano a turno una volta all'anno. Così chiunque
può diventare il _señor_ Presidente; il che in Republica è
straordinariamente lusinghiero. Un distintivo all'occhiello, il diritto
di prendere la parola in un Comizio o di mettere il proprio nome in
fondo ad un manifesto, esercitano un'attrazione straordinaria.
Quando una società comincia a diventare troppo numerosa, subito la
minoranza, priva di cariche sociali, si stacca in massa e fonda una
nuova società. Molte associazioni italiane si riproducono per scissione,
come i bacilli.
Da questa straordinaria quantità di associazioni l'unione non è certo
cementata; è una fermentazione di rivalità, di antipatie, di ambizioni e
anche d'interessi, un lavorìo demolitore, un indebolimento doloroso, una
corrosione lenta e continua della compagine morale della nostra colonia.
Quando una gioia o un lutto della Nazione fanno battere all'unisono
tutti i cuori italiani, quando giunge dalla Patria un grido d'entusiasmo
o di dolore, allora si compie per un momento il miracolo dell'unione,
allora tutte le bandiere, gli stendardi e i simboli degli innumerevoli
gruppi italiani si vedono riuniti per le vie agitati dallo stesso
fremito, in mezzo ad un popolo, un altro popolo italiano, che è mosso da
uno stesso amore. Si ha in quel momento la visione rapida, di fronte
all'imponenza della massa enorme, della irresistibile possanza della
nostra unione. Ma è un momento! Il giorno dopo, la discordia ricomincia
il suo triste lavoro di tarlo, che sgretola, polverizza e disperde
l'anima italiana.
*
* *
Non parliamo delle associazioni e dei circoli che hanno per scopo il
divertimento; essi si comprendono; il loro moltiplicarsi o il loro
diminuire non ha alcuna influenza sopra l'unione della collettività.
Anzi la loro presenza è un bene perchè i nostri connazionali vi trovano
un sollievo e un riposo, che senza tali _clubs_ dovrebbero cercare in
ambiente straniero. Esaminiamo invece quelle associazioni il cui scopo
non è il divertimento, ma l'interesse. Nella sola Buenos Aires vi sono
sopra a cinquanta Società di mutuo soccorso e di previdenza.
La prima di queste società la _Unione e Benevolenza_ venne fondata nel
'58. In quell'epoca la forma di mutuo soccorso s'imponeva, era l'unica
garanzia per i lavoratori dispersi in un paese nuovo, e anche l'unica
forma di difesa che fino allora la previdenza collettiva avesse trovato.
La scissione si è manifestata subito nella prima società, dalla quale si
distaccò, tre anni dopo dalla fondazione, la _Nazionale Italiana_. E
altre e altre si formarono; dalla _XX Settembre_ si stacca la _Nuova XX
Settembre_. Sorgono la _Colonia Italiana_, l'_Unione Operai Italiani_,
l'_Italia Unita_, la _Giovane Italia_, e nello stesso anno l'_Italia_
(senza aggettivi); più tardi la _Nuova Italia_, l'_Italia Risorta_,
l'_Italia al Plata_, e--ironia dei nomi--l'_Unione Italiana_. Due
società di mutuo soccorso prendono il nome di _Vittorio Emanuele II_,
due di _Cavour_, due di _Umberto I_. L'associazione di mutuo soccorso
_Galileo Galilei_, non è la stessa--come potrebbe credersi--della _Eppur
si muove_. Una serie di associazioni si forma in nome della fratellanza:
_Unione e Fratellanza_, _Progresso e Fratellanza_, _Fratellanza
Artigiana_... Si formano associazioni femminili di mutuo soccorso:
l'_Unione e Benevolenza femminile_, la _Margherita di Savoia_, la
_Figlie d'Italia_, la _Società femminile_...
