Il castello di Trezzo: Novella storica - 06

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guisa una vile soggezione ad uomini che sino dalla infanzia trattarono
le armi, e combatterono tante battaglie. Io non presto fede alcuna
a’ rumori che si spandono; penso solo che grandi signori d’Italia e
stranieri ebbero le mie figliuole e le loro ricche doti, che molti
principi vanno a me legati di sangue, ed in Milano istessa lasciai
de’ miei figli, e assai cavalieri che io ho creati nobili e doviziosi.
Antonio della Scala, nipote della mia Regina, ed or signore a Verona,
odia mortalmente Giovan Galeazzo; i Bresciani sono per me, e il ponte
di Cassano non è difeso. Qual meraviglia che mille de’ suoi cavalieri
fossero poco lungi da queste mura? Io m’ho perduto i miei castelli,
i miei boschi, i miei palazzi: uso a vincere i miei nemici, guidando
tanti soldati e prodi guerrieri, venni a tradimento, e da un ipocrita
malvagio serrato in questo forte, e forse già pensa chiudermi nelle sue
torri di Pavia a far la tormentosa quaresima. Perchè dunque tremerò nel
tentar di sottrarmivi? temerò l’esporre questo capo e questo petto,
invecchiati sotto il ferro, alle spade de’ militi di Galeazzo? È men
dolorosa una lancia nel cuore, che questo maladetto carcere, e questi
volti abborriti che comandano a chi non fu mai suggetto che a Dio.»
Placato l’animo con questo sfogo del suo sdegno, si rivolse a frate
Leonardo, che lo guardava con occhio pietoso, addolorato che sì profani
pensieri fossero rientrati nel cuore di lui, dopo che avea protestato
nella chiesa a’ suoi piedi di non nutrire altra speranza che quella
del celeste perdono; ed a lui disse: «Molti gravi peccati, o Eremita,
stanno sull’anima mia, ed io dovrei benedire la mano che mi percuote;
ma pure penso che il Nostro Salvatore avrà misericordia di me: perchè
se ho comandato punizioni di tormenti e di morte, fu il più delle volte
per vendicare il sangue de’ poveri e deboli suggetti, da prepotenti
signori con assassinii versato, e non ho sprezzato la giustizia quando
lo spirito maligno non acciecavami la mente con violente passioni. Ho
soccorso i carcerati della Mala Stalla, ordinando lor si recasse il
pane giornaliero; ho arricchite le chiese ed ordinati molti divini
uffizii. Concederà ella dunque la Vergine che io stia nelle mani
abbominevoli di chi l’ha codardamente sprezzata?» Troncò il parlare
di Bernabò, e in grave agitazione pose tutti gli animi l’annunzio
della venuta colà di Gasparo Visconti; il quale, come soleva ogni
giorno, recavasi a visitare il prigioniero, ed in modi cortesi, sebbene
poco accetti, esibissi a soddisfarlo in qualunque cosa gli piacesse,
soggiungendo così avergli imposto Giovan Galeazzo. Dai prigionieri,
nè dal Visconti, nulla si accennò intorno alle notizie che si erano
sparse; se non che si serbò un contegno grave più dell’usato per la
speranza di vendetta nell’animo degli uni, e per sospetto di esterne
intelligenze nel cuore dell’altro. Bernabò, invelenita l’anima dalla
presenza di quel capitano d’armi, in cui balía si ritrovava, tosto si
ritrasse alle proprie stanze, seguito da Donnina e dall’eremita.
In questo frattempo le idee ed i sentimenti che si succedevano nella
mente di Ginevra erano affatto opposti a quelli che colà si svolgeano.
