Il castello di Trezzo: Novella storica - 07

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questi momenti per amoreggiar con Maria, ch’era essa pure innamorata
di lui, e sulla quale in ogni altro istante il sospettoso Mandellone
invigilava gelosamente. «T’avvicina, bella Maria (proseguiva lo
scudiero, prendendole una mano, mentre ella tutta arrossendo a lui
s’accostava), riempi tu stessa questa tazza di vino: poichè io ho
giurato di non beverne una goccia, fossi anche sulle sabbie della
Palestina, se tu prima non ne assorbi un sorso con que’ tuoi labbruzzi
più rossi del sangue di tutti i guerrieri che io ho ammazzati.»
Maria s’accostò, sorridendo, quella tazza alla bocca; e resala allo
scudiere, questi se la tracannò d’un fiato. «Eh, che vernaccia! che
vin greco! (esclamò). Qui, qui dentro stanno tutti i sapori. Ah! Maria,
la tua bocca ha trasfuso in quel vino il fuoco o il veleno. Per pietà
siedi qui su questo sasso vicino a me; sta preparata a soccorrermi,
perchè io sento un ardore circolarmi per le vene che tutto m’abbrucia.»
La semplice Maria, dal timore, dall’ansia amorosa, dall’agitazione,
dalla forza delle braccia di lui fu costretta a sedersi; allora lo
scudiero serrando ambedue le mani di lei fra le sue: «Tu non sai
(le disse) quante dame e principesse, le più ricche e belle donne
del mondo, hanno sospirato per me; ma io sempre resistetti alle loro
attrattive. Tu, tu sola, o Maria, con que’ tuoi occhi vivissimi, che mi
han penetrato il fondo del cuore, mi hai vinto, ed acceso di un fuoco
violento a cui non posso resistere. Io voglio farmi tuo cavaliere,
condurti nelle più grandi città, darti palazzi, ricchezze, tutto
ciò che potrai desiderare; ma....» Gli occhi di lui sfavillanti, il
rosseggiare delle sue guancie, il moto inquieto della sua persona e
delle sue braccia misero gran paura a Maria; che, rialzatasi, faceva
forza per divincolarsi da lui; e la lotta ineguale sarebbe durata a
lungo se un fischio che s’intese dalla sponda dell’Adda, facendo venire
Mandellone a quella volta, non vi avesse posto fine. Lo scudiero lasciò
Maria, che fuggì verso la capanna, ed ei si recò indispettito verso
la riva onde vedere chi fosse che sì a contrattempo per lui veniva a
passare il fiume.
Agli atti replicati di rispetto che faceva Mandellone, alla diligenza
con cui accostò alla sponda la zattera, e porse mano al passeggiero a
salirvi, lo scudiero riconobbe in questo il suo signore; e nell’altro
che lo seguiva, quell’aríolo con cui aveva il giorno avanti ragionato:
corse perciò anch’esso al luogo dello sbarco a riceverli, mostrando
tutta la premura e il contento di rivedere il cavaliere. Appena questo
fu a terra, gli chiese dove fosse il suo cavallo; e lo scudiero
rispondendogli ch’era dall’altro lato dell’isola che stava col suo
proprio pascolando, gli impose di condurli tosto presso la capanna per
sellarli e porli in arnese onde partire immediatamente.
