Il castello di Trezzo: Novella storica - 13

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assenso ad un guerriero esperto e forte di recarsi nel castello ove
stava Bernabò rinchiuso, per isposarne una figlia, era porgere un certo
mezzo al prigioniero di concertare secreti maneggi a propria salvezza.
Il cavaliero uscito dal castello si sarebbe adoperato ad ordire trame
in seno alla sua stessa corte; gli amici del vecchio principe, la
propria moglie, diverrebbero per ciò suoi secreti nemici: quindi non
viverebbe più vita sicura da domestiche insidie, nè dalle esterne
terrebbe lo stato difeso.
Da sì fatte idee agitato già rivocava la data concessione a Palamede,
già stabiliva esiliarlo da Milano e da tutte le terre a lui soggette,
quando, riflettendo più maturamente, e pensando alle calde richieste di
Lodovico pel cavaliero, alla promessa fatta in compenso del suo valore,
si persuadeva che oramai l’opporsi diverrebbe un atto troppo indegno,
che avrebbe gli animi contro di se inaspriti.
Combattuto da tali opposti pensieri, e meditando più addentro in
se stesso, si convinse che mai tranquillità di vita nè certezza di
dominio vi sarebbero state per lui, sinchè respirasse Bernabò; che
l’esistenza di questo era la vera causa d’ogni sua più fiera pena; e
che vivente lo zio non l’avrebbero abbandonato un momento quei palpiti
crudeli. Questo convincimento in quell’istante, più che in ogni altro
tempo profondamente sentito, superò i terrori della sua coscienza.
Vinte tutte le altre voci del cuore, e solo compreso da una tremenda
risoluzione che accolse e fermò irrevocabile, chiamò immediatamente
un paggio, e il mandò in traccia di Giovanni Ubaldino, imponendogli
d’inviarlo tostamente a lui.
Era Ubaldino quello stesso capitano d’armi che aveva condotto Rodolfo
dal castello di Trezzo a quello di San Colombano: uomo di duro cuore
e d’una impenetrabile segretezza, odiava mortalmente Bernabò ed i
suoi figli, da cui era stato con molti insulti inasprito; per ciò
Giovan Galeazzo lo adoperava nelle esecuzioni che comandava contro di
loro. Quando questi giunse a corte fu subito nella secreta stanza del
principe introdotto.
Stava Giovan Galeazzo scrivendo sovra un foglio; un visibile turbamento
gli si scorgea nella fronte e negli occhi, e un’inquietudine nelle
membra. Veduto ch’egli ebbe Ubaldino, compì frettolosamente e chiuse
il foglio; indi consegnandoglielo, con voce da sensibile interno
commovimento alterata, gli disse, che nel mattino del seguente giorno
dovesse recarsi con altro capitano d’armi, ch’egli avrebbe trascelto,
alla casa del marchese Azzo Liprandi, d’onde guiderebbero il cavaliere
Palamede de’ Bianchi nel castello di Trezzo; ed ivi giunto desse a
Iacopo del Verme quel foglio; ma due cose gli imponeva colla minaccia
di tutto il proprio sdegno se le trasgrediva o palesava, ed erano: che
sullo scritto a lui dato nessuno dovesse portare lo sguardo, eccetto
quello a cui era diretto, al quale, pervenuto nel castello, doveva
in tutto ciecamente ubbidire; e che siccome lo avrebbe in quella
spedizione fatto seguire da Ambrogio Lanza proprio fidato domestico,
dovesse tenerlo celato sotto nome di suo scudiero, e come tale a chi ne
chiedesse annunziarlo.
