Il castello di Trezzo: Novella storica - 02

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(disse Palamede, disanimandosi), dove rinvenire due fidi ed intrepidi
rematori che vogliano meco dividere sì grave rischio?» Aldobrado
ristè a queste parole alcun tempo sopra pensiero; poscia disse: «Avete
dell’oro? — Non me ne manca. — Ciò basta, venite meco.» E in così dire
s’avviarono verso la casa di Mandellone.
Il giorno in tanto era sparito del tutto, e già vedevansi da mezzo i
rami delle piante luccicare le stelle. Lo scudiere di Palamede, dopo
avere abbeverati i cavalli, scorto il suo signore in istretto colloquio
col frate, avea levato i freni, e lasciate ire le bestie pel prato
pascolando: e’ si stava intanto sulla porta della casa a ragionare
con Maria, a cui le sue belle vesti ed i modi meno aspri di que’ di
Tencio e di Trado aveano cagionato un’assai aggradevole sensazione.
Palamede entrando in casa disse allo scudiere d’aver cura de’ cavalli,
e di levar loro anco gli arcioni, poichè avrebbero passata la notte
nell’isola. Quest’annunzio riuscì graditissimo allo scudiero ed alla
figlia di Mandellone; la quale facendogli lume con facella di rami
accesa, mentre esso stava spogliando i cavalli, tutta si ringalluzzava
alle graziose parole con che l’andava tratto tratto vezzeggiando.
Aldobrado e Palamede entrarono allora in una stanza le di cui pareti
erano formate di grosse travi insieme connesse ed appoggiate ad
alberi vivi, de’ quali apparivano le ruvide scorze; ed era addobbata
con pochi arnesi di cucina e qualche attrezzo da barca. Sedettero
entrambi all’intorno d’una tavolaccia su cui ardeva un lume in vase
d’olio: Aldobrado diessi a chiamar Mandellone. Questi non attendeva
che d’essere domandato per sapere se essi intendevano fermarsi quella
notte da lui; e nel caso contrario, già s’avea preparato una lunga
narrazione dei pericoli che avrebbero incontrato, se fossero partiti
a quell’ora. «Senti (gli disse il finto frate, vibrandogli un’occhiata
minacciosa e indagatrice, mettendosi nello stesso istante colla persona
fra l’oste e la porta): io ti conosco da lungo tempo. Tu devi aver
degli amici che sarebbero da molt’anni appiccati, se non sapessero ben
maneggiare una barca e nuotar come pesci, allorchè hanno gli uomini
d’arme alle calcagna: io m’ho bisogno di loro.» Mandellone impallidì
a queste parole pronunziate con tanta asseveranza, e volea protestare
contro sì fatta asserzione. «Padre (diss’egli in atto umile), io non
vi ho mai veduto... — T’ho veduto io più volte, e ti basti. Pensa per
domani prima del partir nostro, che sarà all’alba, a far sì che si
trovino in quest’isola due uomini i quali sappiano ben trar di remi
e di stocco: e saravvi dell’oro per essi e per te; altrimenti (e cavò
dalla larga manica uno stile a tre punte) prima di mezzogiorno te ne
andrai all’inferno. — Se così vogliono (rispose tremando Mandellone),
potrei farli venire sull’istante. — Tanto meglio (riprese Aldobrado);
e lasciò che Mandellone uscisse dalla camera. «Sono varii anni
(proseguì con Palamede) ch’io conosco quest’isola; e se Bernabò ora
non fosse prigioniero, dovea questo grosso bue di Mandellone, al primo
villeggiare di quel principe, dileguare sull’eculeo, come le lepri
ch’egli va rubando e mettendo allo spiedo.»