L’oste gli aveva preceduti, e stava affaccendato chiamando Trado e
Maria, comandando loro ad alta voce che disponessero deschi, tondi,
tazze per servire il cavaliero; ma questi, sopraggiunto coll’aríolo,
disse che null’altro gli abbisognava fuorchè un vaso di fresca acqua,
e pregò Maria gli arrecasse de’ lini ed un nastro; sedutosi poscia
sopra un sasso, sentendosi gravemente addolorato il braccio a causa
della ferita, ch’era profonda, se lo dispogliò dei panni. L’oste e la
figlia, che gli si fecero dintorno, mentre Enzel era andato in cerca
di erbe, rimasero attoniti allo scorgere il suo braccio ravvolto in una
benda tutta intrisa di sangue. Mandellone, cui aveva recato sorpresa la
mutata compagnia con che vide ritornare il cavaliero, pensò a quella
vista, ed all’abbattimento che scorse a lui in volto, che loro fosse
accaduta qualche mala ventura; ma nulla nè chiese, nè disse; e porse
mano a Maria, che lo veniva con gran cautela sfasciando. Tramandava
la piaga nuovo sangue ancora su quello che le stava intorno aggrumato:
essi gliela lavarono; e allorchè fu ripulita, ritornò Enzel recando un
fascetto di erbe e fiori, fra cui ne scelse alcuni, che tritò, pose
in un vaso, e pestili a gran forza, ne versò poscia il succo a varie
gocce nella ferita; quindi vi sovrappose altre erbe fresche; e ravvolto
entro bianco lino il braccio, glielo cinse d’un nastro. Subito dopo
questa medicazione, fosse la freschezza dell’acqua con cui fu lavata
la ferita, o qualche naturale virtù delle erbe, Palamede disse di
non provare quasi più dolore alcuno, per cui potè rivestire gli abiti
che indossava la prima volta che venne nell’isola; e quell’immediato
giovamento ridondò a grande onore dell’aríolo, poichè si attribuì alla
di lui sapienza nella scelta delle erbe, ed al suo potere di renderle
salubri.
Avendo lo scudiero condotti colà i cavalli, loro riposti gli arcioni
e gli altri arnesi, Palamede trasse alcune monete d’oro, e le diede
a Mandellone, il quale appunto, colla speranza di riceverle, venía
porgendogli tutti i voti per la di lui prosperità e la speranza di
rivederlo; ed appena ebbe quel denaro nelle mani, facevan contrasto
visibilissimo sul suo volto la contentezza di possederlo, e
l’afflizione esagerata che forzavasi di dimostrare per la partenza e
la ferita del cavaliero. Non così Maria, i cui occhi si gonfiarono di
lagrime allorchè vide lo Scudiero avviarsi al fiume guidando a mano i
due cavalli, preceduto dal suo signore, dall’oste e dall’aríolo; quando
furono saliti sulla zattera, e che lo scudiero, fissandola, sorridendo
la salutò della mano, ella diede in uno scoppio di pianto, pel quale
tutti a lei si rivolsero, ed ella si tolse dalla sponda, nascosto il
viso nel grembiale, ritirandosi alla capanna.
Superata l’erta riva dell’Adda, Palamede e lo scudiero salirono i loro
destrieri; e l’aríolo veniva camminando dietro al cavaliero, il quale
tratteneva il cavallo, ardente di slanciarsi in corsa, ad un lento
passo, a causa che la picciola strada su cui viaggiavano, essendo al
margine dell’erta sponda del fiume, era piena di scoscendimenti. Dopo
poca via il cavaliero, bramosissimo di favellare con quell’uomo per
lui misterioso, che avevagli resi sì segnalati servigi, chiamollo al
proprio fianco, e gli chiese instantemente chi egli mai si fosse, e
in qual modo avesse conoscenza di lui e di Ginevra. «Chi io mi sia
(rispose Enzel), nulla vi gioverebbe il conoscerlo: quindi null’altro
vi dirò di me, se non che mi chiamo Enzel Petraccio l’aríolo, che
già da varii anni abitava il castello di Trezzo, d’onde non sarei
ora sloggiato se non mi fossi fitta in capo la voglia di veder
rasserenato il volto della bella Ginevra, su cui mi sembrava che
troppo ingiustamente regnasse la tristezza cagionata dalla prigionia.