L’influenza delle avversità, della rozzezza dei tempi che teneva
desto il sentimento del maraviglioso e più viva la concentrazione e
l’entusiasmo delle passioni, congiunta ad una squisita sensibilità ed
una viva tenerezza di affetto, aveano composto l’anima di Ginevra ad
un sentimento sublime d’amore, il quale dispiegossi in lei altamente
alloraquando conobbe il giovinetto Palamede de’ Bianchi, la cui
leggiadria e prodezza lo rendeano stimato fra i più compiti cavalieri
che vestissero armatura. Questi due amanti dovevano tosto andar
congiunti coi nodi nuziali, siccome avea promesso lo stesso Bernabò
allorchè li ebbe fidanzati, attendendo il ritorno di Palamede quando
si fosse procacciata fama e scienza nell’armi, esercitandosi fra i
guerreggianti a capitanare soldati. Ma avvenuto il disastroso mutamento
di fortuna per questo principe, mentre il cavaliere era lontano,
Donnina non volle abbandonare la figlia in potere di Giovan Galeazzo,
dal quale potea ricevere onte e maltrattamenti: amò meglio, come le
venne conceduto, di tenerla presso di sè, conducendola nel castello di
Trezzo, ove venne con Bernabò rinchiusa.
Immensa si fu e inesprimibile la desolazione che angosciò il cuore
di quella innamorata fanciulla, cui la lontananza del cavaliero, il
proprio rinchiudimento in un castello gelosamente difeso da tanti
armati, l’odio che ella credette nutrir dovesse il conte di Virtù
contro il cavaliero stesso, facevanla disperare non solo di possederlo
giammai, ma nè pure di vederlo ancora una sola volta. Quanto straziante
era stato quel dolore, altrettanto si fu viva la speranza che le destò
l’aríolo, il quale detto le avea di condurle innanzi l’amante, per il
che gli si fe’ ardente sopra ogni dire il trasporto di rivederlo. Ed
appena ebbe posato su di lui lo sguardo, benchè per un istante, più
non tremò per la sua vita, chè fra i combattimenti poteva esserle ad
ogni momento rapita: sapea che egli le era vicino, e a questo solo
pensiero, come se la luce divenuta più viva e il cielo reso più sereno
avessero dissipate spaventose tenebre, tutto si era fatto ridente a lei
dintorno.
Ella teneva fra le mani quel nastro e quel foglio scritto col sangue
di Palamede, che le aveva recato l’aríolo; ed ora il premea sul cuore,
or sulle labbra, e nella piena della sua gioia si prostrava innanzi
ad una imagine della Vergine, che stava nella sua camera dipinta,
e la ringraziava con un sentimento il più vivo di riconoscenza, da
lei ripetendo l’adempimento di quel suo ardentissimo voto. Invocava
poi ch’ella le rischiarasse la mente, quando letto lo scritto di
Palamede, dopo averne a prima giunta assecondata colla imaginazione la
richiesta, nacquele vivo contrasto e tema di darvi esecuzione; poichè,
sebbene s’applaudisse dell’amore che per lui sentiva, essendogli stata
solennemente fidanzata, nè per la innocenza de’ suoi pensieri, e la
riservatezza divota che negli atti e nelle parole avea sempre seco
lei usato Palamede, ombra di colpa ravvisasse in un colloquio da sola
con lui, pure l’idea di sottrarsi nascostamente a Geltrude, e venir di
notte per anditi sconosciuti nella cappella dei morti onde parlargli,
le infondeva nell’animo un palpito che aumentava la sua naturale
timidità.
Nella tenzone de’ suoi affetti, dopo aver ricorso alla Vergine, ella
rivolgeva il pensiero all’aríolo, confidando nella di lui sapienza per
avere una retta guida in questa circostanza da lui stesso preparata;
quando appunto lo vide entrare cautamente nella propria stanza, ove
approfittando della di lei sorpresa, assunto un far grave, e voce
repressa e interrotta, le disse che il suo amante sarebbe stato
inevitabilmente dalle guardie del castello condotto a mal fine.
