Il castello di Trezzo: Novella storica - 09

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nella corte del padre, da uomini saggi, con una educazione per que’
tempi raffinatissima, resa adorna, acuta, calcolatrice e ripiena di
vastissime idee, aveva fatto tesoro di molte massime della sapienza
politica degli antichi filosofi e legislatori, che quel maraviglioso
ingegno di Francesco Petrarca, uno de’ suoi precettori, gli svolgeva,
corredandole di gravissimi ed esperimentati consigli.
Dappoi che per un ritrovato della propria mente con somma astuzia
condotto, ebbe fatto il primo passo verso l’elevata meta a cui mirava
fisso in suo segreto, concentrando nelle proprie mani l’impero degli
stati dello suocero zio, lasciò scorgere con universale sorpresa parte
di quell’energia ed intelligenza di cui era dotato; giacchè più non
necessitava a’ suoi scopi il farsi credere un ignorante pinzochero,
stupidamente dato ai soli atti d’una superstiziosa devozione, coi
quali ingannando sul proprio carattere non il solo Bernabò lontano,
ma ben anco i suoi più intimi famigliari, era giunto a far cessare
nello zio ogni pensiero di vigilanza sovra di lui, a segno di trarlo
nell’agguato che gli aveva disposto sotto le mura della stessa
Milano. Conceduto, pei primi momenti del suo insignorirsi dell’intera
città, uno sfogo all’ira della plebe e de’ cittadini, lasciandoli
scagliare sulle dimore di Bernabò e de’ suoi figli, d’onde trassero
gli ammassati tesori, permettendo di lacerare i libri delle gabelle
e de’ dazii, e di imperversare liberi per qualche giorno; assodato
il suo potere col favore dell’aura popolare, meditò di dar opera
al compimento del suo disegno di perfezionare il dominio. Aveva
appreso Giovan Galeazzo, e teneva per assoluta sentenza, che l’ordine
era il primo cardine d’ogni civile consorzio; considerava che le
magistrature, i regolamenti distribuiti a seconda de’ diversi bisogni
dello stato, ed una forza coattiva congiunta a ciascun d’essi per
l’esatta esecuzione delle incumbenze, doveano produrre inesprimibile
vantaggio alla politica società. Meditava sulle greche e le romane
istituzioni; quegli areopaghi, que’ senati, que’ tribunali erano gli
ordini ch’egli agognava di costituire ne’ suoi dominii; ma a’ suoi
concepimenti frapponevano sommo incaglio le cangiate circostanze de’
tempi e delle indoli nazionali, e la di lui ostinatezza nel non volere
che s’allentasse menomamente nelle sue mani il potere, onde l’ardimento
altrui non rendesse vani i suoi divisamenti.
In tale tenzone di pensieri, riservando a più opportuno momento
l’esecuzione di vasti disegni, pensò che gli era d’uopo giustificare
la sua usurpazione presso la propria e le estranee nazioni; fece
a questo fine stendere dai giureconsulti un atto d’accusa contro
Bernabò, in cui enumerandosi i molti di lui delitti, attentati
e malie a danno della vita di Giovan Galeazzo, si deducesse non
essere stato l’imprigionamento di Bernabò che un atto di difesa,
di giustizia e la liberazione della patria; volle nello stesso
tempo, onde accaparrarsi sempre più l’amore dei popoli, esentarli
da varie imposizioni pesantissime, le quali alla fin fine venivano
dai gabellieri consunte: a fin poi di fondare le prime radici dei
futuri più stretti regolamenti, fece stendere varii statuti pei
quali alle università delle arti, i cui membri essendosi attribuiti
molti privilegi che le consuetudini avevano resi inviolabili, erano
insubordinati all’autorità, congregandosi ne’ proprii quartieri, e
così congiunti ammutinandosi, veniva prefissa una dipendenza in varii
determinati casi dai consoli di giustizia, la quale dovea metter freno
al loro insorgere; ma negli statuti però s’accordavano titoli d’onore
agli anziani ed alcune facoltà illusorie. Finalmente ad esecuzione
delle leggi fece decreti che i consigli tenessero registro delle
decisioni, le quali scritte, venissero solennemente depositate negli
archivii. Statuite queste disposizioni, Giovan Galeazzo ne dimostrò il
vantaggio a Liarello da Zeno podestà, a Piosello da Saratico vicario
di provvisione; e fatti molti de’ consiglieri, del clero, de’ capitani
d’armi, degli anziani favorevolmente prevenire, ordinò l’adunanza del
gran consiglio, ch’era quella che in quel giorno si raccolse, onde i
suoi decreti venissero letti, approvati, ed ottenessero esecuzione;
mandò quivi suoi vicarii, ossia rappresentanti, Biagio Pelacane
parmigiano e Demetrio Cidonio di Tessalonica, il primo eletto ingegno,
il secondo parlatore facondissimo.