Ubaldino rispose, giurando al principe che come non aveva mai per
l’addietro violati i suoi comandi qualunque si fossero, così anche
quelli che attualmente gli imponeva verrebbero da lui con ogni
esattezza adempiuti. Giovan Galeazzo, tanto da Ubaldino ottenuto,
il licenziò, e fatto chiamare Lanza famoso manipolatore di farmaci
potenti, che qual famigliare in corte abitava, secreti discorsi tenne
pure a lungo con questo, il quale allontanatosi dalla presenza del
principe, si chiuse tutto quel giorno e la notte in una recondita
cameretta ad ogni persona impenetrabile, che era l’officina delle sue
distillazioni, dei filtri e di altre arcane preparazioni.
Appena Giovan Galeazzo ebbe gli ordini distribuiti pel compimento del
terribile meditato disegno, sentissi da più violenta interna guerra
assalito: la solitudine di sua stanza gli piombò con ispavento al
cuore: balzò dal sedile esterrefatto, e verso il contiguo oratorio
rapido si mosse; ma come se un’invisibile mano da quelle soglie il
respingesse, ne ritorse con terrore lo sguardo: compressa l’anima sua
da troppo orrendo peso, già stava per annullare i dati comandi, quando
gli si attraversò più evidente allo spirito l’immagine di Bernabò
trionfante: a questa idea la di lui sorte fu decisa: per non cedere
ad un più aspro conflitto della mente, Giovan Galeazzo abbandonò quel
solingo ricetto, e venuto tra suoi, fatti allestire i destrieri, cercò
distrazione al pensiero, velocemente con numerosa comitiva per le
aperte campagne cavalcando.
Palamede in questo frattempo, pieno il cuore della dolce aspettativa
del tanto desiato momento, era corso in seno della famiglia di Azzo
a versare tutta la sua gioia colla felice novella del concessogli
ingresso nel castello di Trezzo. Il marchese, i suoi figli, Ricciarda,
Adelaide, da tale impreveduto annunzio maravigliati, ne risentirono
la più viva contentezza. Narrato il fatto lietamente scorse per loro
quel giorno, dei nuziali arredi ragionando, e delle festose pompe
da disporsi pel pronto ritorno del cavaliero colla fidanzata, che
doveasi guidare all’altare tosto che fosse giunta in Milano: l’un
d’essi parlava degli addobbi della casa, l’altro delle vesti e dei
doni; chi assumevasi di far allestire i conviti con vivande dorate
come era costume, chi si accingeva all’ordinamento dei giuochi e delle
feste: quanto in somma era stato il dolersi agli affanni di Palamede,
altrettanto fu il gioire a’ suoi contenti.
Enzel Petraccio per l’udita fausta notizia era sovra ogni dire lieto
e soddisfatto: le ascose fila da lui tese con arte aveano finalmente
condotto al preveduto scopo, ed egli in se stesso si dava tutto il
vanto della riuscita di quell’avvenimento. Chiamato in quella sera da
Palamede, salì alla sua camera, e venne accolto da lui colla più grande
espansione d’affetto: ripetendo che solo a causa della intromissione
del duca di Francia s’era piegato volonteroso il principe alle sue
richieste, il cavaliero confessò che tale favore del duca eragli
derivato dall’impresa eseguita contro Aldobrado, e da lui suggerita,
e disse che perciò anche questo evento era a lui dovuto, e gli rinnovò
la promessa che sempre lo terrebbe presso di se, che di tutto ciò che
aveva desiderio ed era in suo potere liberamente disponesse, perchè
i molti resigli servigi non potevano essere mai da lui abbastanza
ricompensati. L’aríolo, porgendogli grazie per sì generose offerte,
ed accertandolo che egli null’altro bramava che di rimanersi tra i
suoi servi, gli disse che volentieri, se glielo concedeva, l’avrebbe
seguito al castello di Trezzo, poichè aveva gran desiderio di
rivedere la signora Ginevra per narrargli come avesse eseguita la
commissione datagli l’ultima volta che aveva con lei favellato: «Nè
adesso (proseguì) dovrò temere che i soldati mi ardano temerariamente
i panni indosso, poichè vestendo abiti vostri saranno forzati ad
avermi rispetto.» Palamede acconsentì di buonissimo grado a questa
brama dell’aríolo, perchè ovunque si ricasse seguito da lui s’aveva
fiducia che nulla di avverso potesse accadergli, e il pregò vegliasse
per tempo nel seguente mattino per attendere i due capitani d’armi
che Giovan Galeazzo avrebbe inviati. Enzel rispose che prima che il
gallo salutasse il giorno egli porrebbe in piedi tutti i famigli, ed
augurando lieti sogni a Palamede, discese al riposo.