S’intese in questo mentre un fischio, e dopo breve intervallo diverse
pedate le quali s’avvicinavano alla casa. Palamede e Aldobrado
furono presi dalla tema di essere traditi, perchè un momento prima
l’isola era loro sembrata perfettamente deserta: per il che al vedere
spalancarsi la porta, e presentarsi tre figuraccie da sgherri, che
il chiarore fosco e giallastro del lume rendeva ancor più terribili,
Palamede rizzossi in piedi, e portò la mano alla spada; e Aldobrado
si trasse dietro alla tavola, mirando a un grosso palo di ferro che
stava appoggiato alle pareti. «Sono gli amici (gridò Mandellone al di
fuori);» e Tencio, che s’era avanzato pel primo, fermandosi a certa
distanza, e levandosi il cappello in atto di rispetto, rassecurò
l’animo loro: onde Aldobrado rimessa sul volto l’espressione della
fierezza e del comando, fattosi avanti disse: «Dovete giurare su
questo crocifisso (e ne trasse uno di legno dall’abito) che voi non ci
tradirete, nè paleserete ad alcuno quanto vi diremo, e comanderemvi di
fare.» E que’ tre posero la mano sul crocifisso, e giurarono: poichè
sebben gente da masnada e ferocissima, pure era tale in quella età
il fascino della superstizione mista alla più crassa ignoranza, che
si giurava di commettere i delitti, si commettevano per adempiere al
giuramento. Aldobrado continuò dicendo che prometteva dieci fiorini
d’oro per ciascuno, purchè trovassero una posizione sicura, daddove
l’un di essi stesse ad attendere l’avviso per muovere un battello in
certo punto dell’Adda superiormente a Trezzo, in cui sarebbevi entrato
egli medesimo con quel cavaliere: e di quivi avessero ad ubbidirli
ciecamente, e condurli colla maggior diligenza ove accennerebbero; e
gli altri in quel mentre dovessero star pronti ad eseguire arditamente
quanto loro verrebbe imposto. I tre ladri assentirono; e il Tencio
soggiunse che alla mattina averebbeli condotti per la via del bosco di
Vaprio in sito sicuro e segreto, da cui potere con sicurezza ordinare
tutte le loro operazioni. Palamede, a cui que’ ceffi davano non lieve
noia, intimò si ritirassero; e ingiunse a Mandellone di dar loro quanto
avessero voluto. Indi si stese vestito sur un giaciglio di foglie di
faggio composto in un canto della stanza: il che pur fece Aldobrado,
volgendo ciascun d’essi nell’animo diversissimi pensieri.


CAPITOLO II.
E nel mezzo su un sasso avea un castello
Forte, e ben posto, e a meraviglia bello.
Ma ahi lasso, che poss’io più che mirare
La rocca lungi ove il mio ben m’è chiuso!
ARIOSTO.

Veloce e fragorosa travolge l’Adda le molte sue acque uscendo dal
Lario da cui è formata, e versandosi nel Po, che maestoso attraversa
l’alta Italia, ricogliendo nel di lui seno i fiumi tutti che scendono
dall’Alpi. Poco lungi dai moni che l’Adda abbandona, fluendo in retta
linea verso mezzodì, e correndo avvallata fra sponde di enormi massi,
incontra a man destra una rupe, che protendendosi a settentrione la
astringe a ripiegarsi per superarla, ed a girarle d’intorno onde
riprendere la primiera direzione. Su questa rupe, cinta da tre
lati dall’Adda a maniera di penisola, surgevano un tempo le mura
del forte di Trezzo, di cui a dì nostri poche rovine attestano la
passata grandezza. Primi i Longobardi innalzarono colà una rocca
onde proteggere i colli della Brianza dalle scorrerie de’ feroci
Orobii: e se la fama non erra, la stessa Teodolinda avrebbene poste le
fondamenta. Egli è certo però che verso il mille dell’era nostra, quel
forte fu venduto al duca Ottone III da Liutefredo, vescovo di Tortona,
a cui fu vinto da un suo campione in singolar conflitto tenuto alla
presenza dell’Imperadore di Germania, contro Riccardo Vaidrada che ne
era signore. La rocca a quella età s’ergeva sul ciglione della rupe che
rade il masso a settentrione: gotica erane l’architettura, ma non vasta
nè adorna; ed era solo fiancheggiata da piccola torre.
