Il castello di Trezzo: Novella storica - 04

Total number of words is 4560
Total number of unique words is 1926
31.2 of words are in the 2000 most common words
44.9 of words are in the 5000 most common words
51.9 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
«Dove vai a quest’ora, o Tencio da Brivio?» Atterrito al sentire il
mio nome pronunziarsi da uno sconosciuto, dubitai forte dapprima che
quei si fosse uno spirito infernale; e ne presi certezza, allorchè
mi sovvenne al pensiero che quegli si era l’Eremita bruno. Laonde
credendo ch’ei fosse venuto a portarmi negli abissi pel mio peccato,
girandomi al suolo, mi feci più volte il segno della croce; ma quegli,
accostatomisi, disse: «Non temere, o Tencio; alzati, e narrami qual
causa ti condusse a quest’ora da solo in vicinanza di questo bosco?»
Ed io gli raccontai, senza mai fisarlo in volto, la disavventura di
mio compare e il spavento. «Ebbene, pel sangue che mi lega a tua
madre Berta da Dongo, tu verrai meco, e nessuno ardirà alzare la
mano sopra di te.» Io non sapea per il timore dove mi fossi; ma egli
prendendomi per mano, fecemi entrare nel bosco, e qui mi addusse,
dove mi rinfrancò, mi ristorò, e palesatomi il grado di parentela che
a lui mi univa, essendo io figlio di sua sorella, mi significò qual
fosse il modo di vita a cui doveva accostumarmi. Da quell’istante non
lo abbandonai sin che visse, e morto che egli fu mi associai a questo
poltrone di Castel Martinengo, a cui le scrofe sembrano diavoli (ed
additò il Brescianino), e che fu da me tratto dalle unghie di Ubaldo
Ugoni, perchè altrimenti sarebbe stato appiccato. — E strinse pur lega
con me (interruppe il Carbonaio), cui il mestiere di tagliar alberi sul
Legnone[11] fra gli orsi, onde a stento accattarmi un tozzo di pane dai
minatori del ferro, non mi andava per nulla a grado.»
Questi cenni delle avventure dei ladri, e il ritrovarsi in quel
sotterraneo luogo diffusero in Palamede una tetra amarezza, prodotta da
riflessioni che già gli si erano svolte nella mente sin dal mattino,
per cui cadde in un assopimento meditativo. Pensò egli quanto fosse
indegno e pericoloso per la sua fama l’essersi unito ad assassini di
quella fatta, qualunque scopo pur avesse nel giovarsi dell’opera loro:
comprese che ad un cavaliero le leggi di onore imponevano che in campo
aperto e colla forza del proprio braccio dovesse compiere le imprese;
ed egli diveniva immeritevole di portar spada e sprone adoperando gli
infami e vili maneggi dei ladri, onde venire a capo de’ suoi progetti.
Agitato nel bollore dell’ira e dell’indegnazione, stava per iscagliarsi
con pungenti parole contro Aldobrado, che tratto lo aveva a quel turpe
partito: quando accortosi costui, per l’indole generosa che conosceva
in Palamede della causa che il faceva pensieroso, e veduti gli sguardi
moltiplici e sdegnosi volti sopra di sè, ruppe il silenzio, dicendogli
sommessamente: «Egli è tempo che pensiamo alla vostra Ginevra.» Un
brivido improvviso scosse a tal nome il cuore di Palamede, e ne scemò
il tumulto dell’ira non a segno però ch’egli non riprendesse con
voce risentita: «Dove mi avete voi mai condotto? e fra quali persone?