Giovanni Ubaldino, Marco Ferro, altro capitano d’armi, e Ambrogio
Lanza in abito da scudiero, posti in sella, quando fu l’albeggiare si
presentarono al palazzo del Liprandi: le porte ne erano di già aperte,
e il destriero di Palamede, tratto dalle scuderie, stava nel cortile
coi servi che il ponevano in arnese. Entrati que’ capitani, Palamede,
il marchese Azzo ed i suoi figli scesero loro incontro, e dopo uno
scambio di gentili saluti, salito il cavaliero in arcione, il che pur
fece sovra un proprio cavallo l’aríolo, tutti congiuntamente presero
cammino.
Era ciascun d’essi involto in un mantello foderato di soffici pelliccie
per difendersi dalla rigidezza del mattinale aere dicembrino,
che quando ebbero lasciate le mura della città fecesi sentire più
rigoroso, accusando le molte nevi cadute dalla sommità delle Alpi
ai colli verso cui dirigevano il loro viaggio. Pensando Ubaldino che
la strada presso l’Adda tra Vaprio e Trezzo esser dovea più che mai
malagevole e perigliosa per l’alta neve che ricoprendola celerebbe gli
scoscendimenti che la fiancheggiavano, tenne proposito di prender la
via di Monza, e per Vimercate giungere a Trezzo. Palamede, abbenchè
non ardesse che di pervenire alle mura che chiudevano Ginevra, e
sarebbe passato per mezzo alle spade onde giungere alcuni istanti più
presto a quella meta, convenne esso pure per cortesia nella proposta
di prendere la via più comoda. Seguendo tale direzione, e cavalcando
di buon trotto, pervennero prestamente a Monza. Entrati in quella
città, giunsero, fiancheggiato il castello, innanzi alla chiesa di San
Giovanni; ivi presso la porta maggiore fermarono i cavalli in ischiera,
e, trattisi i berretti, orarono brevemente; indi riprendendo il
cammino, attraversato il Lambro su gotico ponte, uscirono dalla città
per opposta parte. Fatto poco viaggio, incominciarono a vedere il suolo
biancheggiante di neve, la quale mano mano che s’avanzavano facevasi
più alta. Essa però non fu a loro sino a Vimercate di così fastidioso
inciampo, quanto allorchè, passata questa terra, pervennero al di là
della Molgora.
Tra i nevosi sentieri di folto bosco inceppati dai rami che il verno
e l’età avevano schiantati, trovavano i destrieri penoso passaggio.
Per alleviare la noia prodotta dalla lentezza a cui i disagi di quel
cammino li costringeva, trasse Marco Ferro argomento a ragionare
dai molti fatti che si narravano accaduti in quei boschi istessi
per cui camminavano. Fece racconto dell’Eremita bruno, terribile
abitatore di quella selva, ripetè le maravigliose istorie che intorno
a lui correvano; disse pure dei ladri che vi dimoravano, e d’un loro
nascondiglio in cui nessuno aveva avuto l’ardimento di penetrare. Non
nuove riuscirono al certo a Palamede le narrazioni di Marco Ferro,
poichè egli era stato istruito del vero essere di quell’Eremita e dei
ladri dalla bocca stessa di questi nella loro segreta _tana del cervo_:
tacque però d’averne cognizione; e siccome dolorosa anzi che piacevole
impressione recavangli quelle memorie, così tutto abbandonando il
pensiero alla dolcezza dell’istante che lo attendeva, e l’occhio
rivolgendo alla strada, seguiva il cammino senza porgerli orecchio.