È facile immaginare quanto tale suddivisione di capitali, di
amministrazioni e di forze direttive sia a tutto nocumento del mutuo
soccorso. Ma dall'84 comincia a far capolino una ben più grave e
dolorosa divisione, che viene a scindere non soltanto gl'interessi della
collettività, ma i suoi sentimenti di patriottismo e di amore; intendo
parlare del regionalismo. Sorge prima una _Unione Meridionale_ che
accentua la triste rivalità fra il nord e il sud. Segue la _Stella di
Napoli_, poi una _Partenope_, dalla quale naturalmente si distacca una
_Nuova Partenope_; poi l'_Unione Calabrese_, il _Circolo Sannitico_, la
_Veneta di M. S._, l'_Abruzzo_, la _Magna Grecia_, l'_Unione Sarda_, la
_Ligure di M. S._, il _Centro Pugliese_, i _Figli di Sicilia_ e via via.
Tutti questi innumerevoli aggruppamenti, aventi un unico scopo, non
erano proprio necessarî; le antiche piaghe delle nostre fraterne
discordie, cicatrizzate in Patria, si riaprono laggiù. Lo spirito
italiano, non troppo forte all'inizio, ne è sempre più indebolito. E la
Patria disgraziatamente non esercita quell'azione tutelare, al di sopra
di tutte le lotte di campanile, azione che dovrebbe essere come una
dolce amorosa protezione materna sui figli lontani. I figli crescono in
discordia quando la madre non li cura!
*
* *
Il mutuo soccorso si è cristallizzato nell'antica forma perchè non ha
mai avuto la forza, data la suddivisione ad oltranza dei capitali, di
trasformarsi nella moderna assicurazione. Le molteplici società di mutuo
soccorso nella sola Capitale hanno quasi ognuna una sede propria, per la
quale si è immobilizzata grande parte del capitale sociale. I soci
pagano una tassa mensile che varia intorno ad un _peso_ e mezzo (L. 4
circa) per avere la visita medica gratuita nei periodi di malattia, e
una piccola pensione di un _peso_ circa al giorno fino alla guarigione,
pensione che decresce secondo norme stabilite e che in certi casi
diviene minima. Riunite tutte queste associazioni bonearensi, compresa
la _Società di Beneficenza_ in una, si avrebbe un sodalizio con
venticinque milioni di capitale, con settantamila soci che, pagando
premî minimi, verserebbero sette milioni circa di franchi all'anno.
Quante miserie sollevate, quante lacrime asciugate, quante rovine
scongiurate! E sopra tutto quale forza prodigiosa non verrebbe ai nostri
connazionali da questa unione d'interessi, e quale indipendenza?
Alcune delle società che ho nominato, e specialmente le più antiche,
debbono essere considerate al di fuori del meschino battagliare delle
ambizioni e delle rivalità. La loro colpa è quella di non aver compreso
quanti danni venivano per riflesso alla Patria ed alla colonia per la
loro disunione, e di non essersi modificate col volgere degli anni. Ma
in compenso queste associazioni hanno prodigato tanto bene nella
collettività, da esse sono partite nobili iniziative, e la loro azione,
per quanto divisa, ha avuto sempre per movente l'amore all'Italia,
riuscendo a mantenere più a lungo che fosse possibile i vincoli fra la
Madre Patria e i suoi figli lontani.
La _Società di Beneficenza_ da cui dipende l'Ospedale italiano, ha
potuto curare sopra a quarantamila infermi, in venticinque anni; la sede
dell'Ospedale, da pochi mesi inaugurata, costa tre milioni circa, e non
ha nulla da invidiare alle migliori cliniche.
Undici di queste associazioni italiane di Buenos Aires, e dieci nelle
provincie, hanno diritto sopra le altre alla nostra più viva simpatia e
alla nostra riconoscenza, perchè mantengono a loro spese delle scuole
italiane. Esse hanno compreso che solo la scuola poteva essere il mezzo
per tenere vivo nella colonia il sacro fuoco dell'amor di Patria. Hanno
lottato contro ogni difficoltà con perseveranza e patriottismo per
cercar di dare ai figli d'italiani un po' d'anima italiana. Sono
riusciti? Questo esamineremo spassionatamente più avanti. Alla questione
delle scuole italiane è legato il grave problema dei «figli d'italiani»,
che vivamente c'interessa, perchè rappresenta il problema dell'avvenire.