Da Ottone passò in podestà di più baroni e nobili lombardi, sinchè
discese con formidabile esercito, a danno dei Milanesi, Federigo
detto il Barbarossa, il quale nell’aprile del 1158, valicata l’Adda a
Cassano, invase la Brianza tutta, e si rese padrone anche di Trezzo
e della sua rocca. Quivi lasciò un forte presidio, capitanato dal
marchese di Wenibach e da Corrado di Maze. Erasi allora formato in
que’ dintorni un contado detto della Bazana, e Trezzo vi fu eletta a
capitale. I due comandanti imperiali che ivi stanziavano, si diedero ad
abbellirne il forte siccome luogo di loro residenza, e vi costrussero
in giro tre torri quadrate, una delle quali eretta per intiero con
oscuri macigni, prese il nome di _Torre nera di Barbarossa_. Di là
sbucavano que’ duci a devastare il territorio, esigendo enormi tasse;
mettevano a ruba il contado, ed esercitavano il barbaro _jus foderi_.
Simili vessazioni durarono sino a che i Milanesi, congiuntisi alla
Lega Lombarda, ebbero rotto l’esercito di Federigo; e mentre essi
ritornavano trionfanti dall’assedio posto a Lodi per gastigarne
i cittadini riluttanti ad associarsi alla Lega, assembratisi co’
Bergamaschi, si diressero vér Trezzo a fine di espellervi gl’Imperiali,
che stavano nella rocca soccorsi da alcune bande paesane. Costò a’
Lombardi non poco travaglio il possederla: nè a tanto pervennero se
non dopo due mesi di assedio, e mercè l’astuzia di Praello Imblavato,
il quale fe’ all’uopo construrre un gran ponte galleggiante sull’Adda.
Espugnato quel forte, ne uscirono gl’Imperiali cogli onori di guerra:
ed i Milanesi, postevi a sacco le molte ricchezze in oro, argento
e vasellami preziosi, che gli Alemanni vi aveano accumulate colle
depredazioni, incendiatolo l’abbandonarono.
Stette quella rocca deserto albergo de’ gufi e degli assassini sino
al 1211, nel quale anno venne da papa Innocenzo inviato per suo legato
in Lombardia il cardinale Gherardo da Sessa, abbate di Tiglieto e già
vescovo di Novara. Il Legato, pervenuto in Lombardia, elesse Trezzo
a sua dimora, ed ordinò si riattasse la rocca; al che convennero
coll’opera e colle sostanze gli abitanti dei contorni, eccitativi
dalle esortazioni delle compagnie degli Umiliati o Berretani[5]: ordine
dal Cardinale singolarmente protetto, e che a norma del suo instituto
iva per le piazze e per le chiese predicando ogni benedizione a quel
prelato.
Allontanatosi da Trezzo il cardinal Gherardo, quella rocca passò in
possesso di varii signori; uno dei quali (e vuolsi fosse Guazzone da
San-Gervaso) costrussevi un ponte, opera arditissima per que’ tempi,
poichè con un solo arco attraversava l’Adda dalla sponda milanese a
quella del Bergamasco. Acutissima ne era la volta, e constava di grosse
pietre rozzamente connesse; e dal capo opposto del castello surgeva a
sua difesa una barricata di pesanti travi, chiusa alla testa del ponte
da enorme catena di ferro.
Erano scorsi pochi anni da che quella rocca era stata restaurata, ed
il ponte edificato, quando il feroce signore della Marca Trivigiana,
Ezzelino da Romano, devastando furibondo tutte le città e i villaggi
che incontrò sul suo cammino, pervenne sino al di qua dell’Adda.
