Il castello di Trezzo: Novella storica - 05

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nelle taverne, e frequentava le corti dei castelli e de’ conventi:
spiava i moti di ognuno, meditava sulle parole che inavvedutamente
isfuggivano; e combinando con accortezza tratti che sembravano i
più disparati, spesso giungeva alla scoperta di fatti segretissimi:
quindi molte fiate sapea prevedere ciò che taluno di celato divisasse
intraprendere.
Aveva fatto lega coi tempestarii, ed altri aríoli, i quali dicevasi
tener possanza sulle meteore e sugli spiriti che abitavano l’aria:
eglino venivano consultati non solo dal volgo, ma anche da’ cavalieri
e signori di castelli, e in ispecial modo dalle donne, a cui la
molta ignoranza e superstizione dei tempi facea credere infallibili
gli oracoli che pronunciavano. Per tal guisa adoperando, Enzel
avea cognizione delle insidie e de’ tradimenti che celatamente si
preparavano; sapea le corrispondenze più ignote e le violenze praticate
fra impenetrabili mura. Amico de’ sgherri e degli assassini, de’
contrabbandieri e de’ gabellieri, egli penetrava sicuro in tutti i
boschi, in tutte le trabacche dei soldati; derisore in suo secreto di
gran parte de’ pregiudizi che esso co’ suoi racconti tenea vivi negli
altri, punto non temea di cacciarsi per luoghi oscuri e disabitati,
ne’ sotterranei e nelle caverne, qualunque pur fosse la fama tremenda
che s’avessero. Infatti egli aveva scoperto nel castello di Trezzo,
entro la torre nera di Barbarossa, l’ingresso ad un sotterraneo a cui
niuno ardiva accostarsi, e ne approfittava onde uscire e rientrare a
suo senno nel castello: il che non eseguiva che in casi importanti,
mal volendo qualche fiata essere scorto da taluno; così, comunque pur
fossero guardate le mura e le porte, per esso riuscivano mai sempre
libere come aveva a Ginevra narrato Gabriella. Questa singolare persona
vestiva calzoni di una foggia particolare, a color nero, e rannodati al
confine del piede; talvolta portava un mantello e un cappello a larghe
falde, e tal altra un guarnello con cappuccio, da cui le sue guancie
sporgenti e gli occhi da gufo ricevevano uno stravagante risalto.
Petraccio era stato introdotto nascostamente da Gabriella nelle
camere delle figlie di Bernabò: imperocchè ella amava ad ogni patto
che Ginevra abbandonasse quel malinconico e segreto affanno che la
opprimeva, od almeno desiderava scoprirne la vera cagione. Quindi avea
caldamente raccomandato all’aríolo che tutte ponesse in opera le arti
sue a fine di alleviarla, o dir le sapesse qual fosse l’origine del suo
secreto dolore: l’aríolo, che sempre compiaceva a Gabriella, siccome
quella che usavagli di molte cortesie, assunse con tutta premura tale
impegno. Entrato in quelle camere, diè principio al narrare istorie
scherzose, che vivamente ricrearono Damigella, la quale pendeva
ammaliata dalla voce strana di lui, da’ suoi gesti, dagli sguardi ed
atteggiamenti variati del volto, non che dalla verità e vivezza delle
sue descrizioni. Col racconto delle sue fiabe guadagnossi pure, a grado
a grado, l’attenzione della vecchia Geltrude, e finalmente s’accorse
che anche Ginevra porgeva orecchio a’ suoi detti, per cui, mutata
insensibilmente maniera di narrativa, parlò d’amori, di sventure, e
fece quadri di avvenimenti diversi, sino a che venne ad un racconto che
parve destare in Ginevra il più vivo interessamento: arguì tosto che
le cose ch’ei diceva fossero le più conformi a’ sentimenti da cui era
quella fanciulla travagliata, e perciò su quelle insistendo, iscoprì
dagli affetti che si pingevano variamente sul di lei viso, e dalle
mozze parole che involontarie ella pronunciava, la qualità delle idee
che fitte le stavano nel pensiero.