L’aríolo, investigatore e conoscente com’era, per indole e per uso,
degli altrui pensieri, aveva al cominciare di quel viaggio esaminato
collo sguardo lo scudiero che seguiva i capitani d’armi. Una certa
aria che vi scorse nella fisonomia, non dura, non franca, come ad un
milite servo si conveniva, ma piuttosto meditabonda, e che appalesava
abitudine al riflettere anzi che all’affaticare, gli fe’ nascere
alcun sospetto sulle qualità di quella persona. Lontan lontano, lungo
il cammino, con fina arte, il venne prendendo con ragionamenti di
guerreschi esercizi e delle servili incombenze di sua professione.
Lanza, accostumato agli agi di corte ed al lambicco della sua officina,
rispondeva alla cieca alle parole di Enzel: per lo che questo accortosi
fondatamente che esso non era mai stato uomo d’armi o di battaglie,
sentì svegliarsi gran desiderio di scoprire chi mai esso si fosse, e
come due guerrieri si facessero seguire da uno scudiero che ignorava
tutti gli usi di tale servigio. A questo fine approfittando delle
angustie della strada in que’ boschi, standogli d’appresso, mentre
i cavalli mutavano lenti i passi, fingendosi uomo affatto rozzo, di
varie cose l’andava interrogando con sembiante di chi tutto ascolta
maravigliando. Il finto scudiero, credendo che quello a cui parlava
fosse di massiccia ignoranza, pensando recargli sommo stupore,
dopo varii ragionamenti venne a discorrere dei prodigii e delle
trasmutazioni ch’egli sapeva far prendere alle erbe, ai sassi, ai
metalli, e nel calore del suo dire, narrando delle prove che aveva date
della sua arte maravigliosa non istette sì guardingo di non lasciar
penetrare all’attento e veggente spirito dell’aríolo, ch’egli aveva
molto uso di corte e la confidenza del principe stesso.
Grande fu la sorpresa di Enzel a tale scoperta. Chi poteva essere quel
personaggio, non di certo nè uno scudiero nè un servo? A qual fine
seguiva i capitani al castello? Chi ve lo mandava? Tali riflessioni
volgendo l’aríolo pieno di diffidenza, e agitato da mille dubbii, stava
tentando di disvelare più addentro quell’arcano, quando, terminata la
via tra i boschi, uscì la comitiva allo scoperto, e si vide da lato il
borgo di Trezzo, e di fronte il suo castello.
La sommità delle mura e delle torri del castello erano coperte di neve,
che stando rilevata eziandio sulle pietre e gli ornati sporgenti dalle
muraglie, faceva colla sua candidezza singolare contrasto al loro bigio
colore. L’aspetto di esso ne era reso per ciò più tetro e imponente, e
sembrava che quelle torreggianti mura minacciassero della loro ertezza
i riguardanti.
Palamede non risentì però a quella vista che i più vibrati moti
d’amore. Ivi stava Ginevra, ivi la rivedrebbe fra un istante: in questo
pensiero si concentrarono tutte le memorie dei proprii e de’ di lei
passati affanni, e amore, pietà, timori, dolci speranze gli assalirono
con un sol palpito il cuore.
Giunti in vicinanza del castello, Ubaldino fece tutti gli altri
sostare, e da solo accostossi alla porta di esso che ferree imposte
chiudevano. Diè il grido di _Viva il conte di Virtù_, ed al soldato
che dalla vedetta gli intimò di palesare chi fosse, e che chiedesse,
rispose che era un capitano di Giovan Galeazzo che recava ordini
per Iacopo del Verme, e chiedeva l’ingresso nel castello. Comunicato
alle altre guardie tale avviso, venne tosto recato al Del Verme, che
affrettossi alla porta, e riconosciuto dagli spiragli della vedetta
Ubaldino, diè comando si calasse il ponte levatoio per riceverlo.