Atterrita Ginevra gli dimandò in qual modo si fosse scoperta la venuta
del cavaliero sotto il di lei verone, e se corresse pericolo che egli
venisse sorpreso. «I demonii (riprese l’aríolo) sono entrati in corpo
degli uomini d’arme e del loro capitano: questi fan loro immaginare di
vedere fuoco, spiriti, nemici intorno alle mura, e pare che l’inferno
s’abbia a scatenare per venir costà. Duplicarono le sentinelle sugli
spaldi e presso le porte, e dall’alto delle torri, due soldati posti
in vedetta debbono render conto per sino delle cornacchie e degli
sparvieri che vedranno levarsi a volo da tutti i boschi dintorno.
Temono che i Milanesi vengano a prendersi Bernabò. Guai se un guerriero
si accostasse un tiro d’arco o di pietra a questi baluardi! avesse
egli l’acciaio della armatura incantato con cento spergiuri e segni
diabolici, verrebbe d’un subito traforato e schiacciato come debile
insetto. — O santa Vergine (esclamò Ginevra cui tutta invase un
terrore profondo), chi salverà Palamede? Chi lo terrà lontano da questa
castello in cui esso tenterà forse questa stessa notte di penetrare?
Deh per pietà, corri, vola, trovalo: fa colle tue arti che egli non
s’accosti a queste mura; digli che si allontani rapidamente, che l’ira
del conte di Virtù contra di noi si calmerà; digli infine che io invoco
con tutto il fervore ogni giorno dal cielo la nostra unione, ed ho
ferma speranza che i nostri voti saranno esauditi.»
Stupì grandemente l’aríolo a queste parole: «E come sapete voi (le
disse con passione) che Palamede tenterà questa notte di qui penetrare,
ed in qual guisa porlo ad effetto? — In qual modo, l’ignoro (soggiunse
Ginevra); ma che egli debba trovarsi nella vicina notte in questo
castello, lo ha scritto egli stesso in questo foglio, che tu mi hai
recato.» Prese tosto l’aríolo quel foglio, e rapidamente leggendolo,
non poca si fu la sua maraviglia nel ritrovare ivi descritti
esattamente gli anditi e le camere che conducevano dalle stanze di
Ginevra alla chiesa e nella cappella dei morti. Non sì tosto ebbe
letto quel foglio, che bene scoprì la causa per cui il cavaliero si era
ritirato nel bosco coi ladri, e non esitò a credere che uno di costoro
gli doveva servire di guida in sì fatta impresa. Ignorando però egli
affatto che esistesse un sotterraneo il quale dall’Adda conducesse
alla cappella, altri non conoscendone che quello antico per la torre
nera di Barbarossa, mal sapeva concepire in qual maniera il cavaliero
sarebbe colà pervenuto. Meditando però fra sè, e richiamandosi alcuni
racconti per lui intesi di rumori uditisi per quelle parti, non che
di gente scomparsa da luoghi ignoti, nacquegli sospetto che ivi pur
anco esistesse sotterranea via per la quale di certo avea Palamede
divisato di penetrare in castello. Se le voci sparsesi quella mattina
e la raddoppiata vigilanza nelle guardie non lo avessero intimorito di
qualche danno, egli non avrebbe esitato a secondare questo tentativo
premeditato dal cavaliere, che potea ridonar pace a quella fanciulla,
per la quale un po’ di vanità e una segreta simpatía che le avea
ispirato in veggendola, lo aveano mosso a vivamente interessarsi. Ma
riflettendo alla gelosia con cui era il castello difeso, pensò essere
più vantaggioso per lui e per quelli amanti il dissuaderli da tale
disegno; e quindi rivolto a Ginevra: «Signora (le disse), se le mie
arti bastassero ad addormentare tutti questi soldati, o a renderli
di sasso per una notte intera, mi adoprerei con tutto l’impegno per
farlo, affinchè voi possiate liberamente trattenervi con Palamede; ma
ciò è a me impossibile, ed a lui pericoloso, mentre nessun vivente
potrebbe approssimarsi impunito a queste mura. Ubbidirò quindi a’
vostri cenni, ed andrò ad avvertirlo, perchè rapidamente si allontani
da questi luoghi. — Prendi (rispose Ginevra staccandosi il fermaglio
d’oro a forma di croce greca, contornato di perle e gemme, col quale
rannodavasi al petto un nastro trapunto d’argento, che servendogli di
cintura ricadea colle estremità lungo la veste; e raggruppatosi intorno
il nastro, consegnò il fermaglio ad Enzel): Prendi (proseguì) questa
croce che mi donò mia zia Matilde, quando io era fanciulletta, nel suo
convento di Sant’Agnese, e che sempre ho portata sovra di me perchè
possiede una mirabile virtù: consegnala a Palamede, e digli che quando
vedrà queste perle annerirsi, ed impallidire i diamanti, s’abbia per
certo ch’io mi muoio. Preghi egli allora il Signore onde mi raccolga
in pace là dove io lo starò attendendo; ma lo assecura che sin che
dureranno candidissime le perle, e lucenti i diamanti, serberassi del
pari intatto nel mio animo l’amore ardentissimo che per lui nutro, e la
brama irresistibile di esser sua per sempre.»