La sala del consiglio era un’aula amplissima, la cui volta, non molto
elevata, andava dipinta a fondo azzurro con stelle d’oro, le mura
delle pareti erano di marmo con una fascia superiormente d’ornati in
rilievo rappresentanti figure d’animali ed arabeschi; in ciascuno dei
quattro angoli stava uno stemma della città di Milano. Sur un gran
seggio elevato coperto di velluto cremisino sedeva il podestà, a’ suoi
fianchi stavano pur seduti i due vicarii del principe, e dietro a loro
eran paggi e cancellieri, poscia quei di provvisione, indi tutti i
consoli di giustizia, i rettori delle comunità, i consiglieri a varii
ordini; di fronte al podestà stava sur una elevata sedia, protetta da
un baldacchino con frangia d’oro, l’arcivescovo circondato dal clero.
Alla destra parte del podestà, dietro ai consiglieri, stavano ritti in
piedi i gonfalonieri coi vessilli ed i capitani d’armi, alla sinistra
gli anziani delle arti ed i loro collaterali. Quando furono quivi tutti
raccolti e disposti i numerosi componenti del consiglio, s’avanzò un
cancelliere, davanti a cui un giovinetto paggio recava una guantiera
d’argento su cui vedeansi varii rottoli di pergamena coi contorni
dorati; il cancelliere venuto innanzi a Demetrio Cidonio vicario del
principe, che stava alla destra del podestà, l’inchinò profondamente,
e dal paggio, che piegò un ginocchio sui gradi dell’alto sedile, fece
a lui porgere quelle pergamene. Demetrio, alzatosi in piedi, una ne
prese, la svolse e si fece a leggerla con robusta voce. Era l’accusa
di Bernabò. Quasi tutti gli uditori, o vinti da Giovan Galeazzo, o
stati offesi dall’altro signore, applaudirono e confermarono quelle
imputazioni, sebbene molte ve ne fossero false ed altre assurde,
siccome quella delle arti magiche che si dicevano adoperate da quel
principe onde il nipote non avesse prole; ed allorchè il vicario
conchiuse che per giustizia e diritto, imperocchè Venceslao imperator
d’Alemagna avea il solo Giovan Galeazzo investito della signoria
degli stati Lombardi, a lui solo appartenea il dominio, tutti si
alzarono gridando: _Viva Giovan Galeazzo, viva il conte di Virtù nostro
signore_; e s’udirono le trombe annunziarlo al popolo, ed il popolo far
eco con altri viva.
Fra i pochi avversi all’applaudire al nuovo signore, il più ardente
si era Palamede che, offeso dalle calunnie con cui udiva venir
Bernabò incolpato, poco stette, dimentico d’ogni altro affetto, dallo
slanciarsi in mezzo al consiglio a difenderlo colla voce e la spada; ma
Leone che gli era al fianco il trattenne colle parole, e il marchese
Azzo cogli sguardi che a lui volgea imperiosi dal seggio ove stava
assiso.