Allora quando Enzel pose termine a’ suoi racconti, e si partì dalle
stanze delle figlie di Bernabò, erasi già seco stesso assicurato che
gli affanni di Ginevra procedevano da una segreta fiamma d’amore,
e che l’oggetto de’ suoi pensieri si trovava da molto tempo da lei
discosto fra le venture dell’armi. Diessi quindi con arte a ricercare
fra i vecchi servi di Bernabò, se pur taluno serbasse memoria delle
persone che frequentavano la casa di Donnina de’ Porri, e così
rintracciare qualche filo a guidarlo alla conoscenza dell’amante di
Ginevra; ma le sue ricerche furono vane. I servi erano a que’ tempi
sì umilmente suggetti a’ loro padroni, che se questi fossero stati
persone principesche, dir si potevano più tosto schiavi che domestici;
eseguendo esattamente quanto veniva loro imposto, si tenevano a tale
distanza dai loro signori, che ne ignoravano le segrete relazioni,
o conoscendole non ardivano palesarle. Enzel uscì dal castello, e
meditando la scoperta in cui s’era impegnato, si pose in traccia d’un
altro aríolo il quale era stato lungo tempo a Milano, e tutti sapea
gli avvenimenti delle persone di corte di Bernabò; nè lo rinvenendo,
si diresse ver la casa di Mandellone a cui quasi tutti recavansi o per
sollazzo o per passaggio, onde quell’ostiere gli additasse ove potea
rintracciarlo.
Attraversata l’Adda sulla zattera, a pena pose piede nell’isola,
apparve maravigliato in veggendo fra quelle piante due bellissimi
cavalli ir pascolando: si avanzò, e vide alla porta della capanna
Mandellone e sua figlia, e dall’un canto starsi un estranio in abito da
scudiere. Giuntogli vicino, l’oste il conobbe ben tosto, e facendogli
gran festa si volse allo scudiere, che quello si era di Palamede,
dicendogli: «Signor scudiere, questi è Enzel Petraccio aríolo, il
quale è stato in paesi più in là di tutte le montagne le cento miglia:
e’ sa tutto, e va per tutto senza neppure il soccorso dello spirito
maligno. Standosi qui, ei sa vedere le cose che avvengono a Milano così
chiare siccom’io dalla sponda veggo un temolo nel fiume.» Lo scudiere
squadrollo più volte, indi sorrise, facendosi beffe della figura di
questo singolare personaggio; e ciò si era perchè non gli garbava
l’annunzio della costui onniscienza, poichè temeva non isvelasse le
molte menzogne che, per farsi tenere in conto di guerriero valoroso,
egli avea narrate all’oste ed alla di lui figlia: quindi si persuase
facilmente che quanto di costui gli avea detto Mandellone, proveniva
dalla di lui ignoranza, della quale ei stimavasi scevro siccome soldato
ed uom di ventura. Chiamò quindi per ischerno ad Enzel se sapea che
facesse in quel momento il boia di Milano: e questi, fisandolo con
occhi grifagni, rispose all’istante che stava sulla piazza di Santa
Tecla frustando uno scudiere poltrone. Diede a tale risposta Mandellone
uno scroscio di risa, che intese da qual dente fosse morso lo scudiere;
ma questi si irritò fieramente, e volendo ad ogni patto porre a terra
la vantata scienza dell’aríolo, e beffarlo alla presenza dell’oste
istesso e di Maria, gli fece gran numero di dimande sulla posizione e
singularità di moltissimi paesi, certo di coglierlo in fallo, e così
schernirnelo acremente.