Tosto che la fanciulla ebbe pronunciate queste parole, ed Enzel,
riposto per entro i panni quel prezioso fermaglio, si disponeva a
partire, udissi un veloce mutar di pedate di persona che si appressava
a quella stanza. Presi ambedue da instantaneo timore, mal sapendo chi
si fosse, si racquetarono in veggendo Gabriella, la quale entrando
precipitosa colà si volse all’aríolo e: «Presto (tutta ansante gridò)
spiega, metti in campo tutte le tue arti, i tuoi poteri; chiama gli
spirti, le nubi che ti portino lontano mille miglia, perchè se non
voli come un falco, o non ti profondi come una vipera sotto terra,
non ti rimangono tre minuti di vita.» Il viso dell’aríolo a queste
parole divenne cinericcio pel pallore, ed i suoi occhi, fattisi
protuberanti, girarono spaventati intorno, e con voce tremante disse:
«Perchè mai una tal cosa? Che è egli avvenuto? — E tu, che tutto sai,
lo ignori? (riprese con maraviglia Gabriella). Non sai tu dunque che
Tignacca, caporale di lancia, il quale conduceva la scolta alla guardia
del ponte, ha detto di averti veduto entrare nella torre nera di
Barbarossa, ed uscirne al momento dell’apparizione dei demonii, intorno
alle mura, e che dopo attraversato il parco sei entrato nel gran
cortile del castello? e non sai che per questo ed altre voci che si
sparsero delle tue arti, i soldati credono che tu con sortilegi e magia
evocasti in questo luogo gli spiriti infernali per liberare Bernabò;
e per tal motivo frugano per tutti i nascondigli del castello onde
ritrovarti, ed hanno già preparata un’ampia catasta di vecchie legna
nel parco per gettarti ad arrostire, onde vedere tutti i diavoli uscire
dalla tua bocca. E buon per te che fosti in queste camere, mentre non
vennero qui pel rispetto che fu loro imposto per queste fanciulle; ma
da un istante all’altro alcuno de’ più arditi potrebbe salire quassù,
perchè ti stanno sulla traccia con tutta la foga. E tu ignoravi questo
imminente pericolo? Vola, ti dico, celati rapidamente, chè non hai un
momento da perdere.»
Il coraggio, che l’aríolo aveva affatto perduto quando intese che il
parco era guardato dai soldati, riuscendogli in tal modo impossibile
lo uscire pel sotterraneo della torre, ritornò in lui colla usata
freddezza di spirito e ardimento ne’ perigli, quando il suo sguardo
cadde sulla lettera di Palamede che stava sopra una tavola innanzi a
Ginevra: il suo volto si ricompose, cessò il tremito delle sue membra,
si allacciò più strettamente una cintura di pelle intorno alla persona;
e mentre fuori si udiva Geltrude in alterco con uomini di voce aspra e
minacciosa, ed il gridar con ispavento di Damigella, Enzel promise a
Ginevra, la quale era quasi dal terrore tramortita, che si sarebbero
riveduti; assicuratosi in fronte il cappello, spalancò le imposte di
una finestra che da quella camera mirava in un corridoio, e attaccatosi
colla destra alla colonnetta che dividevala in due archi acuti,
spiccato un salto, l’attraversò allontanandosi a rapidi e leggieri
passi.