Se fossimo qui, o per la bosacaglia, sorpresi dai soldati di Giovan
Galeazzo, qual vituperosa fine non sarebbe a noi riservata? Io fremo
in pensarvi. — Non bramaste voi stesso (rispose bruscamente Aldobrado)
vedere ad ogni costo Ginevra? Guerriero da poco voi mi sembrate, se
tremate a’ perigli cui vi espone il tentativo di conseguire il possesso
della vostra innamorata. Io, che non nutro passione alcuna per lei, non
mi trovo forse in pericolo al pari di voi? Pensate (proseguì con voce
più espressiva) che in questa notte istessa, o dimani, Ginevra sarà
vostra; e voi cui non mancano nè in patria nè fuori molte ricchezze e
ornate abitazioni, potrete condurla al talamo, e trarre con lei onorata
e comoda vita. Mentre all’infelice Aldobrado proscritto e ramingo
null’altro avanza che l’errare di città in città, armando il braccio
alla ventura per accattare il pane della miseria. — Ah! (soggiunse
commosso Palamede) perdonatemi, Aldobrado, io ebbi torto di lagnarmi di
voi: guidatemi dove volete, purchè Ginevra sia mia. A voi non mancherà
giammai nè un tetto, nè una mensa ospitale.» E dicendo queste parole si
porsero la mano, e con trasporto di affetto parve la stringessero l’un
l’altro; ma se sul volto di Palamede traspariva la sincerità d’un’anima
leale e generosa, negli occhi e sul viso di Aldobrado apparve un
maligno sorriso di trionfo, per la di lui credulità. Per convincere
però maggiormente Palamede dell’interesse che lo animava, onde la
impresa fosse presto condotta a felice compimento, chiamò i ladri per
disporli alla ricerca dei mezzi opportuni.
Eransi costoro, mentre i due stranieri ragionavano fra loro,
sdraiati in un angolo del sotterraneo, e quivi stavano con una lama
di spada iscuoiando un pezzo della cinghialetta uccisa, e ripulendo
dalle ceneri una buca nel suolo che loro serviva di focolare; alla
chiamata di Aldobrado, gli si avvicinarono, ed egli disse: «Su via,
degni successori di Guandaleone, diamo mano all’opera per la quale
ci addussimo nel nido degli avoltoi a pericolo d’aver tutti le ali
traforate dallo stesso giavellotto. È d’uopo impossessarsi dapprima
di una barca, e tenerla disposta a’ nostri cenni lungo la sponda
dall’Adda in sito superiore d’un miglio al Castello di Trezzo. In
qual modo, o Tencio, diviseresti di fare? — Datemi cinque o sei lire
di terzoli (rispose Tencio), e la barca si troverà tosto in pronto
a’ vostri comandi.» Aldobrado cavò dalla tunica una manata di monete,
e le porse a Tencio; questi consegnolle al Carbonaio dicendogli: «Va
tosto a Brivio nella fucina di Filippo, dàgli questo denaro, e degli
che pagherai il valore di tanto pesce quanto Tedrigello d’Olginate ne
vende in una settimana ai signori di Lecco, purchè ti porga la chiave
della catena colla quale assecura alla spiaggia il suo battello, e
vi passi quattro remi per gli anelli. Se egli acconsente a quanto tu
sei per chiedergli, digli pure che se terrà brighe co’ gabellieri di
transito, o cogli sgherri, troverà degli amici; altramente bisbigliagli
il mio nome all’orecchio.» Il Carbonaio, preso fra le mani un nodoso
bastone, salì tosto la scala del sotterraneo, uscì dall’apertura, e la
turò novellamente. «Ora, o Tencio (proseguì Aldobrado), io m’aspetto
dal tuo ingegno l’eseguimento di altra impresa assai più ardua. — Se
vi riesci (dissegli Palamede) noi ti daremo un premio doppio di quanto
ti abbiamo promesso. — Tu devi trovare (proseguì Aldobrado) un uomo
fidato il quale rechi alla persona che ti additeremo un viglietto entro
il castello di Trezzo. — Intendo (rispose il Tencio): le signorie loro
vorrebbero spezzare uno staggio del gabbione in cui sta rinchiuso il
vecchio orso, affinchè ei si fugga. — O l’orso, o l’armellino (riprese
Aldobrado), questo a te non deve importare: rifletti a quanto hai
giurato, alla mercede che ne ritrarrai, e risolviti.
«Ho giurato (replicò il Tencio) di adoperarmi alla cieca per loro, e
ben vi sono disposto, perchè, avvenga che può, se io non do questa
fiata nella rete, ho in animo di abbandonare la tana del cervo, e
se avrò tanto da comperarmi una tunica, mi ritirerò in un convento a
pentirmi de’ miei peccati, ed a levarmi dagli occhi quella maledetta
ruota, su cui parmi ancora di scorgere mio compare a penzoloni.