Dopo l’accusa di Bernabò venne letto il decreto di abolizione e
diminuzione delle gabelle del grano, e degli istrumenti, che così
chiamavasi la tassa che veniva esatta nei contratti, e delle ruote
ferrate che si sborsava da chiunque teneva cocchi o carri. Non ponno
descriversi le espressioni di gratitudine e i segni di contento che
dai consiglieri e dal popolo si diedero alla lettura di tale decreto.
Quindi generale fu l’assentire alle innovazioni ordinate nel modo di
tenere i consigli, ed agli statuti per le università delle arti; per
cui chiuso che fu il consiglio, uscendo i vicarii di Giovan Galeazzo
dal Broletto nuovo, vennero coi più rumorosi applausi ricevuti dal
popolo che si disperse, persuaso essere venuta l’età della vita felice.


CAPITOLO VIII.
Fra l’ombra della notte e degli incanti
Ei muove dubbio e mal securo il piede.
Sul limitar d’un uscio i passi erranti
A caso mette, nè d’entrar si crede;
Ma sente poi che suona a lui diretro
La porta, e in loco il serra oscuro e tetro.
TASSO.

Lunghi e dolorosi scorrevano i giorni pei prigionieri di Trezzo.
Il destino di Bernabò e de’ suoi congiunti formava argomento al
ragionare di ogni persona. Era pensiero di tutti che da Giovan
Galeazzo non sarebbesi giammai ridonata loro la libertà, e quindi
facile il prevedere che avrebbe cercato ogni via di togliersi la
briga di custodirli. Chi passando pe’ boschi d’intorno, o battendo i
sentieri che salivano le alture vicine al castello, vedea la sommità
delle torri e delle mura merlate sorgere fra gli antichi alberi che
il circondavano, anzichè ritrarne pensieri di caccie, di feste, di
principeschi passatempi che soleva quella vista produrre, non provava
che sentimenti di pietà o di soddisfatta vendetta, secondo che amava od
odiava quel principe; ma tutti però i riguardanti risentivano una certa
impressione di meraviglia e tristezza che le disavventure di personaggi
potenti sogliono infondere nell’anima, forse per le secrete riflessioni
che ci destano sull’instabilità delle umane sorti, e fors’anco perchè
mettendoci colla mente in loro, pensiamo quanto debba riuscir doloroso
il rapido passaggio da uno stato di impero e ricchezza a quello di
soggezione e miseria.
Nell’interno del castello regnava di continuo una tristissima quiete.
Abbenchè racchiudesse molti abitatori, avea esso l’aspetto d’un
castello deserto: solitarii se ne vedevano i cortili, gli atrii, i
porticati, ed il silenzio che per tutto si manteneva non era interrotto
che d’ora in ora dal risuonare dei pesanti passi degli uomini d’armi
che distribuivansi per scolta alle porte, alle torri ed al ponte
dell’Adda. Ciò solo che recava qualche movimento fra quelle mura, si
era al cader del sole il suono della campana della chiesa, alla cui
chiamata tutti attraversando il maggior cortile venivano nel tempio.
Vero è che la mestizia che scorgeasi dipinta in volto ad ognuno, il
procedere lento e taciturno di tutti, in vece di porgere conforto,
aumentava il cordoglio ne’ cuori.
Dopo quel giorno che nel castello s’era sparsa la voce d’una notturna
apparizione che aveva dato motivo a quanti vi abitavano di formare
diverse congetture, a norma delle proprie speranze o timori, un
avvenimento era seguito per cui s’accrebbe d’assai l’amarezza di quel
soggiorno in Bernabò e negli altri ivi seco rinserrati. Il capitano
Gasparo Visconti avea, come vedemmo, creduto, coi principali de’ suoi
armati, che quell’apparizione altro non si fosse che un tentativo per
liberare il principe prigioniero. Venne in tal sua opinione confermato
dalla scomparsa che gli fu riferita dell’aríolo, ch’ei pensò dover
essere uno degli interni cooperatori ad agevolare la fuga di Bernabò o
la presa del castello, se i di lui liberatori fossero stati numerosi.