Conducendo voi a questo fine sotto il di lei verone, mi posi a pericolo
d’essere arrostito come un mago alleato dell’inferno; ma mi sottrassi a
tempo dalle unghie de’ soldati, e giunsi a voi vicino nel vero momento
in cui la mia venuta vi valse la vita. Per lo che se voi mi accorderete
la vostra protezione, sono contentissimo di aver abbandonato quel
castello. — Non dubitare, o Enzel (a lui rispose Palamede): poichè
ti debbo la vita, dovessi perderla per giovarti, non mi vedrai punto
esitare; ma ora vorrei sapere, se Ginevra stessa ti appalesò qual fosse
la causa della sua tristezza, e come mai tu giungesti a scoprire che
io mi trovava entro quel bosco coi ladri. L’aríolo, a lui rispondendo,
non gli spiegò il modo vero ingegnoso con cui venne a capo di tale
scoperta; ma usando parole artificiose e stravaganti, il lasciò
sospettare ch’egli possedesse arti secrete, ma naturali, con cui senza
il soccorso di spiriti maligni conosceva gli avvenimenti ignoti; poscia
gli manifestò che Ginevra nutriva per lui un amore sempre ardentissimo;
gli narrò tutto ciò ch’ella faceva nel castello, e come veniva per
ordine del capitano rispettosamente trattata; finalmente, ripetendogli
gli ultimi discorsi ch’ella gli aveva tenuti: «Che ciò che io vi narro
sia la verità, aggiunse, e che la vostra Ginevra abbia piena fidanza
in me, ve lo provi questo gioiello maraviglioso ch’ella mi diede
ond’io a voi lo consegnassi.» E così parlando si trasse dal di sotto
dell’abito quel prezioso fermaglio che aveagli dato Ginevra, e lo porse
a Palamede. Questi lo riconobbe all’istante, perchè tante volte ne avea
vedute brillare le gemme sul petto a Ginevra, quand’ella, collocata
fra varie nobili giovanette nelle sale o ne’ tempii, attraeva i suoi
sguardi, che posando su di lei incessantemente, avevano imparato a
distinguerne i più minuti ornamenti. Mentre egli avidamente contemplava
questo prezioso dono, l’aríolo gli ridisse quel portentoso potere
di cui gli avea narrato Ginevra essere dotato: cioè di appalesare,
coll’impallidirsi delle perle e l’annerirsi de’ diamanti, il momento
della morte di chi glielo donava; e con tutta l’eloquenza gli descrisse
l’ardore col quale ella aveva pronunciata la promessa d’essergli
costante sino agli estremi della vita. Il cuore di Palamede s’intenerì
profondamente alle di lui parole, ed un trasporto d’amore trasse
sull’occhio del guerriero una stilla di pianto, che cadde su quella
croce, sacro pegno del più puro affetto.
Le ruinose mura del castello di Vaprio si appresentarono a capo della
strada; il giorno s’avanzava; e il cavaliere, riposto il gioiello, e
calmata l’agitazione soave del cuore, propose all’aríolo di salire in
groppa al cavallo dello scudiero, chè in tal modo avrebbero fatto più
rapido cammino. Ciò fece infatti l’aríolo; e messisi sulla strada di
Vaprio, che era assai più della prima restaurata, posero i cavalli a
buon trotto.
Il canale che porta il nome di Naviglio della Martesana, il quale,
uscendo dall’Adda poco al di sotto di Trezzo, corre dirittamente sino
a Groppello, indi volgendosi a ponente discende a Milano, giovando
colle abbondanti sue acque al commercio ed all’irrigazione, e che
ora s’incontra circa alla metà della strada fra Vaprio e Gorgonzola,
non era stato a que’ tempi scavato, per cui la via s’allungava fra
terreni incolti, sparsi qua e là di qualche rustico e miserabile
casolare. Arrivarono que’ viaggiatori a Gorgonzola, che loro s’indicò
da lungi colla sua bruna torre, entro cui era stato rinchiuso nel 1245
Enzo figliuolo dell’imperador Federigo, il quale, fatto prigioniero
da’ Milanesi, venne reso in cambio dell’intrepido Simon da Locarno.
Passarono quel borgo, che portava ancora in alcune devastate case i
segni della terribil lotta fra i Torriani ed i Visconti colà consumata.