Mentre tali cose avvenivano nel castello di Trezzo, nell’asilo de’
ladri dentro al bosco componevasi un nero tradimento, che doveva
costar la vita a Palamede. Aldobrado, a cui il mal esito del progetto
di penetrar nel castello aveagli tolta ogni speranza di compire uno
scellerato disegno contro il cavaliere, che s’avea nutrito sino dal
primo istante che a lui suggerì quell’impresa, meditò in suo segreto
un altro mezzo onde riuscire egualmente a quello scopo. Abituato ai
delitti ed alle uccisioni che commetteva impunemente qual sicario
di Bernabò, la rea anima di costui determinavasi ad un assassinio,
benchè minimo fosse l’interesse che gliene poteva scaturire. Profugo
da Milano, ove avrebbe pagato il fio di tanti misfatti, travisatosi
in abito fratesco, egli s’era proposto di vagare in cerca di qualche
forte truppa di banditi, per farsi con loro ad assalire e depredare
villaggi e baronie. L’oro e gli osceni piaceri ch’egli si gustava anche
con mani fumanti di sangue, costituivano i soli diletti di Aldobrado,
il quale in pochi anni era stato carnefice, spia di guerra, soldato
e cortigiano quando scontrò Palamede nell’isola di Mandellone, e
rilevò come questi avesse con sè molti fiorini d’oro, gli vide una
ricca armatura, ed intese che ad ogni costo volea favellare alla
bella prigioniera del forte di Trezzo, egli pensò tosto alla strada
sotterranea che conduceva alla cappella dei morti nella chiesa del
castello, e suggerigli i mezzi di penetrarvi, non già per favorire ai
desiderii del cavaliere, ma perchè in quella via tenebrosa e segreta,
piena di rivolte e di perigli, e nota esattamente a lui solo, poteva
agevolmente impossessarsi e dell’amante e dell’oro di Palamede, che
con un colpo del proprio stilo trafiggeva, e quivi lasciava celato. A
questo fine, trovandosi da solo nella tana del cervo col Brescianino,
mentre Palamede passeggiava pel bosco, e il Tencio e il Carbonaio erano
usciti, aveva tentato di guadagnarlo a sè, e facilmente ne venne a capo
colla promessa di molto oro, e di condurlo seco in lontani paesi. A
questi però non isvolse la trama che avea disposto; gli impose soltanto
che entrando nel sotterraneo del castello non gli si scostasse giammai
dal fianco, e stesse pronto ad eseguire alla cieca e arditamente ciò
che gli avrebbe ordinato, badando principalmente che se gli avesse
affidato una donna, le impedisse, per qualunque causa si fosse,
emissioni di grida, turandole, se occorreva, la bocca co’ proprii lini.