Rispetto all’inviare il viglietto nel castello, le cui porte sono
sì gelosamente guardate a questi giorni, non è di certo agevole
faccenda. Io però ho conoscenza di due garzoni spenditori di Tadon
Fosco castellano, i quali per lo addietro erano destinati a recarsi
nei contadi a comperare le provvigioni pel castello. Amighetto, l’un
d’essi, è il più fidato ragazzo ch’io mi conosca, e se gli si paga una
misura di quel di Montevecchia, chiude in corpo un secreto più che nol
siano i bizantini nell’arca di un avaro; nè gli trarrebbono un terzuolo
colla corda. Consegnatemi il viglietto ch’io m’andrò in cerca di lui, e
se lo trovo, l’impresa è assicurata.»
Poco mancò che Palamede per gioia lo abbracciasse, se non che
trattenendosi gli disse: «Senti, o Tencio, se le mie speranze saranno
coronate da un esito felice, io penserò a far sì che nè tu nè i tuoi
compagni abbiate mai più a temere di sgherri o di ruote; voi sarete tre
prodi soldati a cui la spada e il valore sapranno cancellare le macchie
della vita trascorsa.»
Mentre il Tencio indossava una larga zimarra da bifolco, Aldobrado
si trasse un pezzo di pergamena che avea seco, e diella a Palamede,
il quale colla punta dello stilo fattasi una picciola ferita in una
mano, vergò col sangue una lettera a Ginevra. In essa narravale il suo
ritorno e l’amor sempre ardente che per lei nutriva; la scongiurava
per amor suo a discendere nella cappella de’ Morti attigua alla chiesa
del castello, in quell’ora della notte in cui avrebbe udito una voce
dir forte sotto le sue finestre «_È l’ora._» Descrisse il modo per ivi
rendersi inosservata, uscendo dalla sua camera di riposo, e calando
per una tribuna di cui le additava la posizione, e giusta gli andava
mano mano dettando Aldobrado conoscitore espertissimo di tutti gli
andirivieni del castello; e chiuse il suo dire altamente pregandola a
intervenirvi, se desiderava rivederlo anzi morire. Scritta la lettera,
la involse strettamente nel nastro che legava la vagina della sua
spada colla ciarpa, e ravviluppolla eziandio entro una tela su cui
scrisse in minuto: _Ginevra_. Consegnolla indi al Tencio, dicendogli
che incaricasse il messo, che arrecar la doveva in castello, a far sì
che pervenisse nelle mani di quella fra le due donzelle la quale avesse
riconosciuto ivi scritto il proprio nome: al che aggiunse esser dessa
di bionda chioma; che se mal riuscisse l’impresa, dovea rendere il
viglietto, minacciandolo fieramente se fosse caduto in altre mani. Il
Tencio, assecurando di tutto eseguire appuntino, pose alle spalle una
vanga; salì la spirale scalea, e sparve, ingiugnendo al Brescianino che
acconciasse di che satollarsi per essi e gli ospiti novelli.
Partito costui, Palamede rimase dubbiante ed agitato da mille speranze
e timori, che si succedevano senza tregua nel suo cuore; ed ora
sentiasi rimordere, perchè affidato avesse un’impresa di sì alto
momento a mani tanto vili, ed ora gli arrecava conforto la certezza
di rivedere colei per cui s’era fatto cavaliere, quella per cui solo
avea cercato rinomanza nelle guerresche venture. In quella foga di
affetti parve accrescergli angustia il vedersi cinto dalla oscurità che
regnava nel sotterraneo: laonde bramò di uscirne, a fine di spirare
aura più lucente e più libera. Il Brescianino lo precedette, sollevò
la lastra che chiudeva l’ingresso, e lo rese avvertito che non si
discostasse dal tempio; che se avesse bisogno di lui, o pur amasse
rientrare, replicasse un lieve batter di mani. Vagò Palamede per la
tranquilla ombra delle altissime piante che circondavano il tempio;
e all’ondeggiare affannoso della sua mente, trovò consolante ristoro
nel ripensare a’ più cari momenti de’ passati suoi giorni. Rapida gli
rinasceva la memoria di quel tempo felice in cui, giovinetto, in una
splendida corte vestiva la prima volta le armi; pensava a’ torneamenti
di Milano ed alle gualdane che si correano per le contrade e per le
piazze, ov’egli primeggiando attraevasi gli occhi di tante nobili
donzelle e matrone pomposamente ornate, che lo miravano dai veroni
e dai palagi: ma tremando gli risovvenne quel primo sguardo che,
irridiato da una luce celeste, incancellabile gli penetrò nel cuore.