Per ora osserviamo che le scuole italiane di tutta la Repubblica
Argentina sono frequentate solo da tremila e cinquecento bambini, debole
cifra se si pensa al numero grande di italiani che vivono laggiù.
Così la scuola italiana non può avere una profonda e vasta influenza
sulle generazioni che crescono; essa resta come un simbolo, più che come
istituzione viva e vivificante; un simbolo per il quale lottano tanti
patriotti generosi. Ma pure, anche se quelle scuole non dovessero avere
altro risultato che questa santa lotta per l'italianità, non potrebbero
dirsi inutili. Dove si lotta, sia pure perdendo, è segno che si vive.
Tutto è meglio dell'indifferenza.
Ma nelle scuole, come disgraziatamente in quasi tutto quanto parte dalla
iniziativa italiana, troviamo il segno d'una profonda divisione come un
peccato originale. Ogni scuola fa da sè, come ogni società fa da sè.
Si è parlato qualche volta di unione, ma vi sono grandi interessi--non
nostri questi--cui giova mantenere debole l'elemento italiano, e molte
piccole ambizioni--nostre queste purtroppo--che si nutrono delle
scissioni.
Chi sa, forse, che se dalla Patria--la quale con più affetto dovrebbe
vigilare e proteggere i suoi figli--partisse la voce della concordia e
dell'amore, non verrebbe ascoltata!
Se la Madre parlasse, chi sa!


I FIGLI DEGLI ITALIANI.
[Dal _Corriere della Sera_ dell'11 agosto 1902.]

È stato molte volte scritto e detto che non v'è popolo che emigrando si
assimili maggiormente alle nuove genti e ai nuovi paesi dell'Italiano.
È un elogio od un rimprovero? Tutti e due; a seconda del punto di vista.
Si comprende che questa qualità appaia una grande virtù agli occhi degli
ospiti, una virtù che centuplica i vantaggi della emigrazione,
togliendole tutti i pericoli; ma si comprende anche che agli occhi degli
altri questo potere di assimiliazione sia una grande debolezza.
Assimilarsi vuol dire finire d'essere italiani.
L'italianità infatti--specialmente nell'America latina, dove certe
affinità di razza rendono la trasformazione più rapida e completa--non
resiste sempre fino alla seconda generazione. I figli degli italiani,
nella generalità dei casi, non sono più italiani. Mancandoci essi, ci
manca l'avvenire.
Senza stolti ed ambiziosi sogni di espansione politica, e di dominî, noi
abbiamo certamente diritto di pensare che alla nostra espansione di
razza, a questo dilagare per il mondo di centinaia di migliaia di
italiani all'anno, corrisponda almeno una espansione della nostra forza
morale; che l'italianità non venga soffocata; che resti un culto per la
grande Patria, un riconoscimento delle sue glorie antiche, fra le genti
che il lavoro e la scienza italiana arricchiscono d'opere e d'idee.
Le legislazioni americane, da quella degli Stati Uniti a quelle di tutte
le altre repubbliche, che ne sono più o meno una derivazione, si
oppongono a che il figlio di cittadini stranieri nato sul suolo
americano sfugga alla cittadinanza americana. Ed è giusto. Senza di ciò
oggi l'America non sarebbe certo degli americani. La vecchia legge
europea ha lottato lungamente, ma ha dovuto cedere alla necessità. Data
la natura e la estensione della emigrazione nostra in America, il
pretendere che i figli d'italiani nati laggiù conservassero la
nazionalità dei padri compiendo i doveri di cittadinanza dal di là
dell'Oceano, era assurdo. Ma non parliamo qui certo della italianità
materiale; si tratta dell'anima italiana. È lei che scompare nei figli.