Il Visconti spedì quindi immediatamente un messo a Giovan Galeazzo a
recargli avviso di tale evento, onde avvenendo nemica sorpresa stesse
parato a mandargli soccorso.
Recò grave agitazione tale annunzio a Giovan Galeazzo, che mal
rassicurato era ancora sull’usurpato seggio, e per tutto temeva
congiure e nemiche fazioni: pensò esso sulle prime che l’impresa di
togliere dalle sue mani Bernabò non potesse essere tentata fuorchè
da Carlo figlio di quello, il quale all’insignorirsi ch’ei fece di
Milano s’era alle sue ricerche sottratto colla fuga; ma allorchè
seppe che questi stava a Verona presso Antonio della Scala, che gli
era cognato, fatto da molti soldati ricercare tutti i luoghi contigui
a Trezzo, e non vi ritrovando armati, nè sapendo che vi fossero
macchinazioni, mandò ad accertare il capitano Visconti che non temesse
d’ostili insidie, nè per tanto cessasse d’invigilare gelosamente su i
prigionieri.
Giovan Galeazzo non rimase però pago di questo. Paventando sempre che i
figli di Bernabò, aiutati da principi stranieri, o da partigiani nello
stato, avessero a ritrovar qualche mezzo di render liberi il padre ed
i fratelli, fece più strettamente rinchiudere addoppiando la vigilanza
sovra Sagramoro e Galeotto altri di lui figli che teneva prigioni nel
castello di Monza, e diede comando si togliesse Rodolfo da quello di
Trezzo onde disgiungerlo dal padre e dal fratello Lodovico, e fosse
condotto nel forte di San Colombano.
Venti uomini d’armi capitanati da Giovanni Ubaldino partirono da
Milano, e si recarono a Trezzo per eseguire tal ordine di Giovan
Galeazzo. Quando que’ soldati comparvero presso le mura del castello, e
riconosciuti amici, loro fu abbassato il ponte levatoio per riceverli
al di dentro, un secreto terrore invase il cuore de’ prigionieri.
Ubaldino si recò da Gasparo Visconti, ed a lui presentò una lettera del
suo signore, nella quale gli veniva ingiunto di consegnarli Rodolfo.
Gasparo Visconti recossi tosto da questo, e il fece avvertito si
disponesse a partire coi soldati novellamente giunti nel castello,
poichè era volontà del principe ch’egli fosse tolto da Trezzo, e
condotto a San Colombano.
Rodolfo a tale comando pensò che ciò null’altro si fosse che un
pretesto per trarlo a morte lungi dagli occhi del padre: tale pensiero
gli si affacciò tosto alla mente, poichè conoscendo gli usi del
tempo, era quanto ei s’attendeva sin dal momento che era stato fatto
prigioniero, e sperando di potere sottrarvisi altrimenti, fece in suo
cuore una disperata risoluzione: stabilì, appena si fosse trovato fuori
di quelle mura, sul sentiero presso all’Adda, di scagliarsi, inerme
com’era, sui soldati che lo scorterebbero, e pervenendo a sciogliersi
da loro, precipitarsi nel fiume e salvarsi a nuoto colla fuga, o perire
piuttosto trafitto dalle spade o nelle acque dell’Adda, anzichè sui
patiboli secreti di Giovan Galeazzo.