Una serie di ineffabili ricordanze gli corsero alla mente; e la voce, e
gli atti, e le parole, e gli amorosi colloquii per le domestiche sale,
o per l’aule festose, o ne’ solitarii giardini; e quando gli cingeva la
ciarpa da lei trapunta; e il piangere e lo svenire dell’ultimo addio.
Indi gli si schierarono innanzi le sue prime battaglie guerreggiate con
Bernabò, poi le Venete bandiere, e i singolari combattimenti sostenuti
per terra ferma e per le isole; le sue vittorie e la sua gloria.
Gravato dalle ricordanze del passato, stanco, si assise, e l’animo
corse festivo a’ futuri avvenimenti che lo attendevano.
Aldobrado, il quale era rimasto nella fontana sotterranea, trattasi la
fratesca tunica ulivigna, apparve vestito con farsetto e calzamento
stretto alle membra. Diessi intanto ad esaminare le varie armi
irrugginite e gli attrezzi che stavano appesi alle pareti; e tratto
tratto arrestavasi colle braccia conserte al petto, e col capo
inchinato, girando l’occhio inquieto, e svolgendo in se stesso cupi
pensieri. Ora un sorridere di compiacenza, ora uno aggrinzarsi di
rabbia apparivano a vicenda sul di lui viso; e qualche volta movea
tronche parole al Brescianino che era intento a cuocere lentamente
sotto le ceneri un pezzo di cinghiale.
Dopo alcune ore di aspettazione, udissi il fischio del Tencio,
che trafelato dal caldo e dal cammino, rientrò nel sotterraneo
con Palamede, il quale lo pressava ad inchieste sull’esito del
di lui invio. Ma vide egli con inesprimibile angoscia il Tencio
trarsi dalla cintura l’involto, e riporlo sulla tavola, dimenando
mestamente il capo per segno della fallita impresa. Anche Aldobrado
restò vivamente colpito dalla mala riuscita del tentativo; ma mentre
l’amante cavaliere ricogliendo il volto nelle mani si abbandonava ad
un totale abbattimento, quasi per lui fosse tutto perduto, l’altro in
vece concentratosi stette investigando quali altre vie rimanessero
a compiere il meditato disegno; voltosi quindi a Tencio gli disse:
«Forse allorchè tu giugnesti a Trezzo e ne’ paesi d’intorno l’ora era
già tarda: dimani vi tornerai più per tempo, e se non ti abbatterai
in Amighetto, troverai pur qualche altro che sia amico di Tadone ed
abbia viso miglior del tuo. Gli consegnerai con qualche fiorin d’oro il
medesimo involto, onde lo arrecchi al castellano, il quale se borbotta
le parole su certi vecchi fogli di cui io non comprendo sillaba,
saprà anche leggere questo indirizzo: ed è persona da rimetterlo così
fidamente come farebbe di un cartoccino di polvere di san tossico.»
Il Tencio fe’ cenno che eseguirebbe, e Palamede riprese speranza.
Dopo alcune ore ritornò il Carbonaio che avea sortito miglior esito
del compagno nella sua impresa, e semibriaco qual era pel molto vino
che avea bevuto coi terzoli, di cui a Filippo di Brivio non avea data
che piccolissima parte, narrò il modo di sua spedizione, e mostrò le
chiavi della barca e de’ remi. Quel prospero evento temperò alquanto il
rammarico arrecato dal primo andato a vuoto; e fu argomento a ciascuno
di buono augurio. Passò quel giorno, e ver l’alba del dì vegnente
il Tencio, a cui Palamede avea dato alcuni imperiali, partissi dalla
tana del cervo, e frugò tutte le taverne de’ villaggi per più miglia
d’intorno a Trezzo, ma invano: scontrò qua e là sparsi de’ soldati di
Giovan Galeazzo, dal cui contatto si astenne; nè mai gli fu dato di
abbattersi in uomo che fosse il ben trovato pel suo bisogno. Ritornò
afflitto alla tana, ove i due lo attendevano impazienti: così furono
convinti della impossibilità di pervenire al loro scopo, essendo il
castello guardato con troppa avvedutezza ed entro e fuori. Deposta
da Palamede ogni speranza di rivedere Ginevra nel modo consigliato
da Aldobrado, fermò quindi nell’animo di tentare altre vie. Chiarì ad
Aldobrado il suo proposito di abbandonare la impresa; e checchè questi
gli dicesse onde impegnarnelo nuovamente, tutto parve vano. Venne
perciò statuito che al mattino venturo, pagato un premio a’ ladri,
sarebbero ritornati alla Ca di Mandellone per riprendere i cavalli, ed
avviarsi ciascuno ove il proprio destino li avrebbe condotti.