Potranno certi retori gridare--e lo gridano--che non è vero, ma il fatto
resta innegabile, inconfutabile.
Noi vediamo nell'Argentina i figli d'inglesi, ottimi cittadini
argentini, ma inglesi nel sentimento, inglesi nel carattere, nella
lingua; pronti a dare la vita per la nuova patria, ma con la mente e col
cuore pieni della loro vecchia Britannia, palpitanti per le sue sciagure
ed esultanti per le sue vittorie. Nel Chobut, da ventotto anni, viveva
una floridissima e popolosa colonia di Gallesi, in parte figli dei primi
pionieri e nati argentini, ma parlanti la loro aspra lingua, gelosi
custodi delle loro tradizioni, fieri della loro storia. L'anno passato
questi Gallesi protestarono indignati contro certi atti della Giustizia
Argentina; una inchiesta ordinata dal Governo inglese riconobbe le loro
ragioni, ed essi, dopo ventotto anni di residenza nell'Argentina,
abbandonarono in maggioranza il paese per piantare le loro tende nel
Canadà, ritornando più Gallesi di prima. Nel Brasile vi sono dei
Municipî tedeschi nei quali tutti gli atti si scrivono in tedesco. I
figli d'italiani--nella generalità dei casi, s'intende--non sono
italiani, nè nella lingua, nè nel sentimento. È colpa loro? È colpa dei
loro padri? No; il male è qui, in casa nostra.
*
* *
La prima caratteristica d'un popolo è la sua lingua. La lingua è il più
grande vincolo fra gli abitanti d'una stessa nazione; è, per modo di
dire, il segno primo di riconoscimento, come un gergo fra gli affiliati
d'una stessa immensa associazione. Sul marciapiede d'una città
straniera, quando fra il vocìo esotico della folla è dato di udire una
parola del nostro idioma, noi ci volgiamo rapidi, col cuore pieno d'una
subita gioia come se la voce di un amico ci avesse salutato, e ristiamo
presso allo sconosciuto che parla la nostra lingua, trattenendo la
voglia di stendergli la mano, di gridargli: «Sono italiano anche io!
venite qui, non mi lasciate!»--e lo guardiamo con tristezza mentre si
allontana, sentendoci ripiombare nella soffocante melanconia della
solitudine. Parlare la propria lingua all'estero significa respirare un
po' d'aria della Patria; due parole, un saluto, bastano a sollevare il
nostro spirito, come se quelle parole venissero da «là»; è tutto quanto
di più caro abbiamo nella vita che ci parla in quel momento; poche
parole del nostro idioma bastano a far compiere all'anima un rapido
viaggio in luoghi amati e lontani, e farla tornare più lieta e serena.
«Parla la lingua della gran Patria tua»--ha scritto Ruggero Bonghi. «Non
senti come attraverso questa si sprigiona e si manifesta ogni idea della
tua mente, ogni moto del tuo cuore? Nessuna lingua è più bella della
tua. Nella tua lingua si rispecchia la storia della patria. Di secolo in
secolo le generazioni, che hanno preceduto la tua, vi hanno deposto il
loro animo e ve lo hanno trasmesso. Quando tu la parli nella purezza
sua, tu vivrai non solo con patrioti che vivono, ma ancora con quelli
altresì che hanno vissuto prima di te, e niente di forestiero ti
penetrerà nell'anima».
Nella lingua è il segreto dell'unione, il baluardo della nazionalità.
Ebbene, quanti italiani in Italia parlano italiano?
I colti tutti; ma noi sappiamo che disgraziatamente essi non formano la
maggioranza nella massa emigratrice. Gli altri parlano ligure, parlano
siciliano, romagnolo, lombardo, napoletano, piemontese, ma non italiano.
La nostra lingua non va più al nord di Pistoja e più al sud di Roma. Un
povero lavoratore abruzzese si troverà di fronte ad un suo compagno
d'emigrazione ligure, come di fronte ad uno straniero. Mancherà lo
slancio dell'affratellamento. Essi non potranno parlarsi, perciò non
potranno conoscersi. E per amarsi bisogna conoscersi. Ecco forse la
prima e più grave ragione della dispersione, della scissione e della
discordia.