Irritato perchè a vuoto gli fossero tornati gli assalti con cui aveva
tentato d’impadronirsi di Monza, difesa valorosamente dai cittadini,
salì coll’armata alla Brianza ed a Trezzo; e come avea fatto degli
altri paesi, così pose a ferro ed a fuoco pur questa terra, e ne
rovinò coll’incendio la rocca. Nove anni dopo, nel 1278, impadronissi
della demolita Trezzo, Cassone Torriano. Covando que’ signori della
Torre acerbissimo odio contra i Milanesi, ed in ispecial modo contro
la famiglia de’ Visconti, che privati li aveva della signoria di
Milano, scacciandoli dalla città colle armi, tennero secrete pratiche
co’ Tedeschi, co’ Vicentini e coi Parmigiani, sinchè, ragunata grossa
mano d’uomini, piombarono sovra Lodi, e la presero. Duce di quella
gente era Cassone Torriano; e con lui combattevano i suoi fratelli
Leone e Rainaldo. Presa Lodi, si aggiunse ai Torriani, con molti suoi
guerrieri, il Patriarca d’Aquileia, e coll’armata riunita avanzatisi
persino a San-Donato, ivi al 13 di luglio ebbero uno scontro co’
Milanesi. Feroce e sanguinosa durò la battaglia, sino a che i Milanesi
andarono vôlti in fuga, e Cassone vittorioso ebbe campo d’invadere
gran tratto di paese e rimontare sino a Trezzo. In quella zuffa
varii combattenti caddero prigionieri in potere di Cassone, il quale
tradottili alla rocca di Trezzo, ivi ne fece scelta; e rimandati liberi
i Milanesi, fe’ rinchiudere i Comaschi nella Torre nera di Barbarossa,
ove li pose a cruda morte a fine di vendicare Napo Torriano, il quale
preso dai Comaschi nella battaglia di Desio, non venne reso nello
scambio de’ prigionieri, ma fu lasciato perire in un gabbione di ferro
nella torre di Baradello, in pena dell’aver fatto uccidere Simon da
Locarno.
Nè per la rotta di San-Donato i Milanesi si perdettero d’animo:
condotti dal loro arcivescovo Otto Visconti, e fatta lega col marchese
di Monferrato, cacciarono nel seguente anno di bel nuovo i Torriani
al di là dell’Adda, e ripreso Trezzo, ne ricostrussero il ponte, che
dai Torriani era stato spezzato. Poco tempo dopo, variando la sorte
delle armi, ricadde la rocca di Trezzo nelle mani torriane; e vi si
stabilirono Napino e Rainaldo, i quali l’abbellirono, ed a prova del
loro dominio fecero scolpire sulle torri e lungo le mura i loro scudi
cogli stemmi della famiglia. Ma fu pur breve quella loro signoria;
perchè, assediativi dalle armi de’ Milanesi condotti dai Visconti,
vennero fatti prigioni e poscia scacciati: sicchè quella rocca,
rovinata di nuovo dagli assalitori, pervenne verso il 1320 nelle mani
de’ Visconti, i quali datisi interamente alle cure di stato di cui
ambivano, come infatti ne ottennero il reggimento, più non pensarono nè
a Trezzo nè al castello, il quale per que’ potenti sarebbe riuscito una
troppo meschina dimora.
Passata la signoria di Milano e di tutte le città di Lombardia da
Lucchino Visconti all’arcivescovo Giovanni suo fratello, questi chiamò
eredi al sovrano potere i suoi tre nipoti, figli di Stefano Visconti,
Matteo, Galeazzo e Bernabò; de’ quali i due ultimi erano stati da
Luchino cacciati in esiglio per la loro prepotente audacia e sfrontata
inobbedienza. Que’ tre fratelli succedettero allo zio arcivescovo
nel 1350, e si divisero lo stato in tre parti. La parte orientale,
che abbracciava le città da Lodi a Bologna sino a Pontremoli, toccò
a Matteo; l’occidentale e meridionale, a Galeazzo, e si dilungava da
Como a Novara colla Lumellina, e da Pavia sino ad Asti ed Alessandria;
e la settentrionale a Bernabò, che dal lago di Garda, con Brescia,
Bergamo e Valle Camonica, toccava sino a’ confini del Comasco. Si
tennero a podestà comune le due città di Milano e di Genova. Matteo
però, sei anni dopo esser pervenuto alla signoria, morì: e il popolo
reputò fosse vittima della eccessiva libidine a cui sfrenatamente era
inchinato; ma chi lo avvicinava ben si accorse com’egli periva per
veleno propinatogli dai due fratelli, che per tal guisa assecuravano la
propria vita contra gli attentati della di lui ambizione, ed ampliavano
i proprii dominii. Rimasti assoluti signori Bernabò e Galeazzo,
spartirono fra loro i possedimenti di Matteo, e si tenne ciascuno la
signoria di quattro porte e quattro pusterle della città di Milano.