Era vicina la notte, e Palamede, a cui il fine male avventurato del
suo disegno avea resi ancor più odiosi i ladri e la loro sotterranea
abitazione, uscì all’aperta per meditare da solo che mai dovesse
intraprendere, onde venire a capo d’una impresa da cui dipendeva
unicamente la sua felicità, ed alla quale era legato per religione e
per le leggi di amore e di onore. Sparso era il cielo di oscure nubi,
e il vento forte fischiava tra le frondi del bosco; udivasi da lungi
mormorare il tuono e scorgevasi un balenare incessante. Quell’aspetto
tempestoso dell’aere consuonava pur bene coll’agitazione dell’anima
di Palamede. Rimase questi colà sino al completo oscurarsi del
cielo, ora scorrendo pel bosco, ora appoggiandosi alle colonne del
peristilio del tempio a contemplare l’addensarsi ed abbuiarsi delle
nubi; ora ascoltando con segreto compiacimento il soffiare del vento
e il rimbombare del tuono. Quando la notte si fu alta, e gli oggetti
d’intorno ravvolti in una profonda oscurità, Palamede destatosi da
quella intensa concentrazione in cui l’aveano condotto i suoi mesti
pensieri, si ritrasse nell’interno del tempio, e cerchi gli sconnessi
gradini dell’ara, vi si pose genuflesso ad invocare il patrocinio
di Sant’Ambrogio e della Vergine, nelle cui chiese di Milano avea
tante volte aperto i più segreti affetti del cuore, ponendoli sotto
il loro patrocinio. Leniva così il peso del suo affanno, esalandolo
nell’entusiasmo religioso, che in lui era caldo al pari dell’amore. E
siccome abborriva il ridiscendere nel covo co’ ladri, pensò vegliare
quella notte nel tempio, attendendo il primo albeggiare per ritornare
all’isola di Mandellone. Cedendo però ad un certo languore delle
membra inoperose, si avvolse nel bruno mantello, e si stese sul nudo
macigno de’ gradini, facendosi del braccio guanciale. Per la rotta
volta del tempio vedevasi uno spazio di cielo che a pena pel tenebrore
che l’ingombrava si distingueva da’ contorni della nera volta: e
mentre Palamede vi intendeva lo sguardo l’oscuro seno di una nube
diradatosi, lasciò scorgere uno spazio sereno di firmamento in cui
ardeano luminose le stelle. Fu argomento di non poca gioia al cavaliere
quell’apparirgli d’un subito la veduta degli astri, dalla cui posizione
si traevano in allora tanti felici od avversi auspicii. Egli pensò
che si fosse qualche prospera congiunzione di pianeti a suo favore;
ed osservando quello spazio sereno che incominciando dalla parte di
Milano, avanzatasi per dilungo delle rotte nubi ver Trezzo, non dubitò
punto gli recasse l’annunzio che l’appagamento dei suoi voli sarebbesi
compiuto nel castello di Trezzo, dopo aver tratto principio da Milano.
Le nubi intanto si rinserrarono; il sereno affatto disparve, e il vento
soffiò più forte. Palamede, immerso in gradite illusioni, fu vinto a
poco a poco dalla stanchezza de’ sensi, e si assopì in profondissimo
sonno.