Attraversata la Molgora, pervennero, dopo un bel tratto di cammino, al
Lambro, dove, pagato il pedaggio per passarne il ponte, entrarono in
Carsenzago. Ben lungi allora dal fare lieta mostra di se, siccome ora
avviene a causa degli ameni e gentili casini disposti lungo il naviglio
che lo fiancheggia, Carsenzago non era in que’ tempi che un villaggio
di rozzi abituri rusticali e di edifici cinti da grosse mura a foggia
d’altrettanti piccioli castelli, ne’ quali albergavano i ricchi del
contado.
Fermarono i cavalli que’ viatori vicino alla chiesa di quella terra
presso la canonica, che era un convento di Sant’Agostino; ed essendone
uscito un monaco, Palamede lo richiese se vi si trovasse ancora frate
Baldizone Scaccabarozzo. «Voi mi chiedete del nostro abbate (rispose il
monaco): ecco ch’egli a noi sen viene.» Balzò da sella il cavaliere, ed
accorse ad un vegeto e venerando vecchio, che era l’abbate suo zio, il
quale ver lui si avanzava; in atto umile gli prese la mano, e la baciò.
Frate Baldizone riconobbe il nipote; e pieno di gioia per il di lui
ritorno, se lo strinse affettuosamente al seno; e voleva a forza che,
riposti i cavalli, sì lui che i due che lo seguivano pernottassero nel
convento; ma Palamede insistendo di voler giungere a Milano, il frate
l’obbligò a prendere almeno un reficiamento: il che venne accettato,
con gran giubilo dello scudiero, cui dava maggior pensiero la fame
che la memoria dell’abbandonata Maria. Levati i freni ai cavalli, che
si lasciarono nel cortile del monastero a pascer l’erba, vennero gli
ospiti condotti a capo d’un lungo porticato entro una sala prossima
al refettorio, dove in un istante, per ordine dell’abbate, dai frati
serventi fu imbandita una mensa. Mentre Palamede si ristorava coi
cibi, frate Baldizone, sedutoglisi di prospetto, dopo averlo richiesto
de’ suoi viaggi e delle sue venture: «Senti, figliuol mio (gli andava
dicendo), tu ritorni in una città in cui la dimora è assai pericolosa
e per la vita temporale e per l’eterna. Per la temporale, perchè,
come avrai inteso, pel recente cambiamento di principe gli odii e le
vendette hanno ora un libero campo; e quantunque valoroso di braccio,
o potresti essere a tradimento offeso, o dal signore dello stato,
per ingiustizia, fatto prendere e mal versare; dell’eterna corri
pericolo, non già per i molti vizii che infestano quelle mura, per
la licenziosa e corrotta vita de’ signori fra cui tu abiterai, chè di
ciò ti guarderanno i riserbati e saggi tuoi costumi, ma bensì per le
massime perverse che si vanno spargendole che qual veleno sottilissimo
s’insinuano nella mente, corrompono lo spirito, e lo portano
all’eterna perdizione. Queste massime, di cui ti parlo, sono quelle
de’ Ghibellini, sacrileghi disprezzatori degli ordini del pontificato,
contro cui van cercando d’armare tutte le città d’Italia ed anche i
principi lontani. Ti guarda da loro siccome da serpi insidiosissime.»