Ito a vuoto un tale disegno per causa che il Tencio non potè far
pervenire nel castello il foglio di Palamede, e questi stabilì
irremovibilmente di partire da quel bosco al mattino seguente,
Aldobrado, cui sempre ardeva il desiderio dell’oro del cavaliero, non
depose il pensiero di rapirglielo. Quando sul far della sera Palamede
uscì dalla fontana sotto terra, onde passar la notte nel tempio, pensò
di lasciarlo addormentare, e silenziosamente sbucare dal sotterraneo,
e ovunque si trovasse, assalirlo e spogliarlo. Infatti lasciò si
avanzasse la notte, e già stava per eseguire tale progetto, allorchè
intese nel tempio un lieve rumore di pedate: stette cheto credendo si
fosse Palamede risvegliato; ma all’incontro era Enzel, sconosciuto al
cavaliere, il quale colà era venuto per condurlo sotto il verone di
Ginevra. Udì quel traditore l’uscir che fece il cavaliere dal tempio,
ma pensò fosse causa l’interna agitazione che nol lasciava riposare,
e non disperò che sarebbesi racquetato. Infatti dopo molto tempo, non
ascoltando più moto alcuno, uscì chetissimamente dalla tana, ma non lo
scorgendo nel tempio, venne all’incerto lume di luna nel bosco, e qual
fu la sua meraviglia in vederlo avanzarsi fra le piante colla fiaccola
nella destra! Palamede appena lo vide, ebbro di gioia pel canto e per
la vista dell’amata fanciulla, tutto a lui narrò, dello sconosciuto
che lo aveva destato e condotto al castello, e del cantar di Ginevra, e
del foglio a lei mandato, e di ciò che lo sconosciuto gli aveva detto,
cioè di non partirsi di colà sino a che non lo avesse riveduto. Questo
intervento di uno sconosciuto andò per nulla a sangue ad Aldobrado, che
temeva potesse attraversare i suoi perfidi disegni. Quindi fingendosi
lietissimo di questa avventura, rallegrossene con Palamede; ma in
suo cuore pensò di ucciderlo al primo momento che all’uopo gli si
presentasse. Intanto i ladri, udendo rumore, osservarono dagli spiatoi;
e non vedendo che i loro ospiti, uscirono tosto dalla fontana. Palamede
allora disse che avrebbe quel giorno sicuramente dimorato ancora con
essi; e per ciò quando spuntò il mattino, il Tencio e il Carbonaio
se ne partirono per recarsi ne’ vicini contadi a procurarsi le
provvigioni. Aldobrado e Palamede si trattennero lunga pezza ragionando
con maraviglia del chi potesse essere quella ignota persona comparsa
con tanto mistero in quel luogo, e come mai fosse consapevole de’ di
lui amori con Ginevra, e in qual modo tenesse seco lei relazione,
serrata siccom’era in un castello sì custodito. Dopo avere a lungo
favellato, Aldobrado domandò a Palamede se il corsaletto d’acciaio
che vestiva non gli dasse noia pel caldo ardente che il sole già alto
spandeva intorno. Il cavaliere rispose che sì; e disse di volersene
spogliare, poichè sembravagli inutile tale arnese in sito tanto remoto.
Aldobrado, a tale risposta, si offerse tosto a sfibbiargli le piastre
delle reni; ma Palamede, che era uso addossarlo e levarlo sempre da
sè, non glielo permise; e solo il pregò gli slacciasse dagli spallacci
i bracciali: per cui dovendogli Aldobrado rimanere sempre da lato,
gli fu impossible eseguire il suo reo disegno; oltre che il cavaliere
proseguiva a ragionare cogli occhi ver lui rivolti: il che non sarebbe
avvenuto standogli alle reni, dove appena slacciato il corsaletto
poteva inosservato, siccom’era suo pensiere, trarre il pugnale e
infiggerglielo nella nuca o nella schiena.
Più cupida e più ostinata fece in quel traditore la smania di togliere
al cavaliere la vita e la fallita speranza del colpo in quel momento,
e il vedere fra i lini sul petto di lui una collana di smeraldi
e crisoliti, a cui certamente stava unita qualche santa reliquia,
e la cintura di pelle che correvagli intorno a’ fianchi, ch’ei si
pensò, come era difatti, carca di molt’oro. Aggravasi quindi a lui
dintorno intento, inquieto, spiandone i movimenti come un lupo alla
preda; ma siccome Palamede si era ricinta la spada, non si azzardava
di scagliarsegli addosso, persuaso che se il colpo mancava, egli
era morto. Ma in quel mentre tutto allegrossi lo scellerato avendo
udito dal cavaliere ch’egli bramava colà riposare all’ombra di quelle
piante, poichè sentivasi assalito da un sonno prepotente; ed infatti
ricolto il corsaletto, se lo acconciò per guanciale, e adagiossi.