Con questa determinazione nell’animo, ed anelando l’ora di trovarsi
nella lotta, recossi nelle stanze del padre a prendere congedo da
lui, da Lodovico, da Ginevra, Damigella e Donnina, che tutti quivi
convennero. Quando furono raccolti, Rodolfo con ferma voce spiegò
che veniva a dar loro l’addio, forse estremo, essendo costretto a
separarsi da essi per essere rinserrato fra altre mura. A queste
parole un disperato dolore trafisse il cuore di Bernabò, e il furore
si dipinse sul suo volto: egli non s’aspettava tal colpo doloroso che
tutte annientava le sue speranze, privandolo del più fidato appoggio
che s’avesse, chè tanto era per lui quel suo vigoroso ed ardito figlio,
quando si fossero offerti i soccorsi ch’egli mai sempre sperava. La
di lui fronte si raggrinzò, gli occhi rosseggiarono per lo sdegno,
e un tremito di rabbia gli si sparse per le membra. Alzatosi, gridò
furibondo, maledicendo Giovan Galeazzo ed i suoi fautori; ma i figli
e le figlie, e frate Leonardo e Donnina gli furono d’intorno, e col
pianto e le preghiere pervennero a racquetarne lo spirito. Allorchè,
calmato, fissò lo sguardo in Rodolfo, larga copia di lagrime gli
rigò le guancie, e porgendo a lui la destra, con voce tremante, che
palesava quanta fosse l’angoscia che chiudeva in petto: «Ah! figlio mio
(esclamò), tu mi sei tolto per sempre: sì pur troppo m’accorgo che si
vuole ch’io chiuda questi miei occhi nel sonno eterno, senza che stia
a me vicino un solo de’ miei figliuoli che m’invochi la grazia del
signore nell’ultim’ora, e preveggo che non vedrò intorno al mio letto
di morte che i volti degli abborriti sgherri del conte di Virtù. Ma
che dico?... Non si stanno forse già preparando le trame per me, per
voi tutti, onde toglierci l’uno lontano dall’altro la vita? Tu, mio
Rodolfo, ne sei la prima vittima.» A tali detti i singhiozzi di tutti
quegli astanti si raddoppiarono; il solo Rodolfo, intrepido in viso,
e con sguardo sicuro, animando ferocemente la voce, disse: «Non temere
per me, padre mio: se lo spirito infernale non mi toglie le forze, io
non perderò al certo la mia vita entro le mura d’un castello; se il
cielo mi protegge, potrebbe avvenire che io riesca ancora formidabile
al nostro oppressore.» In così dire piegò un ginocchio davanti a
Bernabò, ed in tale attitudine ne baciò la mano; ma questi il rilevò,
e gli porse un bacio in fronte bagnandolo di lagrime. Rodolfo, toltosi
all’amplesso del padre, abbracciò Lodovico e le sorelle, strinse a
Donnina ed a Leonardo la mano; a tutti il pianto soffocava la voce,
ed una visibile commozione atteggiava quasi alle lagrime anche i fieri
lineamenti di Rodolfo, quando, raccolta tutta la sua forza, pronunciò
un «Addio,» ed uscì da quelle stanze.
Bernabò rimase immobile pel dolore; Ginevra cadde svenuta a’
suoi piedi; Donnina e Damigella, pallide e tremanti, accorsero a
soccorrerla; Lodovico, straziato da così funesta scena, stava dubbiando
o di seguire il fratello, o di restare a conforto del padre; ma
attenendosi a questo partito, rimase accanto a Bernabò in mestissimo
atteggiamento: frate Leonardo ergeva ammutolito lo sguardo al cielo
invocandone la pietà sovra quei desolati parenti. Bernabò, scosso
alfine da quella tremenda concentrazione, si volse al frate, e gli
disse: «Ah! Leonardo, ora sento sinceramente che non mi resta altra
speranza che quella del Cielo;» e così dicendo riprese in volto i
tratti dell’usata severità.
Rodolfo, posto fra mezzo agli uomini d’armi, salendo un cavallo di cui
un soldato tenea la briglia, uscì dalla gran porta del castello sempre
fermo nel suo ardito proposito. Giunto ch’ei fu colle scorte d’appresso
alla ripida sponda dell’Adda, guardò all’acque, e d’un salto balzato
di sella, si slanciò per calarsi dalla riva; ma uno dei militi fu
pronto ad attraversargli col cavallo la via, e mentre Rodolfo mirava ad
evitarlo, gli altri gli furono addosso. Robustamente ei si dibattè. Ma
i soldati, essendo di molto numero ed armati, l’atterrarono, e cintolo
di nodi duramente il riposero sul cavallo, e fu così tradotto sino a S.