Entrato questi gli consegnò immediatamente la lettera del principe,
dicendogli che conteneva l’ordine che altre persone che stavano presso
al castello dovessero quivi essere ammesse. Del Verme aprì il foglio, e
lo scorse collo sguardo rapidamente, dando non pochi segni in viso di
inaspettate e gravi sensazioni; ma lettolo, spedì tosto varii soldati
ad invitare i fermati ad avanzarsi. Mossero essi i cavalli a quella
volta, e venuti al ponte, Del Verme si fece loro incontro accogliendo
Palamede con onorevoli parole: questi ricambiandole, giunto sotto
l’arco della porta balzò da sella, il che fecero tutti gli altri, e
stringendo la mano a quel duce, garbatezza per garbatezza rendendo,
seco lui avviossi coll’altre persone verso il cortile.
Due paggi furono tosto mandati ad annunziare a Bernabò l’arrivo di
Palamede, e questi nel frattempo venne condotto nelle proprie sale da
Del Verme, onde prendesse ristoro del faticoso viaggio. Ma il cavaliero
nessun altro uopo sentendo che quello ardentissimo d’appresentarsi
a Ginevra ed a’ suoi, accertò il duce che nulla abbisognavagli, e il
richiese istantemente lo conducesse da Bernabò. Del Verme, ch’aveva
avuti ordini d’accondiscendere in tutto al cavaliero, s’offrì pronto a
compiacerlo.
Il vecchio principe, immerso ne’ suoi tristi pensieri, stava in una
delle stanze a lui destinate insieme a Donnina ed a frate Leonardo,
che rade volte scostavasi da lui; ivi gli venne l’avviso recato della
venuta di Palamede al castello: maravigliando cogli altri ch’erano
seco, udì tal novella, e stava dubbiando se libero o prigioniero vi
fosse giunto, quando Palamede istesso entrò in quella sala.
Somma consolazione recò l’apparire di lui a Bernabò e a Donnina, che
gli si levarono incontro ad abbracciarlo e affettuosamente richiederlo
se volontariamente od a forza era egli quivi venuto; ma soddisfatta
con loro contento tale richiesta, reiterarono gli amplessi. Allorchè fu
calmata in loro quella piena d’affetto che invade potentemente il cuore
al rivedere dopo lunga lontananza amate persone, ricomposti, stettero
per chiedersi l’un l’altro delle loro vicende. Ma, volgendo la mente
al passato, occorse alla memoria di ciascuno d’essi l’istante in cui
si separarono; e il confronto delle grandezze e delle speranze di quel
momento posto a paraggio colle presenti sventure, mosse in tutti sì
dolorosi sentimenti, che, abbassando al suolo gli sguardi dalle lagrime
inumiditi, stettero immobili e silenziosi: così fu manifesta con
maggior eloquenza che di discorso quanta fosse la forza dell’affanno
che a loro pesava sul cuore.
Bernabò vincendo però pel primo il doloroso risentimento delle
proprie disgrazie, diradata la tristezza dal volto, drizzò la parola a
Palamede, interrogandolo del modo con cui era pervenuto al castello.
Questi, in risposta narrò, come nutrendo sempre vivissimo l’amore e
la fede per sua figlia Ginevra, a cui esso stesso l’aveva fidanzato,
ritornasse dalle lontane guerre colla ferma speme di compire i suoi
voti, nè deponesse tale pensiero saputa la di lui prigionia, ma con
replicate inchieste, intercedendone Giovan Galeazzo, giungesse dopo
molte ripulse, per un singolare avvenimento, a vincerne la renitenza,
per cui gli era stata data concessione di venire entro quelle mura per
guidare alle nozze quella donzella che dal sacro nodo d’una giurata
parola era a lui legata, e che s’avea certezza che esso non avrebbe
alle sue brame ed alla sua costanza rifiutata.