Affinchè nella perfetta solitudine più celeremente e con più agio
egli si addormentasse, pensò Aldobrado di ritrarsi, ed attendere col
Brescianino, il quale stava entro il sotterraneo disponendo qualche
refezione, e di cui avrebbe abbisognato allo svegliarsi del cavaliere.
Disceso nella fontana, si assise sul masso a piè del quale era
sepolto Guandaleone; e fissando in volto il Brescianino, che stava
arrotando sull’orlo della vasca della fontana il suo stocco, volse
nel pensiero il dubbio se avesse o no ad associarlo nel fatto che
era per commettere: e si risolvette di farlo, perchè questi poteva
accorgersene, mentre egli lo eseguiva, e sturbarnelo; e perchè di tal
guisa avrebbe avuto un compagno di cui giovarsi in avvenire, e che era
in sua balía il togliersi d’intorno quando il volesse. Appena concepito
tale divisamento, si alzò, prese al ladro una mano, e stringendola
gli disse: «Brescianino, la tua sorte è fatta: tu puoi essere ricco
quanto un castellano, e non temer più nè sgherri nè ruota. E ciò con
far null’altro che trapassare con quello stocco la gola ad un uomo
che dorme. — E chi sarà costui? (rispose sorpreso da tale proposta il
Brescianino) — È quel cavaliere (proseguì Aldobrado) che venne con
noi dall’isola di Mandellone; egli è stato questa notte al Castello
di Trezzo, ed attende qui alcune persone, sicuramente per tradirci e
farci prendere ed appiccare. Egli ha sopra di sè molti danari; ed è il
più bel colpo che tu possa fare, e di cui ti avanza tutta la vita onde
pentirtene, racquistandoti il cielo. Andiamcene, egli è addormentato
sul limitare del bosco fuori di questa tana: non incontreremo alcun
pericolo nell’assalirlo.»
Detto questo, Aldobrado colla mano sull’impugnatura dello stilo,
il Brescianino brandendo lo stocco, salirono queti queti i gradini
della scala del sotterraneo: venuti nel tempio, Aldobrado si
affacciò cautamente alla porta, e vide Palamede che giaceva sotto le
piante immerso in profondo sonno; lo additò al Brescianino: quindi
assicuratosi, porgendo orecchio, che realmente il suo sonno era greve,
s’avanzarono verso di lui a passi lenti e dubbiosi, soffermandosi ad
ogn’istante: sino a che giuntigli sopra, Aldobrado, tratto il pugnale,
glielo appuntò al cuore, e il Brescianino lo stocco alla gola, quando
una voce improvvisa e stridente dal bosco gridò: «Svégliati, svégliati,
Palamede!»
Indietreggiarono un passo a tal voce improvvisa; e Palamede,
sull’istante risvegliato, mirando intorno a sè que’ due colle armi,
balzò d’un salto in piedi ponendo mano alla spada. Il Brescianino, che
gli era più da presso, e che teneva lo stocco ancora a lui rivolto,
pensando, se tardava a fuggire o difendersi, essere perduto, gli si
slanciò alla vita, vibrandogli la punta al petto; ma nol colpì che nel
braccio sinistro, con cui sosteneva la guaina della spada; colla quale
tosto cacciatoglisi contro ne ribattè due colpi, ed al terzo gliela
conficcò nel petto trabalzandolo a terra insanguinato. Aldobrado,
al rapido rialzarsi di Palamede, si era velocemente ritratto dietro
un albero, onde la persona che avea gridato nol sorprendesse; ma non
iscorgendo alcuno, e vedendo il Brescianino alle prese col cavaliero,
slanciossi egli pure contro di esso per ferirlo da un fianco; e se un
momento di più durava la zuffa col ladro, Palamede veniva trafitto;
ma invece ei menò tosto un fendente ad Aldobrado, gridandogli: «Vile
assassino, pagherai colla vita il tradimento.» Ma Aldobrado si schermì
d’un salto; e gettatosi nel bosco, sparve fuggendo a tutto corso.