Colombano, dove venne rinchiuso nel mastio della torre.
Quando Rodolfo fu disgiunto dal padre, il capitano Gasparo Visconti
venne chiamato a Milano da Giovan Galeazzo, ed a comandante del
castello di Trezzo ed a guardia de’ prigionieri rimase Iacopo del
Verme. I piovosi giorni e le melanconiche nebbie dell’autunno, che
s’inoltrava, rendevano sempre più triste l’abitar quivi: ingiallivano
i boschi d’intorno, e denudavansi i rami; non più s’udiva l’usignuolo
rallegrare le notti, nè il gaio canto degli uccelletti salutare
il mattino; lunghe schiere di corvi vedevansi la sera attraversare
con alto volo il castello recandosi ne’ boschi dell’Adda; il loro
gracchiare, lo stridire di qualche sparviero che si posava sui merli
delle torri, o il grugnire pe’ boschi d’affamati cignali, erano le sole
voci di esterni esseri viventi che pervenivano a quelle mura.
Dal dì della partenza del figliuolo, neri presentimenti travagliavano
lo spirito di Bernabò. Conscio di ciò che avea praticato assai volte
per togliere di mezzo uomini potenti che si opponevano a’ suoi fini,
pensava che il conte di Virtù non sarebbe stato meno scellerato con
lui, di quello ch’egli stesso era stato con altri. La profonda malizia
d’infingersi per tanto tempo uomo nullo, senza pensieri di regno o
d’ambizione, e l’arditezza con cui condusse il tradimento di prenderlo
prigioniero, bene il persuadevano che Giovan Galeazzo, quantunque
suo nipote, e marito d’una propria figlia, era atto a commettere
qualunque misfatto quando gli fosse tornato utile l’eseguirlo. I
veleni, i pugnali, i capestri erano in quella età modi frequenti di
morte entro le mura de’ castelli; ed una ricca pompa funebre onorava
spesso la vittima dell’occulta prepotenza, e persuadeva al popolo che
un assassino, un parricida era uomo umano e religioso. Per ciò Bernabò
paventava ad ogni istante di finire violentemente i giorni, quantunque
considerasse che non si sarebbe tralasciato di porre il suo cadavere in
magnifica arca sotto le volte d’una cospicua chiesa di Milano.
La crudele aspettativa di maggiori delitti non contristava Ginevra,
poichè il suo cuore innocente, non agitato che dai dolci moti della
pietà e della tenerezza, era straniero a tutti i calcoli di uomini
feroci, il cui sommo bene stava nell’imperare e nell’opprimere. Ma ciò
null’ostante la vivissima afflizione che le aveva cagionato il distacco
del fratello, l’ignorare che fosse avvenuto di Palamede, il non avere
persona da cui ricevere conforto, o nel cui seno versare le proprie
pene, bastavano a rendere infelicissima l’esistenza di quella sensibile
fanciulla. Aumentavano i mali della sua addolorata mente la mestizia
de’ giorni autunnali, l’imponente aspetto di quelle mura che parevano
doverla racchiudere eternamente, e le truci sembianze de’ soldati che
alcune volte scorgea ne’ cortili e nella chiesa. Non più Gabriella co’
suoi motti vivaci potea giungere a trarle il sorriso sulle labbra, nè
i racconti della vecchia Geltrude attiravano la di lei attenzione:
un affanno profondo inconsolabile le occupava tutta l’anima, ne
consumava con interno martiro la freschezza de’ giorni. Solo raggio
di gioia in tante angosce era per lei la memoria di quel momento in
cui le comparve allo sguardo Palamede sotto il verone del castello;
ma le arcane parole colle quali l’aríolo l’aveva preparata a quella
inaspettata apparizione, il rapido dileguarsi di questa, e la strana