Dolce insieme e tormentoso fu questo parlare di Palamede tanto a
Bernabò quanto alla madre di Ginevra: diletta idea era per loro che
la propria figlia, anzi che languire in tristo carcere, tornasse alla
libertà ed alle agiatezze, congiungendosi in decoroso e splendido
maritaggio con sì nobile e valoroso cavaliero; ma li angosciava ad un
tempo il pensiero di doversi da lei disgiungere, e di viverne forse per
sempre lontani. Simili idee volgendo nella mente, rimasero il principe
e Donnina per qualche tempo ammutoliti; ma Bernabò ruppe ancora il
silenzio, dicendo: «Insanabile è la ferita che lascia ogni ramo che si
tronca dall’albero antico, altiero un giorno e frondoso, ora sterile e
presso a morte; ma se il ramo deve trapiantarsi in dolce suolo per dare
soavi frutti, è d’uopo soffrirne il distacco. Io sento appressarmi al
mio tramonto, nè conforto deggio altrove trovare che in cielo; ingiusto
ed empio per ciò sarei se trattenessi spettatrice del misero avanzo di
mia esistenza una figlia alle cui preghiere forse concesse la Vergine
più venturosi giorni. Sì, cavaliero, a te è dovuta, e tua sia Ginevra;
ed io renderò azioni di grazie ai santi del poterti chiamare marito
d’una mia figliuola.» Indi rivolto a Donnina, soggiunse: «Voi, sua
madre, ite a Ginevra, e qui conducetela a rivedere un cavaliero a lei
per sposo in dì più felici promesso, e di cui non le avranno il tempo e
gli affanni cancellata la memoria dal cuore.»
Palamede a tali detti, non sapendo esprimere l’immenso suo trasporto,
precipitossi ai piedi di Bernabò, che, rialzatolo, l’accolse al suo
seno coll’effusione del più grande paterno affetto; Donnina intanto,
obbedendo agli ordini di questo ed alle voci del proprio cuore, che era
a Palamede inclinato, recossi frettolosa a ricercar della figlia.
Dopo alcun tempo da che ella era uscita, udendo l’alternare di passi
femminili che s’appressavano a quella sala, la trepidazione di Palamede
fu al colmo; e quando, spalancata la porta, vide Ginevra entrare,
seguita dalla madre e dalla sorella, a lei incontro slanciatosi, senza
articolare parola, la mano prendendole, se la compresse con forza alle
labbra. Diè un grido Ginevra a sì inaspettata vista, e oppressa, vinta
dalla piena di gioia, non reggendo le sue forze a quel potente assalto,
svenne, abbandonandosi, pallida come neve, nelle braccia di Palamede:
egli stesso era per venir meno all’eccessiva violenza della tenerezza,
se non fosse stato penetrato in quel punto da un sentimento di terrore
e pietà, che allo svenire di lei tutto il comprese. S’atteggiò a
sostenerla, appoggiandone il capo al proprio petto, e l’andò chiamando
coi più dolci nomi, sinchè, fosse effetto del suono di sua voce, o
vigor di natura, ricomparvero i segni di vita sul viso di lei, che
aprendo gli occhi, languidamente in quelli fissandoli di Palamede
che la riguardava, entrambi con un lungo inenarrabile sguardo tutta
espressero l’immensa fiamma d’amore di che ardevano nell’anima.
Ritornate intiere a Ginevra le smarrite forze, staccossi lentamente da
Palamede, ed al braccio affidossi della madre, con un soave sorriso
misto a lagrime di gioia, tutta significando la dolcezza di quel
momento.