Cupa, sommessa, sconosciuta una voce, ruppe il sonno al cavaliere,
chiamandolo per nome. Levò esagitato la testa appuntellandosi sul marmo
colla destra, e addomandando chi fosse ad una nera figura ravvolta in
un manto, la quale si inchinava versò di esso, e che da lui fu scorta,
perchè il cielo rasserenatosi del tutto tramandava per entro il foro
della volta uno scarso raggio di luna. «Non destate, o cavaliero (gli
disse l’incognito), i serpenti nella tana che li rinchiude; seguitemi
per amor di Ginevra; la colomba difesa dall’aquila non temerà gli
artigli del falco.» Sprezzatori de’ perigli e amanti delle strane
avventure e del maraviglioso, siccom’erano i guerrieri di que’ tempi,
non esitavano certo a slanciarsi là dove un arcano avvenimento apriva
loro un campo di far mostra d’intrepidità e di valore. Palamede, a
cui si risvegliarono in quell’istante nell’animo tutte le credenze
ne’ prestigii e nelle apparizioni di esseri soprannaturali a guida
delle umane azioni, giudicò che colui il quale mosso gli avea quelle
voci si fosse uno spirito a lui inviato da’ santi suoi patroni.
Laonde, levatosi tostamente in piedi, si chiuse nel mantello e si
dispose a seguirlo; ma appena uscito dal tempio, forte paventò ch’ei
fosse uno spirito infernale, o l’anima di Guandaleone che frequentava
que’ luoghi: gli si accostò allora, e di celato toccògli il manto
coll’imagine di Sant’Ambrogio che serbava sculta sulla spada, e
fecesi il seguo della croce. L’incognito per ciò non disparve nè urlò:
ond’egli prese fidanza, e seco lui internossi fra le piante del bosco.
Buio, inestricabile, incerto era il cammino della selva: chè lo
intrecciarsi foltissimo de’ rami non lasciava penetrare il debilissimo
raggio della luna nascente. Avanzatisi quindi un trar d’arco, parve
impossibile a Palamede il procedere più oltre per quella oscurità
piena di ostacoli innumerevoli: ma ad un tratto sentì che l’incognito
agitava qualche corpo nell’aria, e vide con maraviglia accenderglisi
nella destra una fiaccola, che rischiarò di repente con una luce
improvvisa que’ luoghi. Gialliccia, offuscata da un denso fumo che
effondeva, sventolava la larga fiamma di quella face, tramandando un
lume che spandeva sui tronchi e sulle foglie degli alberi un livido
colore, ed iva a perdersi fra il denso della boscaglia. Scorse allor
Palamede che la sconosciuta sua guida si era un uomo di non alta
statura, tutto ravvolto in bruno ammanto che gli si avviluppava
sino al capo; aguzzo avea il mento, e coverto da una ciocca di peli;
larga la bocca; protendenti, ma scarne le mascelle; gli occhi assai
incavati. «Chi sarà mai costui, al quale è noto il mio nome e l’amor
mio per Ginevra!» disse Palamede fra sè, mirando l’incognito la di cui
fisionomia, sebbene negromantica e di straordinario aspetto, teneva pur
assai del terreno per presupporlo uno spirito, o celeste, o infernale.
«Sarebb’egli uno sgherro di Gian Galeazzo? Sarebb’egli uno stregone
abitatore di questa selva?» Ma fidando nel proprio coraggio, serbando
la destra sull’impugnatura della spada, e colla manca affrancandosi
il mantello sul petto, proseguì intrepido a tenergli dietro. Dopo un
breve tratto di cammino per la boscaglia, lo sconosciuto, soffermatosi,
infisse in un tronco per l’acuta estremità la face che portava, e
disse a Palamede: «Voi udirete il canto di Ginevra a piè delle mura che
la rinserrano: mal volle ella credermi quando le susurrai che voi le
eravate vicino; io deggio dunque mostrarvi ai di lei occhi. Che se non
bastassero le vostre forme, ch’ella vedrà lontane, porgetemi un segno
od una parola per cui indubbiamente vi riconosca.» Maravigliato il
cavaliere a sì fatto parlare, da cui comprese quanto egli sapesse de’
suoi amori con Ginevra, fu punto dalla brama di chiedergli di lei più
cose: quando un suo guardar penetrante ed istrano gli impose silenzio.
Per cui tacitamente trasse la lettera involta nel nastro che già porto
aveva al Tencio, e gliela diede. L’incognito, presolo allora per mano,
proseguì seco lui il cammino per la selva lievemente rischiarata dalla
face rimasta nel tronco, e che dileguossi alla loro vista un momento
prima che uscissero fuori interamente del bosco, ove nessun ingombro
divietò che la luna loro apparisse splendente di tutta luce.