Palamede, che era in cuor suo Ghibellino, perchè nutrito alla corte
dei Visconti, che, sempre in guerra con Roma, favorivano le parti
ad essa nemiche in Firenze, in Parma, in Bologna, e più nella loro
propria città, rispose con un cenno di capo ai consigli dello zio,
che, essendogli noto qual ardente Guelfo, non osava contraddire. «Tu
non avrai di certo sopra di te (proseguì l’abbate) un salvacondotto
di Giovan Galeazzo; e siccome fosti amico di Bernabò, io ti consiglio
a non entrare in Milano nè da Porta Renza, nè dalla Tosa, nè dalla
Nuova, specialmente avvicinandosi la sera, ma ci entrerai dalla
Pusterla Brera del Guercio[12]; ove, se t’avvenisse contrasto alcuno,
potrai farti giovare dal padre Lanfranco Guinicelli, detto il Guelfo
Bolognese, priore del colà vicino convento di San Marco del nostro
ordine degli Agostiniani. Io ti darò per lui un foglio, ed a quello
potrai aver ricorso in qualsiasi traversia, ch’egli ti gioverà co’ suoi
santi consigli e coll’oro, e troverai entro le mura del suo convento
un inviolabile asilo.» Terminate queste parole, chiamò un frate, e
gli bisbigliò qualche motto all’orecchio: questi tosto si ritrasse;
e Baldizone fece invito a Palamede di salire nella parte superiore
del convento, onde vedere e venerare la camera in cui avea dormito la
notte dei dieci maggio 1251 il papa Innocenzo quarto. Due frati li
precedettero per i schiudere e spalancare alcune massiccie porte; e
il cavaliero seguito dall’abbate entrò in una vecchia camera, assai
meno delle altre ornata, che accusava l’antica povertà del convento
a raffronto della sua allor vigente prosperità. Entro quella camera
stava un letto con grossolane cortine, e pochi altri mobili mezzo rosi
dal tarlo. I frati s’abbassarono ginocchioni, e baciarono le cortine
di quel letto e l’inginocchiatoio che gli stava a fianco, sul quale il
papa aveva fatte le sue serali e mattutine preghiere; e Palamede fu
costretto a far lo stesso. Uscendo da quella camera, l’abbate indicò
a Palamede le mura del vicino spedale da poco tempo da loro stessi
riedificato ed ingrandito. Quando furono a piè delle scale, quel
frate a cui Baldizone avea parlato, gli si presentò con una pergamena
scritta in latino, su cui l’abbate impresse il sigillo nella cera, che
a tal uopo vi stava distesa; e arrotolatala, la consegnò al cavaliero,
dicendogli essere la lettera per frate Lanfranco di San Marco. Il
cavaliero la ripose, porgendogliene vive grazie; ordinò allo scudiero
di allestire i cavalli, abbracciò lo zio; e salito in arcione, uscì,
seguito dagli altri due, dalla porta del convento.
Lasciato Carsenzago, pervennero rapidamente a Gorla, e poco dopo questo
villaggio cominciarono a discernere fra le piante alcuni campanili di
Milano. Già forte batteva a quella vista il cuore a Palamede; e tutto
l’indomabile amor di patria invadendolo, con dolcissimo palpito il
commoveva nell’imo petto: se non che sorse crudelmente ad amareggiare
quella contentezza il pensiero della lontananza di Ginevra, e l’idea
dei tanti ostacoli ed umiliazioni che dovea affrontare onde giungere
a farla sua; nè dall’ondeggiamento doloroso di timori e speranze, che
forte l’assalì, valse a distrarlo l’ampia vista che al cominciar d’una
diritta via a lui si offerse, delle torri, delle cupole, delle mura di
Milano. Immerso in tristi pensieri, là dove avea sperato non risentir
che gioia, rallentò il moto del proprio cavallo; e procedendo verso
la città, deviò sulla destra dalla strada maggiore che entrava per
Porta Renza, dirigendosi per un viottolo al sobborgo di San Marco, onde
entrare nella città dalla pusterla Brera del Guercio, come lo zio gli
aveva detto di fare.