Ebbe Bernabò la Romana, la Tosa, l’Orientale e la Nuova, e Galeazzo la
Comasca, la Vercellina, la Giovia e la Ticinese, le quali mettevano a’
suoi dominii in cui egli abitava di consueto, recandosi rade volte a
Milano; e precipuamente stanziava a Pavia, dove avea fatto erigere un
ricco castello.
Bernabò, amante siccom’era della caccia, appena le molte guerre glielo
permisero, pensò eleggersi abitazioni ne’ luoghi più adatti al suo
diletto diporto. E sebbene allora corressero tempi in cui le ricchezze
non abbondavano nè pur nelle mani dei principi, pure Bernabò non ne
pativa mai scarsezza: tanto colle estorsioni, gli esorbitanti tributi,
le regalie forzate e le dispotiche confiscazioni, egli seppe procurarsi
lauti mezzi di scialacquo! Ordinò l’innalzamento di magnifici castelli
ne’ siti che gli parvero più ameni ed accomodati alle caccie. Restaurò
quel di Desio, ne eresse di nuovi a Melegnano, a Senago, ad Umbro ed a
Pandino. Cacciando un giorno per gli ampii boschi che al piè de’ colli
briantei si stendevano dal Lambro all’Adda, frammezzati soltanto di
distanza in distanza da qualche villaggio e da pochi campi, copiosi
oltremodo di salvaggiume, in ispecie di lepri, cervi e cinghiali,
pervenne sino a Trezzo. Quivi giunto, fu d’un subito rapito da quella
felice posizione, che dominava tanti boschi vicini e che presentava col
suo ponte sull’Adda un breve passaggio alle selve del Brembo. Osservò
la vecchia rocca, e trovandola devastata, sdegnò abitarla; ed ordinò si
erigesse un nuovo castello de’ più grandi ed adorni che mai vi fossero
a quella età. Nel 1370 fu data opera dai più valorosi architetti ed
artisti lombardi alla costruzione di un castello, che a forza d’oro e
d’uomini fu in sette anni e tre mesi condotto a perfetto compimento.
Surse questo castello sull’istessa rupe che è ricinta dall’Adda, e
sulla quale già esisteva l’antica rocca; ma non fu inalzato come quella
rasente il masso a settentrione, di cui a picco si guarda nel fiume,
ma sibbene assai più vêr mezzogiorno. Aveva esso la forma d’un ampio
quadrato, le cui ruvide mura alla sommità andavano cinte di merli, ed
alla base erano costrutte con grossi massi tagliati. Nel lato vôlto a
mezzodì, surgeva nel mezzo una quadrata torre, merlata anch’essa, alla
cui cima, siccome di tutte l’altre pareti del castello, allargavansi le
mura a risalto, lasciando fra l’intervallo delle mensole lo spazio per
altrettante balestriere. Questa torre era fasciata a metà da una zona
di marmo, su cui stavano scolpiti a basso rilievo i ritratti di Bernabò
e di Regina della Scala di lui moglie, e frammezzo ad essi grandeggiava
uno scudo acuminato, su cui era rilevata la biscia incoronata, che
ripiegata addenta un uomo nudo. Nel lato istesso scorgevasi doppio
ordine di finestre con archi a sesto-acuto, ornati all’intorno da
bellissimi fregi, tratteggiati nello stesso ammattonato di cui erano
costrutte le mura. La porta d’ingresso del castello stava alla destra
della torre, e vi si giugneva attraversando la fossa, su cui dava
passaggio il ponte levatoio, tutto di ferro: era questo raffermo da
due enormi travi sporgenti sotto la vôlta della porta, ed incassate al
di sopra dell’arco, cui era attaccata doppia catena di ferro, per la
quale e si poteva abbassarlo, ed a piacere rilevarlo, facendolo entrare
nelle imposte di sasso che contornavano la porta: col che essa veniva
a chiudersi perfettamente. Stava sovra la porta un’apertura, ed era la
vedetta per cui una guardia che vi facea di continuo la scolta, valeva
a dar presto avviso di tutte le persone che si fossero presentate per
avere ingresso.