Palamede non l’inseguì; ma si arrestò trasognato per quell’inatteso
avvenimento, e mirava al suo braccio ferito che grondava, e al ladro
che boccheggiava spirando steso al suolo, immerso nel proprio sangue.
Risuonavagli tuttora all’orecchio quella voce che desto lo aveva,
e voce parevagli non ignota; mal però valeva a concepire quale di
tutto ciò fosse stata la causa. Ad un tratto, uscendo dal bosco, si
appresentò a lui un uomo che tosto dal volto e dai panni riconobbe
per quello stesso che gli era apparso nella notte; e si accorse che
la voce che avea gridato era appunto quella di costui. Era infatti
Enzel l’aríolo, il quale sfuggito dal castello pel sotterraneo della
cappella de’ morti alla ricerca dei soldati, si era cacciato nel
bosco per venire in traccia di lui, siccome avea promesso a Ginevra;
ed era giunto a veduta di Palamede, nel momento che questi stava per
cader vittima degli scellerati. Siccome non teneva armi di sorta,
osato non aveva di uscire all’aperto per difenderlo, per non essere
anch’egli ucciso se il cavaliere succombeva. Palamede, a lui rivolto,
disse: «Chiunque tu sii, che certo mi sembri inviato da un mio santo
protettore, io a te debbo la vita: dimmi quindi se ho a venerarti come
un amico dei celesti, o premiarti con oro, o cosa io debba fare perte;
ma spiegami, te ne scongiuro, come tu mai avesti di me conoscenza e di
Ginevra, e per qual motivo volevano costui, che ho ucciso, ed Aldobrado
togliermi la vita, e in qual modo tu mi hai salvato.»
«Cavaliero (rispose l’aríolo), ora non è tempo da dirvi tutte queste
cose; pensate a riparare la ferita del vostro braccio, ed a partire
tosto da questi malaugurati luoghi, ricovero di assassini; ritornate
all’isola di Mandellone, riprendete il vostro cavallo, ed avviatevi
alla volta di Milano, ove io verrò seco voi, e vi narrerò cose che
vi riusciranno di sommo aggradimento.» E in così dire, accostatosi a
Palamede, gli fasciò il braccio con una benda che tolse d’addosso al
Brescianino che era già affatto morto; si armò collo stocco di questo;
e addossatosi il corsaletto d’acciaio che Palamede a causa della ferita
non potea rivestire, si pose frettolosamente sul sentiero che guidava
alla strada di Concesa.


CAPITOLO VI.
Indi partimmo, e senza più riposo
Lambro passammo per trovar Milano;
Nè non ne fue per lo cammino ascoso
Veder Cassano, Monza e Marignano.
. . . . . . . . . . . . . .
Dimmi, diss’io, per cui si apre e serra
Questa città che vive sì felice
Con fede, con giustizia e senza guerra.
FAZIO, _Dittamondo_.

«Chi non cangerebbe il convito del più fastoso principe d’Italia con
questo insipido pezzo di lepre, per avere il piacere, mangiando, di
fissare lo sguardo ne’ due occhi più belli che il signore abbia infissi
sotto la candida fronte d’una sua creatura?» Così, divorandosi il
fianco d’un leprotto abbrustolito sulle bragie, favellava lo scudiero
di Palamede alla bella figlia di Mandellone, che stava ritta innanzi
alla pietra che a lui serviva di desco. Egli aveva astutamente voluto
farsi disporre il pranzo sul margine dell’isola, all’ombra d’un gruppo
di piante, ond’essere discosto dall’ostiere, che, occupato in altre
faccende, era costretto mandare la figlia a recargli quelle poche
mal condite vivande che gli apprestava; e lo scudiero approfittava di
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