Ma Enzel rispose a tutto, narrando le più minute particolarità de’
luoghi pe’ quali aveva viaggiato lo stesso scudiero, per cui questi,
udendo che l’aríolo tanto sapea, e che d’altronde non lo smentiva,
prese gradatamente interesse al parlare di lui, ed andava ripetendo,
secondo i nomi delle terre che Enzel rammentava, le guerre e le
avventure a cui era stato colà presente; ed aggiungeva molti fatti
del valore del cavaliere che egli aveva ovunque seguito, non poco
esagerando per vanità la di lui e la propria bravura. Quando Enzel
si vide amicato lo scudiere, pel campo che gli porse a darsi vanto
presso Mandellone e Maria di uomo famoso nell’armi, imperocchè quegli
zotici prestavano piena fede a ciò che lo scudiere diceva a motivo che
l’aríolo stesso sembrava e crederlo e confirmarlo, a lui rivolto disse:
«Valoroso voi siete, e intrepido è il cavaliero che avete seguito,
ed i suoi fatti onorano la nobile sua patria. — Oh al certo (rispose
lo scudiere) Palamede de’ Bianchi sta fra i più prodi cavalieri di
Milano; alla corte di Bernabò veniva stimato de’ più leggiadri di
volto, e valorosi di braccio: egli diè prove stupende colla spada e
la lancia ne’ tornei di Verona, ma più che in altri luoghi nel campo
de’ Veneziani.» Quando Enzel intese che il signore di quello scudiere
era un cavalier di Milano stato alla corte del Visconte, e che tornava
da lontane guerre, gli nacque dubbio improvviso, potesse essere quel
cavaliere l’amante di Ginevra: per cui si raccolse un instante; indi
sorridendo guardò in viso allo scudiere, e gli disse: «Quante dame e
ricche figlie di potenti signori avranno desiderato che il valoroso
cavaliere vestisse il loro colore, facendolo trionfare nelle giostre e
ne’ tornei?»
«Molti sguardi (riprese lo scudiero) e molte soavi parole erano a lui
dirette; ma egli è ammaliato da una ciarpa che porta sempre sul petto,
e da un nome che proferisce sovente, per cui quanto io mi curava di
mostrarmi innamorato di tutte le belle figlie dei guardiani di castelli
e delle damigelle che sfuggivano un istante sull’imbrunire agli sguardi
delle loro gelose signore, altrettanto il mio cavaliere era riservato
nel trattare con queste. Nè nei tanti castelli e palagi ove abbiamo
albergato, mai un marito, entrando secretamente nelle sale della sua
donna che con Palamede conversasse, colse questi in qualche atto per
cui si sguainassero spade o pugnali. Ed io potrei far sacramento,
che persino in Venezia stessa, che è la città dell’allegria e degli
amori, tutte le lusinghe delle leggiadre e libere patrizie cadevano al
nome di Ginevra. — Al nome di Ginevra,» ripetè ad alta voce l’aríolo,
la pelle bruna del cui volto, raggrinzandosi, espresse un riso di
trionfo; ma poscia accostatosi allo scudiere, e posandogli sulle
spalle una mano, gli disse sommesso: «Credevate voi ch’io m’ignorassi
che il cavaliere de’ Bianchi ama Ginevra la bella, figlia di Donnina
de’ Porri e di Bernabò, e che ne va con pari ardore corrisposto?
Conosco la storia degli amori di Palamede, come vedo in cuore alla
figlia di Mandellone tutto l’affetto che ella sente pel di lui gentile
scudiere.» La lusingata vanità di costui, che non gli lasciò scorgere
quanto era facile l’avvedersi dai lunghi sguardi che a lui porgeva,
e dall’interessamento con cui tutte Maria ne raccoglieva le parole,
ch’ella era di lui innamorata, e l’avere udito l’aríolo nominare i
parenti di Ginevra, che egli credeva che a sì rustica persona esser
dovesse affatto incognita, produssero in esso lui tale meraviglia,
che diessi a credere con tutta certezza ciò che di Enzel gli avea
Mandellone narrato. Quindi gli fece grandi interrogazioni, da cui seppe
lo scaltro aríolo schermirsi per non iscemare l’opinione che si aveva
acquistata, pago in suo cuore d’aver quanto ei cercava rinvenuto.