Ci troviamo di fronte a questa dura verità; che se tutti i francesi
parlano--più o meno--il francese, tutti gl'inglesi l'inglese, i tedeschi
il tedesco e i russi il russo, la maggioranza del popolo italiano non
parla italiano. Come possiamo pretendere che avvenga all'estero, quello
che non avviene in Italia? L'emigrato che non conosce che il suo
dialetto, dovrebbe studiare l'italiano come una lingua nuova; è assurdo.
Quando deve imparare una nuova lingua impara la più utile: quella del
paese.
Ora, possono i figli di questi nostri emigranti conoscere l'italiano,
se non è noto nemmeno ai loro genitori? Certamente no. E mancando la
lingua italiana manca loro la base dell'italianità, il vincolo più forte
con la Patria d'origine.
Per di più, all'infuori dell'idioma, i padri, che non conoscono spesso
essi medesimi le grandezze e le glorie del loro Paese, i quali,
talvolta, nella loro miseria hanno sentito come un senso d'inferiorità
di fronte ai «nativi» e che hanno udito spesso il rimprovero umiliante
della loro origine condensato in una parola di scherno, questi padri che
nel loro affetto per i figli cercano di sottrarli alla condizione che ha
messo tanto amaro sul loro pane sudato, e vogliono perciò renderli
eguali agli _altri_ più che sia possibile, questi padri, dico, potranno
soffiare nell'anima dei loro piccoli un vigoroso spirito d'italianità?
No; e chi di loro fa eccezione--ed eccezioni vi sono--compie un atto di
eroismo.
Un'altra causa s'aggiunge: la donna. L'emigrazione italiana, come tutte
le emigrazioni di lavoratori, è nella massima parte formata di uomini. I
poveri non possono permettersi il lusso di portare lontano le loro
donne. E con esse lasciano a casa la ricchezza inestimabile delle
tradizioni, delle antiche credenze, degli affetti domestici. La donna
vive nella casa e per la casa, sia pure essa un tugurio; la sua anima
non disperde energie all'infuori della casa; si attacca al posto dove ha
speso tutto il tesoro del suo amore, della sua attività, dove ha
lavorato, sofferto, gioito, s'imbeve dello spirito di quei luoghi, ed
anche trasportata lontano, al di là dei mari, vivrà sempre nella casa
antica, e vorrà che tutto quanto la circonda gliela ricordi e gliela
rievochi. Le rimembranze d'un uomo spaziano per monti e per valli:
quelle d'una donna sovente non escono da quattro mura. Ogni donna che
emigra porta con sè chiuso nel cuore un piccolo lembo della Patria. Ne
parlerà ai suoi figli, sempre; imparerà loro le preghiere che ella vi
ha imparato; conterà loro le leggende che essa vi ha appreso; farà sì
che l'amino, poichè essa l'ama.
Ma le donne italiane che emigrano sono poche. Una gran parte dei nostri
emigranti dispersi per la Repubblica Argentina si maritano con delle
donne del paese, con delle _criollas_, spesso con delle brune _chinitas_
figlie della Pampa, misere e fiere come i cardi delle loro pianure.
Nulla d'italiano nella casa, e i figli crescono ignari della patria del
padre, se non sdegnosi.
Quante volte non è dato di udire i figli d'italiani chiamare il padre
loro: _El viejo gringo!_--Il vecchio gringo!...