Allo scorgere sì fatte prove della potenza del loro amoroso trasporto,
quelli che stavano mirandoli, pensarono agli affanni che in tanto tempo
di loro separazione dovevano quegli amanti aver durati. Bernabò con più
affettuosa voce che non solesse, dimenticando i propri mali, e perdendo
la severità del volto: «Questo tuo amato (disse), o mia diletta figlia,
ti sarà sposo: il cielo, di tante nostre sventure pietoso, volle un suo
raggio mandare sovra di noi; e te, la più degna, consolando nelle tue
fervide brame, far risplendere per tutti un giorno sereno. Seguiranno,
è vero, neri nembi la bella calma d’un momento; ma il mio spirito,
già a lungo provato nei giorni dell’avversità, riprenderà vigore da
questo lampo di luce, che mi convince che il mio soffrire è accetto a
Dio, e cancella le mie colpe alla sua presenza. Io accolgo devotamente
questa grazia come un segno della divina clemenza, e benedico al nodo
che fra poco vi stringerà, abbracciandovi come i miei più cari figli:
se l’indegna mia voce sale al trono dei Celesti, invoco che tu, o
Ginevra, dimentica della funesta dimora in questo mio carcere, porti,
premio alla fede del tuo sposo, ogni ventura in lieto soggiorno; e tu,
o cavaliero, fatto padre di bella prole, non possa negli anni di tua
vecchiezza vederti strappare i figli barbaramente d’intorno.»
A questi accenti Ginevra e Palamede, che s’erano precipitati negli
amplessi di Bernabò, versarono nel suo seno più largo pianto di
contentezza e di commozione.
Donnina obbliando essa pure il dolore che l’attendea nel disgiungersi
dalla figlia, e non mirando che al di lei contento, l’accolse dopo
Bernabò nelle braccia, unendo alle sue, materne lagrime di tenerezza.
Lodovico, accorso alle sale del padre, Damigella e Leonardo a tale
affettuosa scena inteneriti, attestavano col pianto quanta parte
prendessero alla felicità di quegli amanti. Così tra i più dolci
sentimenti e l’espressione della reciproca gioia tutto scorse il giorno
dell’arrivo di Palamede al castello di Trezzo.
La profonda ambascia che avea per tanto tempo l’anima angosciata di
Ginevra, e spentale ogni speranza in cuore, all’apparirle innanti del
cavaliero, al saperlo suo, sparve, quasi da portentoso balsamo sanata;
nuove soavi idee rifluendo in lei, recaronle in cuore una beata aura
di vita. Quel bene che si era convinta che non sarebbe più mai stato
suo in terra, e collocandolo colla mente in cielo, ivi contemplava,
agognando, per ottenerlo, la morte, inaspettatamente le era dato
possedere; più volte in un istante dubitava essere in preda ad una
tenera illusione; ma quanto ha di più puro e di più espressivo l’amore,
la convinceva che era reale quel suo sentire.
In Palamede, quando fu al di lei fianco assiso, svanirono dal pensiero
le rimembranze delle passate cure: assorto ne’ di lei sguardi, sentì
paghi tutti i suoi voti; e la sua felicità sarebbe rimasa a lungo
inalterata, se al dividersi da lei nelle ore notturne, una sinistra
novella, che gli venne secretamente recata, riempiendolo di sospetto e
d’agitazione, non gli avesse amareggiato il cuore.


CAPITOLO XII.
Un cadaver qui giace; lacerate
Son le squallide fibre, e l’ossa peste,
Le chiome sulla fronte rabbuffate,
E le luci terribili e funeste:
Ha l’insegne regali...
GIANNI, _Poes. estemp._

Enzel Petraccio, entrato che si fu nel castello, ruminando le parole
intese nel viaggio da quello ch’ei suppose finto scudiero, s’era
fitto in capo di scoprire ad ogni patto chi egli realmente si fosse.
Recatosi seco lui alle stalle, veggendolo in ambarazzo nel dissellare
i cavalli, s’avea dato con premurosa opera a prestargli mano; per il
che Lanza, alleggerito da quelle servili fatiche a lui poco gradevoli,
gli si dimostrò sommamente obbligato. Enzel per tale amichevole di
lui disposizione d’animo, venuto seco a confidenziali parole, il seguì
nelle stanze prossime alle cucine, destinate alla dimora dei servi.