Valicato il ponte levatoio, non penetravasi di botto nel castello,
ma era d’uopo aggirarsi in un andito lungo il lato destro del forte,
sinchè si giugneva al fianco settentrionale, ove affacciavasi un’altra
porta da cui si aveva entrata all’interno del castello: lungo le
pareti di quest’ultimo ingresso eransi praticate molte feritoie
corrispondenti a due stanze, in cui dimorando i soldati potevano non
visti offendere agiatamente quelli che entravano, se così si avesse
voluto. Penetrati nel castello, scorgevasi un ampio cortile, detto la
piazza d’armi, intorno al quale girava un porticato ad archi gotici,
ricinti ne’ contorni da pietre alternate a quadrati bianchi e cilestri,
e sostenuti da immani, ma rozze colonne. Lungo le mura si difilavano
in bell’ordine le finestre, parte ferriate e parte no; ed erano quelle
de’ varii appartamenti del principe e della corte. A pian di terra
giacevano le armerie da guerra e da caccia, i quartieri, le cucine,
le stalle ed i canili. Magnifiche scale conducevano agli appartamenti
superiori addobati fastosamente con arrazzi, ed in cui molte sale
vedevansi dipinte a suggetti di caccie, di guerre e di religione; ma
tai dipinture erano grette, quantunque di vivace colorito, siccome dava
l’arte di que’ tempi.
Era in quel castello una picciola chiesa dedicata alla Vergine, a
cui aderiva una cappella, detta dei morti, perchè conteneva arche
ed ossami ivi trasferiti dalla vecchia rocca. Nè mancavano pure
tenebrose carceri e camere appartate, in cui si erano praticate
ribalte, o siano trabocchelli, i quali consistevano in mobile pavimento
artificiosamente sospeso, sul quale se taluno saliva, levandosi una
sosta si rovesciava, e precipitava lo sgraziato in un pozzo armato
a punte che lo trafiggeano. Correva voce altresì che quivi fossero
sotterranei ed altri luoghi spaventosi e secreti di cui si parlava con
sospetto, ma de’ quali tutti ignoravano e l’ingresso e l’uscita. Taluno
però asseriva d’avere inteso voci e lamenti partirsi dalla cappella
de’ morti e dalla torre nera di Barbarossa, la quale stava rovinosa
nel fondo del parco vicino all’antica fortezza. Perocchè al lato di
tramontana del castello eravi una porta la quale adduceva ad un picciol
parco, che occupava quello spazio che stendevasi tra ’l castello e
l’isolata estremità del ciglione della rupe. In fondo al parco, difeso
in giro da grossa muraglia, stavano gli avanzi della vecchia rocca. In
questo muro eransi praticate varie porte munite di forti cancelli, ed
a cui mettean capo alcune stradicciuole che scendendo a scacco per la
rupe, o si recavano al piano dell’Adda, o si dirigevano pei villaggi
e pei boschi. Ove il parco avea fine, eravi altra porta fiancheggiata
da due torri, la quale dava passaggio al ponte sull’Adda, novellamente
ricostrutto, assai più grandioso e massiccio del primo. All’altro capo
del ponte eransi erette due altre torri quadrate che ne difendevano
l’ingresso, chiuso inoltre da una barricata di travi a punte di ferro.