*
* *
Il Governo Argentino, il cui più legittimo desiderio è quello di
argentinizzare gli stranieri, ha avuto paura di una possibile diffusione
della lingua italiana, e l'ha combattuta. Nelle scuole superiori
pubbliche argentine si impara per obbligo il francese e l'inglese o il
tedesco; l'italiano no. Ciò in un paese dove vive circa un milione
d'italiani, e anzi appunto per questo. Da anni un Comitato italiano a
Buenos Aires, composto di buoni patriotti, domanda lo studio
obbligatorio dell'italiano nelle scuole; ora è riuscito ad avere
l'aderenza di tutte le principali Società italiane. L'agitazione si è
fatta sentire, certo, ma udire? La nostra lingua non è trattata finora
nemmeno a parità di condizione con le altre. Il nostro spirito nazionale
non può esserne che depresso. Alle menti infantili appaiono la Francia,
la Germania, l'Inghilterra, la Spagna, attraverso le loro letterature,
come le sole nazioni degne d'essere conosciute. L'Italia viene alla
coda. Tutto questo influisce moltissimo nell'animo dei figli d'italiani,
i quali poi molte volte vedono nell'ignoranza del padre come una prova
della inferiorità italiana, e nella povertà dei nuovi emigranti l'indice
della miseria nostra. E si confermano argentini con fierezza, e con
tutto lo zelo esagerato del neofita, il quale si mostra sempre il fedele
più fedele, perchè ha il passato da far dimenticare e perdonare. Nel
nostro caso si tratta di far dimenticare e perdonare la origine
italiana, che bene spesso è taciuta, dissimulata e talvolta negata.
Con lo studio della lingua italiana sarebbero rivelate loro bellezze e
grandezze che non sanno, ricchezze che non immaginano, glorie che nessun
paese potè mai vantare.
Il problema dei figli d'italiani è antico quanto l'emigrazione, e si
presentò già triste e sconfortante fin da circa quarant'anni or sono
alla mente dei patriottici fondatori delle prime scuole italiane
nell'Argentina.
La scuola sola poteva dare il rimedio a tanto male. Nella scuola l'anima
del fanciullo si scalda dei primi entusiasmi come un ferro alla forgia.
Gli uomini e i paesi che impara ad amarvi esso li amerà per tutta la
vita, perchè le prime impressioni rimangono profonde nella tenera cera
del suo sentimento d'adolescente. Nella scuola si forma la sua
coscienza, perchè ivi comincia a distinguere il bello dal brutto e il
buono dal cattivo. Occorreva una scuola italiana che fosse anche scuola
d'italianità, e a questo scopo, verso il 1866 sorsero a Buenos Aires le
scuole delle Società _Unione e Benevolenza_ e _Nazionale Italiana_.
Dieci anni dopo vennero istituite le scuole femminili della _Unione
Operai Italiani_; nel '77, quelle della _Colonia Italiana_, e l'anno
dopo quelle dell'_Italia Unita_. Nell'84 sorgono le scuole della Società
_Venti Settembre_ e l'asilo dell'associazione femminile _Margherita di
Savoia_; nell'86 le scuole dell'_Italia_, nell'87 quelle della _Patria e
Lavoro_, nel '90 le scuole della _Umberto I_, nel '94 quelle della
_Nuova Venti Settembre_, e nel '97 le scuole della _Cavour_.
Tutte queste scuole sono sorte per fermo volere di benemerite persone
degne di tutta la nostra riconoscenza, le quali hanno dedicato loro ogni
energia, in mezzo alle opposizioni più accanite; opposizioni di soci
egoisti che non volevano si stornassero per le scuole i fondi
predestinati al mutuo soccorso; opposizioni di uomini e giornali
argentini che scorgevano nelle scuole italiane un _peligro nacional_;
opposizioni passive e schernose di scettici e disamorati.
Oggi vi sono quindici scuole italiane a Buenos Aires. È confortante. Ma
osservandole si vede subito che queste scuole sono troppo per numero e
troppo poco per forza, e che i loro risultati non sempre sono quelli che
potrebbero sperarsi. Non basta fare una scuola; bisogna guardare anche
un po' a che cosa deve servire; occorre sempre proporzionare l'intensità
e la natura d'uno sforzo allo scopo. Lo spirito d'italianità laggiù
languiva, incerto, senza spinte, freddo ed inerte come una nave
disarmata in balìa del mare; la scuola sarebbe stata la sua vela,
spiegata per raccogliere nelle sue pieghe bianche e frementi tutti i
soffî vivificanti dell'entusiasmo patriottico, per riunirli, farne una
forza che spingesse e dirigesse. Occorreva questa grande vela
all'abbandonata navicella dell'«italianità», e vi hanno spiegato invece
dei fazzoletti. Forse non si poteva far di più.