Pochi istanti eran quivi rimasi, attendendo fra le ciance d’altri paggi
e domestici che loro s’allestisse il pranzo, quando portossi colà il
capitano Ubaldino, e disse alcune secrete parole a Lanza; che levatosi,
uscì tosto con lui da quelle camere. Una lunga ora stette esso lontano:
indi rivenne solo e con fisonomia più meditabonda di prima. Ritornato
ch’ei si fu, vennero tosto ivi recate molte vivande ed ampii vasi di
vino.
Mentre mangiavano, assisi ad un desco, ristorati dal calore d’un
gran fuoco che ardeva quivi d’appresso, e vuotando molti bicchieri,
l’aríolo non perdendo mai di mira il proprio divisamento, circuiva
Lanza traendolo con molt’arte a famigliari discorsi. Dopo varii cibi fu
portato innanzi a loro un piatto con legumi saporitamente conditi. «Noi
siamo da più di un principe (disse Enzel sorridendo): il signor Bernabò
forse non mangiò mai fagiuoli più gustosi di questi[15].»
— «Egli li mangerà però gustosissimi (rispose Lanza) la prima volta che
si assiderà alla mensa: v’è tal cuoco che glieli cucinerà ottimamente.»
Siccome avea esso la testa già alterata dal vino, pronunciò queste
parole con tal aria misteriosa e con sì sinistro sogghigno, che
penetrate nel profondo del cuore dell’aríolo, il colpirono di spavento.
Avanzando le labbra e spalancando gli occhi, come chi fiuta alcun
che con gran sospetto: «Non ne mangio altri (esclamò rimescolando
que’ legumi col cucchiaio): sentono odore di cataletto. — Mangiane,
scudiero, mangiane ancora (soggiunse Lanza mirandolo collo sguardo
fatto più torvo dal vino e dai truci pensieri): il sale che vi è sparso
non fu liquefatto sui miei carboni.»
Questi tronchi detti, il volto di Lanza su cui stava una malefica
espressione come d’uomo dato alle malie ed agli incantesimi, persuasero
l’aríolo che egli era stato spedito colà per consumare nascosamente
qualche delitto o contro Bernabò ed i suoi, o contra Palamede.
Perturbato, tremante per tale convinzione, temendo a se stesso grave
danno se ciò avveniva, torturò lo spirito per trovare un riparo al
tradimento che si preparava; ma nessun modo gliene si offriva alla
mente. Pensò di recarsi a svelare l’arcano a Bernabò; ma fece calcolo
nell’istesso tempo che se si fosse scoperto ch’esso l’aveva palesato,
sarebbe stato immancabilmente ucciso, e il colpo consumato per diversa
via. Da mille sospetti agitato, nè sapendo a qual partito appigliarsi,
stette in quelle sale con Lanza sino all’ora del riposo, pel quale
furono loro indicate due contigue camerette presso una torre del
castello.
Ivi recatisi, Lanza si rinchiuse nella propria a chiavistello; ed
Enzel non potendo prender sonno, vedendo trapelare lume pei pertugi
dell’uscio della stanza del finto scudiero, si pose per quelli a mirare
attentamente che facesse. Vide che spogliatisi gli abiti servili era
sotto coverto da fini drappi; e lo scorse trarsi dai panni un involto,
e scioltolo da molti nodi levare da quello una fialetta cristallina
piena d’un bianco liquore, e sturatala infondervi una polvere che tenea
chiusa in una picciola scatola di metallo che aveva nascosta sotto i
lini del petto: quel bianco liquore tocco dalla polvere, intorbidatosi,
illividì: allora Lanza turata di nuovo la fialetta, la scosse innanzi
al lume a più riprese; indi la ripose nell’involto, che rannodò
diligentemente; ed ascosala sotto il guanciale, sdraiossi, e spense il
lume.
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