fuga di Enzel, le lasciarono una tinta misteriosa di quell’avvenimento,
per cui talora lo dubitava accaduto per opera d’incanto: e quindi
pensava che Palamede fosse estinto, e che quello apparsogli altro non
si fosse che la larva di lui; tal altra fiata, persuadendosi che quella
era stata un’illusione della sua fantasia, credeva che l’amante suo
giacesse in qualche carcere, o si fosse congiunto coi nodi nuziali ad
altra donzella. Spesso però questi dubbii le erano sospesi dalla vista
e dalla lettura del foglio di Palamede che le avea recato l’aríolo, e
in cui le ripeteva la costanza del suo affetto: ella riconosceva que’
caratteri siccome stesi dalla mano dell’adorato cavaliero; ma nascevale
temenza talvolta che fossero fatti per arte negromantica, tremava al
toccarli, e si ritraeva da loro spaventata. In mezzo a tali ambasce
si effondeva ogni giorno in fervidissime preghiere alla Vergine, e ne
bagnava di lagrime il simulacro, invocandone la protezione; ma sentendo
sempre più le pene aggravarlesi nel cuore, credeva che le proprie
colpe e il troppo amore per un essere terreno l’avessero resa indegna
delle grazie del cielo, e con riscaldata fantasia paventava l’eterna
perdizione, e meditava ai tormenti dell’abisso. Abbandonato giaceva il
liuto appeso alle pareti della camera di lei, e nè pur esso giovava
a raddolcire co’ suoni le ore di quella giovinetta infelice, la cui
anima, in tutti i più soavi sentimenti straziata, agognava alla pace
della tomba.
In questo intervallo stando in Milano Palamede sempre incitato
dall’amore ardentissimo per la fanciulla prigioniera, nè d’altro
pensiero curandosi che di ottenerla, tutto aveva posto in opera per
piegare l’animo di Giovan Galeazzo ad accordargliela. Da prima il
marchese Azzo Liprando s’era presentato a questo fine al principe
onde richiedergliela, certo che questi, ch’egli reputava umanissimo e
cortese, non gli avrebbe dato rifiuto; ma ciò appunto fu quello che
avvenne con somma sua sorpresa e rammarico. Allorchè Azzo gli fece
richiesta di Ginevra, era a Giovan Galeazzo da poco tempo giunto il
messo di Gasparo Visconti, recando la novella della tentata liberazione
de’ prigionieri: il sospettoso signor pensò che quella richiesta
fosse fatta ad arte per favoreggiare la trama d’introdurre stranieri
in quel castello, e il rimandò non solo inesaudito, ma con pungenti e
minacciose parole.
Palamede fu sopra modo desolato da questo fallito tentativo, poichè
s’avea riposta gran fidanza nell’impegno del marchese Azzo, la cui
dignità e potenza sembravano dovere ottenergli molti riguardi dal nuovo
signore; e già paventava gli venisse Ginevra negata per sempre, poichè
vedendo l’accanimento di Giovan Galeazzo contro la famiglia di Bernabò,
tremava facesse ad essa pure togliere la vita, o la chiudesse in un
chiostro costringendola a vestir abiti monacali, onde per lei non si
estendesse la discendenza di quel principe, la cui rimembranza volea
in tutto spenta. Non arrischiandosi quindi a far sì tosto nuovamente
richiedere Giovan Galeazzo del concedergli la sua fidanzata, per non
destarne contro di lei lo sdegno, ed irritarne i sospetti, dispose
l’animo a pazientare, siccome Azzo stesso lo consigliava, attendendo
più opportuno momento, che sarebbesi al certo offerto quando la
sicurezza del dominio avesse tolta ogni tema di tradimento dall’animo
del principe.
Il vivissimo affetto del cavaliero non gli lasciava intanto riposo.