Già da dieci anni sorgeva questo castello, ed il parco era folto d’alti
e fronzuti alberi, ed alla sommità degli archi di pressochè tutte le
porte vedevansi appesi ove teschi di cinghiali, ove la ramosa fronte
d’un cervo, ove falchi ed avoltoi, trofei delle molte caccie date da
Bernabò, alloraquando sul finire del giorno, per noi già annunziato[6],
giunse Bernabò stesso, condottovi prigioniero colla comitiva descritta
a Mandellone dai due ladri, che dissero d’averla iscorta per la via del
bosco di Concesa.
A pena la guardia posta alla vedetta del castello vide spuntare le
lancie fuori del bosco, diè fiato al suo corno d’avviso, e accorse
tosto il castellano, che era Tadone Fosco: veduto egli soldati
lombardi, e fra essi il cappuccio di Bernabò, fece immediatamente
abbassare il ponte levatoio. I due capi di lancia che erano
all’antiguardia, passato a pena il ponte, si posero vicini alle catene
interne delle travi che servivano a rialzarlo, facendone sgombrare i
due uomini che vi si trovavano. Gasparo Visconti, spronato il cavallo,
fu a dosso al castellano, e curvandosi sull’arcione levò d’un colpo
il mazzo delle chiavi che appese ei teneva ad una cintura di cuoio;
la quale per la strappata spezzossi, ed il povero Tadone cadde a terra
dimandando pietà: poichè mal sapendo la causa di sì inusato procedere
contra di lui, temeva la mala ventura. Ma Gasparo Visconti gli fe’
cenno s’alzasse, e lo precedesse al castello; il che Tadone eseguì
senza trar fiato. Tutti i soldati, i prigionieri e la paravéreda
entrarono nella prima porta, e da quella volgendo lungo l’andito,
passarono nella seconda; dove le guardie, vedendo quella comitiva
preceduta dal castellano, non opposero al loro ingresso resistenza
alcuna. Non sì tosto il seguito fu entrato, che Gasparo Visconti fece
rialzare il ponte levatoio, ed intimò a Iacopo del Verme, che teneva
il comando sotto di lui, di dar subitamente la muta alle sentinelle,
disarmando i soldati di Bernabò, e coloro fra questi che non giurassero
fede a Giovan Galeazzo, facesse chiudere nella torre. Iacopo del Verme
dispose i suoi soldati alla porta maggiore del castello ed a tutte le
altre entrate. Ne pose una parte anche alla porta del parco, e fece
chiudere le barricate del ponte, collocando soldati nelle torri che
lo fiancheggiavano; poscia ordinò alcune scolte, onde si aggirassero
intorno alle mura del castello.
Bernabò frattanto e i suoi due figli Rodolfo e Lodovico erano stati
condotti nella sala maggiore dei superiori appartamenti, dove li aveano
seguiti frate Leonardo, Donnina de’ Porri, e le sue due figlie colla
vecchia Geltrude. Poichè furono i prigionieri assecurati nel castello,
Gasparo Visconti usò seco loro maniere più gentili, siccome eragli
stato imposto da Galeazzo, il quale voleva che a Bernabò ed a’ suoi,
sebbene prigionieri, si avessero que’ riguardi che erano dovuti alla
dignità ed al grado di parentela in cui gli erano congiunti. Appena
infatti tutte quelle persone si furono raccolte nella gran sala,
argomentando il capitano che la sua presenza non poteva riuscire che di
peso a Bernabò ed agli altri, partissi di là per far disporre a comodo
comune il restante dell’abitazione.
La bella luce del declinare del giorno penetrava nella maggior sala del
castello per le vetriate a più colori di due ampie finestre rivolte
ad occidente, e da due altre al lato opposto si vedeva riflettere
rosseggiante sulle mura merlate e sugli archi del cortile. Stavano
in quella sala appese intorno alle pareti varie armature e scudi con
fascie e campi a diversi colori; e vi erano disposti ampii seggioloni
riccamente coverti di drappi trinati in oro, ed altre sedie minori.