Torreggiavano poco lungi di là le mura del castello di Trezzo, di cui
irradiava la luna il fianco orientale, verso la qual banda Palamede
si volse coll’incognito. Quivi pervenuti, ascendendo ad un masso che
sorgeva a’ fianchi del castello, lo sconosciuto disse a Palamede:
«Arrestatevi qui sino a che un lume là sopra (ed additò le finestre)
verrà acceso, indi spento; e tosto che spegnerassi ritornate nel bosco
alla tana del cervo, da cui non partirete pria di rivedermi.» In così
dire accostossi dippiù alle mura, e cacciatosi nell’ombra, sparve d’un
subito agli occhi di Palamede, attonito a sì strana ventura.
Era il cielo stellato e sereno, e la luna diffondeva per l’aere una
limpida luce: il mormorare dell’Adda rompea solo il silenzio che
regnava d’intorno. Stava il cavaliero con un’ansia inesprimibile
attendendo surgesse la voce di Ginevra; allorchè vide un lume
riflettersi, e passando per le vetriate delle finestre, in pria
oscure, che a lui sovra stavano, arrestarsi nella camera presso il
verone. Dopo pochi istanti un improvviso toccar di corde di un liuto
dolcemente risonante partì dall’unica finestra illuminata del castello,
e si diffuse in melodiose voci per l’aria silenziosa. Irruppero
dapprima rapide note, scorrenti velocemente dai gravi agli acuti; alle
quali a grado a grado mancanti succedette uno arpeggiare armonioso,
che vagando con risentiti passaggi in tuoni variati, ricercò e si
trattenne sul toccare di una affettuosissima minore. «O mano d’amore!
Ginevra, mio unico bene!» disse fra sè Palamede premendosi le mani
congiunte al seno, e volgendo lo sguardo ove udiva que’ suoni, rapito
dall’entusiasmo del più puro trasporto. E chi potrebbe esprimere la
piena di affetto che invase l’anima del cavaliero, udendosi risuonare
all’orecchio, dopo tanta lontananza e sì fieri avvenimenti! il preludio
della canzone del ritorno del guerriero crociato, ch’egli stesso aveva
a Ginevra insegnata? L’estasi sua toccò il colmo, allorchè ascoltò la
di lei voce proferirne le parole che così suonavano:
Da lontane estranie terre,
Dal sepolcro del Signor,
Dai perigli e dalle guerre
Io ritorno vincitor.
Altri raggi in altri suoli
Irradiaro il mio cimier:
E le vampe d’altri soli
Abbruniro il cavalier;
Ma il mio tetto ed i miei cari
Sempre fissi in cor restâr,
Nello scorrere dei mari,
Nella foga del pugnar.
Ah! mio ben, che in queste mura
Fida attendi al mio venir,
Frena il pianto e l’ansia cura:
Io ritorno a’ tuoi desir.
Due volte ripetè questi ultimi accenti; e a pena cessò il canto,
apparve la bella sul verone. Il manto del cavaliero gli era in quel
mentre caduto dagli omeri senza ch’ei nel rapimento della passione se
ne avvedesse, e un raggio di luna brillava vivissimo sul terso acciaio
della sua armatura e dell’elmo. Al vedersi si riconobbero l’un l’altro
quegli amanti, e nella piena dell’affetto che loro ardeva in cuore
avrebbero forse alzata la voce a parlarsi: quando Palamede scórse
ispegnersi di repente il lume entro la stanza del verone, e Ginevra da
quello ritrarsi rapidamente. Stette un istante sospeso il cavaliero; ma
ripensando alle parole dello sconosciuto, diè ratto di volta verso il
bosco, e vi si internò camminando alla cieca: sino a che, scoperta allo
splendore la fiaccola infissa al tronco, la riprese, e colla scorta di
essa ricalcò il sentiero già percorso dapprima.


CAPITOLO IV.
Questi in diverse lingue era eloquente,
E sapeva in ciascuna all’improvviso
Compor versi, e cantar sì dolcemente,
Che avrebbe un cor di Faraon conquiso.
TASSONI.