Egli non viveva che per Ginevra, e tutte le sue idee s’aggiravano
intorno al modo di avvicinarlesi, o di darle di se contezza. Più
volte aveva instato presso l’aríolo onde il giovasse colle arti sue
a penetrare nel castello di Trezzo; ma l’aríolo sempre rifiutossi
a secondarlo; anzi l’aveva dissuaso da questo progetto siccome
ineseguibile, e certa via a perder se stesso, e peggiorare la sorte dei
prigionieri. Ciò non pertanto Palamede s’era più volte recato nelle
vicinanze di Trezzo; seguito da Enzel. Lasciava i cavalli nell’isola
di Mandellone, e guidato dall’aríolo, esperto conoscitore dei luoghi,
s’accostava inosservato al castello, ed era pago del contemplare le
mura impenetrabili che rinserravano colei che avea in suo cuore giurato
di ottenere, o di perire. L’aríolo gli additava il verone e le finestre
nelle stanze ove abitava Ginevra, e d’onde era partito quel canto che
il rese una notte felice; e il cavaliero meditava fra se, e poneva
l’ingegno e la cupidigia di Enzel a tutte le prove, onde ritrovasse
qualche mezzo per cui pervenire a parlare, o almeno vedere l’amante: ma
quel castello era troppo da vigilanti armati in ogni punto esattamente
guardato, e l’appressarvisi a tiro d’arco sarebbe stata pericolosissima
prova; nè Enzel, il quale teneva al vivo impresso nella mente per
qual raro caso fosse sfuggito alle ricerche de’ soldati che volevano
abbruciarlo, s’arrischiava porre in uso arte o raggiro per cercare di
introdurvisi, dal sotterraneo della torre nera, o della cappella de’
morti. Onde per quanti disegni componesse colla fantasia Palamede,
nessuno gliene s’appresentava che valesse a suggerirgli un mezzo o di
forza, o d’astuzia, per impossessarsi di Ginevra, ed era necessitato ad
attenersi a quel solo di averla per consenso di Giovan Galeazzo.
Questo principe frattanto, chiamato da gravi cure di stato, s’era
recato a Pavia, nel castello della qual città, sua corte paterna,
soleva abitare con sua madre Bianca di Savoia, e la moglie Caterina,
che, come figlia di Bernabò, non volle fosse presente in Milano
al tradimento commesso contro il di lei padre. Allorchè ciò seppe
Palamede, avendo spesse volte veduta Caterina nei palazzi di Bernabò e
nella casa di Donnina de’ Porri, pensò che questa avrebbe per lui e per
Ginevra preso caldo interessamento, ed avrebbe assunta ogni cura per
rendere assenziente il marito alle loro nozze. Ma gli fu detto che era
assai difficil cosa il poter favellare a Caterina, mentre per ordini
secreti di Giovan Galeazzo, che di tutto temeva, ella veniva guardata
con molto rigore onde non le si accostasse persona invisa od ignota a
Giovan Galeazzo, sebbene la tenesse d’altra parte circondata di pompe e
di principeschi onori.
Palamede tentò pure di vincere tale ostacolo. Immerso com’era di
consueto in tristi pensieri, soleva passare alquante ore del giorno
nei solitarii recessi del convento di San Marco, dove fra molti
libri e religiosi pensieri trovava occupazione. Aveva fatta per
ciò stretta conoscenza con frate Lanfranco Guincinelli priore di
quel convento, quello stesso per cui lo zio Baldizone gli diede in
Carsenzago un foglio in cui lo raccomandava calorosamente. Palamede
aveva a Lanfranco palesata la causa della sua melanconia. Lanfranco,
finissimo conoscitore degli uomini, intendeva di leggieri che Giovan
Galeazzo non si era tale da lasciarsi piegare da guelfeschi maneggi,
quantunque a questa parte piuttosto che alla ghibellina era sembrato
inchinevole quando viveva a null’altro dato che agli atti religiosi:
dubbiando perciò dell’essere ben accolto dal principe, non aveva
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