Sopra un seggiolone si assise Bernabò, rigettando dalla testa la
pelliccia d’ermellino con cui di consueto si ricopriva: pingue era la
sua persona, aveva elevata e calva la fronte, bianchi i capelli che ne
velavano le tempie, oblungo il viso e di lineamenti marcati e severi.
Si adagiò, tutto abbandonandosi colla persona nel sedile; alzò gli
occhi alle pareti: un lampo di sdegno rifulse nel suo sguardo, che girò
torbido e minaccioso, sinchè lo abbassò raccogliendo in atto doglioso
le braccia al petto. Alla sua destra stava ritto in piedi frate
Leonardo eremita, il cui rozzo saio, la lunga barba, le macre guancie e
lo sguardo umile ed inclinato, spiravano i patimenti e la sofferenza.
Alla sinistra di Bernabò era seduta Donnina della nobile famiglia
de’ Porri, che Bernabò aveva eletta a marchesa della Martesana,
infeudandola d’un ricco dominio. Essa fu l’ultima e la più fedele fra
le molte di lui amate, poichè soffrì dividere con esso la prigionia
unitamente alle proprie figlie, per continuargli le sue cure, e
temperarne gli affanni. L’età di lei era oltre i quarant’anni; e
sebbene non conservasse nel volto la leggiadria e la freschezza di
sua prima beltà, vi avea però ancor dipinta tutta la dignità e quella
nobile elevatezza dell’animo, ch’è pregevole ne’ prosperi, e sublime
nei contrarii eventi; mostravasi taciturna, ma cogli sguardi spiava in
volto a Bernabò quali idee lo agitassero, onde arrecargli conforto di
qualche consolante parola.
Presso a lei era Damigella sua seconda figlia: appena il
quattordicesim’anno faceva in essa spuntare i primi fiori della
giovinezza; il tondeggiante suo viso, colorito dalla salute, annunziava
l’innocenza ed il brio della tenera età; i di lei occhi, nerissimi al
pari de’ suoi capegli, piegavano mesti verso il viso di sua madre, il
cui melanconico contegno ne frenava l’usata vivacità, ciò null’ostante
svolgea scherzando intorno alle proprie dita il cordoncino d’oro che le
allacciava la veste, quasi fosse incapace di starsi in perfetta quiete,
e si rivolgea di quando in quando a guardar Geltrude, che seduta
da un canto era tuttora disaggradevolmente sorpresa dell’improvviso
cangiamento di sue abitudini.
Più in là verso la vetriata, in atto meditativo, stava dai cristalli
contemplando il cielo, Ginevra, la primogenita di Donnina; il color
roseo della luce si mesceva al pallido del suo volto, e le dava un
non so che di trasparente. Ne’ suoi grandi occhi azzurri, entro cui
la melanconia e le lontane memorie spremevano una lagrima, si leggeva
il bisogno di teneri sentimenti; una reticella formata d’un filo
misto d’oro e verde le annodava le biondissime treccie, di cui alcune
ciocche ricadevanle sulla fronte; un corpetto ricamato a neri fiori
sopra fondo scuro, il quale era aperto e rannodato sul seno da una
cordicella d’argento, ed una veste di drappo azzurro formavano il di
lei abbigliamento.
Più lungi Rodolfo e Lodovico sommessamente andavano cangiando qualche
motto fra loro; la ricciuta capellatura di Rodolfo e la fierezza dello
sguardo e de’ robusti lineamenti davano alla sua persona un aspetto più
tosto minaccioso che abbattuto; mentre la chioma liscia e inanellata
che ricadeva sul collo a Lodovico, non che i tratti gentili del di lui
viso atteggiati a mestizia, appalesavano quanto riuscisse doloroso al
suo cuore lo stato del proprio padre e della famiglia.
Tutti questi personaggi serbavano già da qualche tempo un profondo
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