Lo sconosciuto, che aveva guidato Palamede fra le tenebre del bosco
ad udire il canto di Ginevra, niun altro si era fuorchè quell’Enzel
Petraccio, aríolo, i di cui buoni uffici aveva offerto Gabriella
(la moglie del castellano) a Ginevra, nella prima sera che questa
si trovava nel castello. Era Enzel venuto da lontani paesi al di là
di Lamagna, e capitato in Lombardia al seguito di Ernesto il Bavaro,
duca di molti castelli, allorchè questi menò in moglie Lisabetta la
Piccinina, una fra le dieci figlie legittime di Bernabò. Enzel si era
introdotto fra la schiera dei servi del Duca, e con essi recatosi a
Trezzo, rinunziò al vivere errante che per tanti anni avea condotto, e
pensò fermar stanza colà, dove, a motivo delle sue arti che sapevano
di negromanzia, era richiesto dal volgo, e tenuto in gran pregio.
Sapeva però celare con astuzia quegli artificii ai frati ed ai ricchi,
per tema di avere a sperimentare il suo magico potere contro le
fiamme di accesa catasta, o nella gola arroventata di un forno. Enzel
parlava talvolta una lingua stranissima, ed era il solo che servisse
d’interprete fra le genti del paese e gli alabardieri alemanni, gli
arcieri svizzeri, e i cavalieri francesi e normandi, di cui qualche
schiera sempre si trovava a Milano e ne’ dintorni, condotti dai tanti
principi che si recavano alla corte di Bernabò, od attraversavano
la Lombardia per guerreggiare in Italia. Aveva egli veduto Vienna
d’Austria, dopo essere stato a Rodi, a Bisanzio, e persino a
Trabisonda. Tratteneva le persone narrando maraviglie di spaventose
montagne, di fortune di mare, di singolari costumi di popoli lontani,
di guerre, d’assalti, di giostre e duelli di cavalieri; mesceva a’
suoi racconti amori di dame e di regine, storie di maghi, di miracoli
e d’effetti d’influssi di pianeti. Astuto indagatore de’ fatti altrui,
richiesto di consiglio e d’aiuto nelle traversie, sapea di tutto
giovarsi, penetrando ne’ segreti di chicchessia: andava nelle case,
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il castello di Trezzo: Novella storica - 05
  • Parts
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 01
    Total number of words is 4458
    Total number of unique words is 1917
    32.9 of words are in the 2000 most common words
    45.8 of words are in the 5000 most common words
    52.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 02
    Total number of words is 4513
    Total number of unique words is 1904
    32.5 of words are in the 2000 most common words
    46.0 of words are in the 5000 most common words
    54.0 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 03
    Total number of words is 4582
    Total number of unique words is 1891
    32.4 of words are in the 2000 most common words
    45.5 of words are in the 5000 most common words
    53.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 04
    Total number of words is 4560
    Total number of unique words is 1926
    31.2 of words are in the 2000 most common words
    44.9 of words are in the 5000 most common words
    51.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 05
    Total number of words is 4556
    Total number of unique words is 1813
    34.7 of words are in the 2000 most common words
    48.9 of words are in the 5000 most common words
    56.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 06
    Total number of words is 4566
    Total number of unique words is 1771
    34.0 of words are in the 2000 most common words
    48.1 of words are in the 5000 most common words
    56.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 07
    Total number of words is 4573
    Total number of unique words is 1826
    35.9 of words are in the 2000 most common words
    49.5 of words are in the 5000 most common words
    56.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 08
    Total number of words is 4444
    Total number of unique words is 1876
    33.4 of words are in the 2000 most common words
    48.0 of words are in the 5000 most common words
    54.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 09
    Total number of words is 4418
    Total number of unique words is 1818
    34.4 of words are in the 2000 most common words
    49.4 of words are in the 5000 most common words
    57.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 10
    Total number of words is 4603
    Total number of unique words is 1847
    36.1 of words are in the 2000 most common words
    50.8 of words are in the 5000 most common words
    58.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 11
    Total number of words is 4459
    Total number of unique words is 1767
    34.5 of words are in the 2000 most common words
    50.0 of words are in the 5000 most common words
    56.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 12
    Total number of words is 4413
    Total number of unique words is 1875
    34.0 of words are in the 2000 most common words
    48.3 of words are in the 5000 most common words
    57.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 13
    Total number of words is 4421
    Total number of unique words is 1816
    32.6 of words are in the 2000 most common words
    47.4 of words are in the 5000 most common words
    54.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 14
    Total number of words is 3394
    Total number of unique words is 1576
    34.7 of words are in the 2000 most common words
    49.9 of words are in the 5000 most common words
    57.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.