*
* *
Secondo le cifre più recenti, gli alunni che frequentano tutte le
quindici scuole italiane di Buenos Aires, compresi gli asili infantili,
sono 2855.
A Buenos Aires si calcolano sopra a 250,000 sudditi italiani. La
proporzione del numero dei fanciulli in età da frequentare la scuola
(dai sei ai quattordici anni) sul numero degli adulti in una popolazione
normale, oscilla sul 20%. Data però la composizione della nostra
emigrazione potremmo calcolare il 15% di fanciulli; ma restringiamo
ancora e stabiliamo soltanto una proporzione del 10%. Ebbene, troviamo
che a Buenos Aires vi sono almeno 25,000 figli d'italiani, dei quali
soltanto 2855 frequentano le scuole italiane. Cioè: sopra
venticinquemila figli d'italiani, ventiduemila circa sfuggono alla
scuola italiana. Fuori di Buenos Aires è molto peggio. Quale influenza
può avere questa scuola sul sentimento della massa?
Quel piccolo decimo poi che la frequenta non vi fa che un temporaneo
soggiorno: le nostre scuole non hanno che le elementari, e per di più
gli alunni le abbandonano al secondo o terzo anno, normalmente, per
continuare gli studî nelle scuole argentine. Ma da una statistica
pubblicata nel '98 rilevo che mentre la «classe preparatoria» della
_Unione e Benevolenza_ era frequentata da centoventidue bambini, alla
quinta non ve erano che otto. Duecentotre alunni si trovavano alla prima
classe della _Nazionale Italiana_, e soltanto cinque alla quinta. Perchè
i bambini non rimangono nelle nostre scuole? Perchè esse sono talvolta
didatticamente manchevoli; ma soprattutto perchè le autorità scolastiche
argentine non vedono di buon occhio gli allievi provenienti dalle nostre
scuole, e giacchè per continuare gli studî è pur necessario passare
nelle scuole del paese, è conveniente, dal lato dell'interesse e del
tempo, di passarvi presto. I bambini lasciano la scuola italiana proprio
quando le loro menti cominciano ad aprirsi, quando le loro piccole anime
principiano a comprendere. L'influenza italiana non può lasciarvi
vestigie profonde; e nel nuovo ambiente, fra i nuovi condiscepoli, tutto
è presto cancellato.
Le nostre scuole sono talvolta didatticamente manchevoli. È mancata
l'unione delle iniziative, tutto è diviso. Quindici Società hanno voluto
fondare quindici scuole, non volendo sottrarre nemmeno questa santa
istituzione alle lotte, alle rivalità, alle ambizioni, che sono le
triste caratteristiche di quelle nostre dissociate associazioni. I
capitali che uniti avrebbero servito a mantenere delle grandi scuole
capaci della loro nobile missione, divisi, sono invece in proporzione
meschini; spesso insufficienti. L'arredamento scolastico è per molte
scuole antiquato e deficiente. Il personale insegnante, male retribuito,
non può essere sempre, ragionevolmente, il più scelto e il più adatto;
deve talvolta dedicarsi anche ad altre occupazioni per campare la vita,
non facendo più dedizioni alla scuola di tutte le sue forze e di tutto
il suo amore.
Ma il difetto peggiore forse di quelle scuole è nel programma, fissato
da una speciale Commissione di sorveglianza. Il programma è presso a
poco quello delle scuole corrispondenti in Italia. Questo è assurdo. In
Italia i ragazzi vanno a scuola per istruirsi; il resto lo insegna loro
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