Non era allora Milano compreso entro lo spazioso giro di mura in cui
ai nostri giorni si trova. Quest’ampia e ricca città, regina d’una
fra le più belle parti d’Italia, la Lombardia, in mezzo alle cui
feconde pianure s’innalza maestosa, era antichissimamente villaggio
degli Etruschi; andò d’età in età ampliandosi a cerchii concentrici,
ed ai nostri tempi la vediamo ciascun giorno ripulirsi dalla ruggine
de’ barbari secoli, e gareggiare colle più cospicue d’Europa per
l’eleganza delle sue vie, de’ suoi palagi, de’ templi, de’ teatri, de’
pubblici monumenti. Ammasso di capanne di pastori allorchè l’Insubria
era abitata da’ suoi primi popoli, prese Milano, siccome d’età in età
se ne sparse la storia, il nome e la forma di città, sei secoli circa
avanti l’era nostra, da una colonia di Galli Senoni, che condotti dal
loro capo Belloveso valicarono le Alpi, scacciarono gli Etruschi, e
si fecero abitatori di questa florida terra. Quattrocento anni dopo,
la Romana repubblica, che già potente dispiegava le grandi ali del
suo dominio, essendo consoli Gneo Cornelio Scipione e Marco Marcello,
vinse e s’impossessò di tutto il paese fra il Po e le Alpi, il quale
venne chiamato col nome di Gallia cisalpina. Milano allora divenne
sede d’un presidio romano. Non offrendo questa nè per coltura nè per
scienze, arti o ricchezze, attrattive a quei dominatori del mondo, non
figura nella loro storia che a causa d’un tratto di spirito di Giulio
Cesare, che dona risalto alla semplicità della vita e de’ costumi di
quei cittadini che veniano dai corrotti Romani derisi. Sebbene però
quasi pel corso di cinque secoli fosse tenuta in nessun conto, essendo
in questo tempo la Gallia cisalpina stata compresa nelle provincie
d’Italia, Milano, divenuta città romana, ebbe qualche maggior decoro;
e vuolsi fosse allora per la prima volta cinta di mura, le quali
comprendevano uno spazio assai angusto a fronte del vasto cerchio entro
cui attualmente si stende; e si può dire che la città d’allora non
fosse che il nucleo di ciò che dovea col tempo diventare. Designando i
luoghi coi nomi che presero dopo lunga età, si ha fondamento di credere
che quelle mura passassero nel sito ove ora stanno San Giovanni in
Conca, Sant’Ambrogio alla Palla, San Maurilio, le Meraviglie, la Scala,
l’Agnello, San Fedele, e di là si ricongiungessero con una linea poco
eccentrica.
L’innocenza e la bontà dei costumi degli abitanti, la semplicità del
loro vitto, delle vesti e di ogni abitudine della vita, la rozza e
semplice forma degli edifizii, de’ templi, delle mura durarono in
Milano fino a tanto che i Germani, superate le Alpi, incominciarono
nel terzo secolo dell’era a molestare colle scorrerie l’impero. I
romani imperatori, ond’essere più pronti alla difesa de’ confini che
i Barbari tentavano violare, portarono la loro sede in questa capitale
dell’Insubria, recando seco loro il lusso e la magnificenza, e fecero
di Milano una seconda Roma. Massimiano Erculeo sul finire del terzo
secolo, dopo avere abbellite Cartagine e Nicomedia, venuto in questa
città, si diede ad ornarla con opere grandiose. Fu per ordine di lui
che nuove fortissime mura, erette con grossi massi e munite di distanza
in distanza di quadrate torri, cinsero Milano con un giro assai più
vasto del primo. Nove furono le porte aperte in quelle mura; ed a
ciascuna di esse corrispondeva un quadrivio, cioè uno spazio in cui
concorrevano molte strade, un solo dei quali ritenne fino a’ dì nostri
quel nome sotto il corrotto vocabolo di Carrobbio, che sta ove aprivasi
in allora la Porta Ticinese. Le altre si erano la Porta Erculea, che
trovavasi al terminare dell’ora contrada degli Amedei; la Romana, che
era al cominciare del Corso presso la contrada della Maddalena; la
Tonsa, al finir di San Zeno; l’Argentea, detta Renza od Orientale,
al Leone; la Nuova, presso San Francesco di Paola; la Comasina, a San
Marcellino presso la contrada del Lauro; la Giovia, al terminare di San
Vicenzino; e la Vercellina, detta, come si vuole, di Venere, a Santa
Maria alla Porta. Oltre queste mura, Milano fu in que’ tempi decorata
d’un circo, d’un teatro, di varii palazzi imperiali, di molti tempii,
fra i quali magnifico era quello di Ercole fuori della Porta Ticinese,
la cui grandezza ci è ancora attestata da un avanzo delle colonne del
peristilio, che stanno presso San Lorenzo. Ebbe monumenti ed archi di
trionfo, il più celebrato de’ quali fu l’Arco Romano, che era una gran
torre quadrata sostenuta da quattro immani pilastri, ornata di trofei,
e formante una gran porta trionfale che esisteva ove ora trovasi il
Ponte di Porta Romana.
Durante tutto il quarto secolo Milano gareggiò con Roma, e la vinse in
fasto ed in potenza; ma al finire di quello s’ecclissò la gloria della
nostra città, per non risorgere che dopo una lunga serie di anni. I
destini del mondo stavano per cangiarsi. Torrenti di Barbari piombati
sul colosso dell’impero di Roma lo crollarono affatto, e immersero
l’Europa nelle guerre, nelle superstizioni, nell’ignoranza profonda.
Sola, in tanto naufragio, una nuova religione, la cristiana, prosperava
ed ergeva vittoriosa l’emblema di un divino sagrificio sugli altari
dell’abborrito politeismo. Milano accolse la nuova dottrina allorchè
essa era ancora in fiore; e l’importanza delle sue ecclesiastiche
dignità fu pari a quella delle politiche. Ai vescovi metropolitani di
Milano furono suggette tutte le città da Coira a Genova, da Brescia
a Torino. Questo potere dei vescovi milanesi salvò in varie epoche la
città dallo sterminio totale, e le ridonò un grado di splendore fra le
città italiane.
Il primo colpo funesto fu recato a Milano da Attila, che, guidando
gli Uni nel 452, assediò, vinse e pose la città a ferro e fuoco; mal
ristorata ancora da questa offesa, nel 539 fu da Uraia, condottiero de’
Goti, riconquistata; e così acerbamente, come a lui dettava l’amore
della vendetta, trattata, che più non apparve che quale ammasso
desolato di ruine. Quasi tutti i monumenti della passata grandezza
perirono sotto il gotico ferro, e appena ne rimasero i nomi.
I Longobardi, fattisi sovrani dell’alta Italia, cui diedero il loro
nome, si rifiutarono di soggiornare in una città per gran parte
distrutta; e scelta per loro sede reale Pavia, Milano venne posta
nel numero delle minori città. Cinque secoli bastarono appena per
ricomporre sugli atterrati avanzi di Milano, capitale dell’Insubria e
residenza dei romani imperatori, una città longobardica, senz’ordine
nella distribuzione, e con forma o gotica o affatto barbara negli
edifizii, con poche chiese del gusto di que’ tempi, sparsi qua e là di
spazii non riedificati, che divennero campi coltivati, detti Broli,
Brere e Pasquari. I soli vescovi, che presero titolo d’arcivescovi,
tenendo una corte cardinalizia, mantenendo con pompa la loro dignità,
che dura stabile fra il continuo cangiare del politico dominio,
divennero poco a poco quasi principi; e il popolo più a loro obbediva,
che ai duchi e ai conti che qui sedevano governatori pei Longobardi e
pei Franchi. Agli arcivescovi si deggiono molti ristauri ed erezioni
di edifizii; specialmente ad Ansperto di Biassonno cui va ascritto
l’ingrandimento della città dal lato di Porta Vercellina.
Guerre intestine ed esterne per frivole cause, ribellioni,
sottomissioni, furono i fatti dei Milanesi sino verso il mille; nella
qual epoca, sottrattisi al dominio degli Imperatori di Germania, si
eressero in repubblica, che durò sino al 1162, nel qual anno furono
vinti da Federico Primo Barbarossa, che presa la città la fece per la
terza volta distruggere, non in modo però, come fu scritto, che tutte
le chiese e gli edifizii venissero pareggiati al suolo, poichè varii
fabbriccati costruiti anteriormente a quel tempo sussistono ancora
a’ nostri giorni. Dopo replicate battaglie, stabilitasi la pace, i
Milanesi rientrarono nella loro città; e la ricostrussero, tenendola
dentro il giro di fortificazioni che aveano fatto contro Federigo, le
quali consistevano in una gran fossa ed un terrapieno, detto allora
Terraggio, che cingeva la città nella linea stessa su cui corre
attualmente il Naviglio; e così stette sinchè nel 1330 Azzone Visconti,
signore di Milano, fece dare a quel terrapieno la forma di mura, e
fece costruire massicce porte munite di ponti levatoi, di stanze per
le guardie, e di sarasinesche che pesantemente le chiudevano. Varie di
quelle porte furono atterrate a’ dì nostri per abbellire la città, ma
alcune ne esistono ancora presso i ponti del Naviglio.
Dentro questo giro di mura stava Milano quando Palamede collo Scudiero
e l’Aríolo, dopo aver fiancheggiato il baluardo che divideva dalla
città il convento e la chiesa di San Marco, arrivarono alla pusterla
detta Brera del Guercio. Sebbene i cavalli, passando sul ponte
levatoio, ne facessero rimbombare del suono delle ferrate spranghe la
volta della porta, il portinaio, o si trovasse lontano, o negligentasse
d’uscire per assicurarsi se erano cittadini o stranieri, loro non si
presentò, ed essi procedettero innanzi.
Già la sera s’avanzava, e appena gli ultimi raggi del crepuscolo
vedeansi leggiermente rischiarare i tetti delle alte case e le sommità
dei bruni campanili e delle chiese: pochi passi dentro la pusterla, a
sinistra folte piante, avanzo dell’antica Brera, cingevano il piccolo
convento degli Umiliati, che stava ove ora s’innalza il palazzo delle
scienze ed arti; più avanti si apriva la contrada, che s’internava
ristretta fra alte case, le cui sporgenti tettoie ne aumentavano
l’oscurità, ed offriva in quell’ora più l’aspetto di un sotterraneo
che d’una via cittadinesca. In quella strada, preceduti dall’aríolo,
posero i cavalli Palamede e lo scudiero, rallentandone il passo, perchè
essa era, come tutte le altre di Milano, piena di inciampi e di buche,
e nella notte pericolosissima. Non iscorgevasi luce alcuna, fuorchè
quella di qualche rado lume che vedevasi trasparire qua e là dalle
vetriate delle finestre di alcune elevate case; poche persone, di cui
non si scorgeva che in nero la forma, vedevansi entrare ora in una,
ora in altra delle porte che erano per la maggior parte già chiuse.
Al terminare della contrada di Brera la strada s’allargava innanzi
ad un monastero che era detto la Casa delle Umiliate di Blasonno;
poscia restringevasi tosto alla chiesa di San Silvestro e continuava
così ristretta sino a Santa Maria della Scala, che Palamede stupì di
scorgere innalzata, non essendosene, quand’egli partì, che poste le
fondamenta per ordine di Regina della Scala moglie di Bernabò.
Passata la Scala, entrarono in un viottolo che passava per mezzo
alle ampie ruine delle case dei Torriani, che da settant’anni e più
stavano ammucchiate là dove surse e si trova tuttora San Giovanni
alle Case Rotte: proseguendo il cammino lungo il muro della chiesa
di San Fedele vennero nella contrada di San Raffaello, una delle sei
chiese che contornavano il tempio di Santa Maria Maggiore Iemale,
la quale occupava una parte dello spazio su cui un anno dopo dovea
innalzarsi il grandioso Duomo; e lasciata alla sinistra questa chiesa,
ed alla destra Santa Tecla che le stava di fronte, giunsero al palagio
del marchese Azzo Liprando. Serrata ne era cautamente la porta, cui
ricopriva una lastra di ferro cesellata; e l’aríolo coll’impugnatura
dello stocco battendovi ripetutamente, per ordine di Palamede, ne
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