Non sapea però Enzel rendere a sè stesso ragione della causa per cui
lo scudiere si trovasse solo coi cavalli nell’isola di Mandellone; si
volse all’oste dopo aver entro sè stesso pensato, e disse: «Chi detto
avrebbe, o Mandellone, che l’erba del tuo prato, la quale non è brucata
che dalle mule dei mercanti, o dalle rozze del priore di Caravaggio,
dovesse essere mangiata da due sì bei destrieri? — E sì, rispose
l’oste, che ne hanno già mangiata più d’un fascio, e non so se tutta
basterà, perchè il cavaliere si è cacciato con un falso monaco insieme
al Tencio e gli amici dentro il bosco: e il motivo di ciò non puoi
saperlo che tu, che tutto sai; per me lascio lor fare quanto vogliono,
perchè mi hanno tinta la mano col giallo dell’oro. Ma ho sospetto da
certe parole che intesi pronunciare da quel frate e dal cavaliere sul
castello di Trezzo, che si voglia ricondurre alla selva quel vecchio
cignale di Bernabò, che il signor Giovan Galeazzo ha fatto rinchiudere
nel castello. — Segreta è la tana del cervo (rispose l’aríolo assumendo
un’aria misteriosa); ma le sue corna non giungeranno innosservate
presso le porte di cui vegliano a difesa le spade e le alabarde.» E
in così dire si accomiatò da Mandellone, che invano gli offerse una
buona misura di vino brianzolo, e trasportato da Trado colla zattera,
attraversò l’Adda, salì la sponda, penetrò nel bosco della strada di
Concesa, e venne sin presso al tempio, che era quella stanza de’ ladri
detta _la tana del cervo_. Colà si ascose fra le piante spiando, e vide
in leggiera armatura uscirne dalla porta un giovane di belle forme, che
si diede pensoso a passeggiare. Esaminollo attentamente, e vedendogli
una ciarpa azzurra ritenne ch’ei fosse, siccom’era di fatto, Palamede;
ma senza lasciarsi da lui scorgere, a pena ebbesi fitto in mente la sua
imagine, chetamente ritirossi, e lieto di quanto avea scoperto rientrò
nel castello.
Ginevra, nella cui anima gli artificiosi racconti di Enzel avevano
reso più intenso il fuoco che la consumava, non seppe più a lungo
resistere al desiderio di chiedere a costui, ove si trovasse il
cavaliero oggetto de’ suoi sospiri, e se a lei sarebbe dato ancora una
volta di rivederlo: poichè si era di già persuasa che vero fosse che
l’aríolo conoscesse anche le cose che di lontano accadevano, non che
i futuri avvenimenti, siccome la avea accertata Gabriella. Attese un
istante in cui sola trovossi con questa, e le palesò che ella bramava
avere una conferenza coll’aríolo. Nulla potea riuscir più gradito alla
moglie del castellano che una tale richiesta, perchè alfine era sicura
di penetrare la causa de’ secreti affanni che angosciavano Ginevra.
Discese ella, e trovato Enzel che stava meditando una storia la quale
contenesse tutto ciò che egli aveva scoperto per narrarla alla figlia
di Donnina, ne lo avvertì che seco lei salisse nelle camere di Ginevra.
Era sull’ora del declinare del sole, e dal verone, le cui colorite
vetriate stavano aperte, penetrava viva e serena la luce entro una
camera ornata nella volta da arabeschi dorati; un ricco drappo
cremisino a fiori d’argento ne vestiva le pareti, intorno alla
sommità delle quali, in larga zona orlata da gotici fregi, vedevansi
rappresentate le nozze di Bernabò con Regina della Scala. Nel mezzo
della camera un liuto, che parea coperto da una sottilissima rete di
madreperle ed oro, stava appeso con verde nastro ad un leggío di legno
prezioso, intagliato elegantemente a fogliami, sul quale era stesa una
pergamena coperta di note musicali, e sulla cui sommità posavano libri
con ricche coperte ed aurei fermagli.
Sola, mesta, e tutta in un pensiero raccolta, stava colà Ginevra
adagiata sovra un sedile, sul cui appoggio, che serbava le forme d’un
drago d’oro alato, posava il destro braccio, su quello colla persona
languidamente abbandonandosi. Cheto e quasi di soppiatto fu l’aríolo
colà da Gabriella condotto, la quale tosto si ritrasse, recandosi
a favellar con Geltrude e Damigella onde tenerle occupate. L’aríolo
scoprisi il capo, e rivoltosi con modo rispettoso a Ginevra, animando
il viso e dando cert’aria solenne di profetica ispirazione alla sua
voce, le disse: «Fate cuore, o leggiadra figlia di Donnina, e ridonate
il sereno alla vostra candida fronte, perchè io ho consultati i segreti
vuoti dell’aria, abitati dagli spiriti invisibili, ho meditato sul
soffio de’ venti, ed i segni formidabili delle nubi e dei lampi, e
le potenze misteriose si sono accordate nel pronosticare un fortunato
passaggio di pianeti sul vostro capo. Dall’oriente si levò un’aura che
riposava da molto tempo, per disperdere le nebbie che si addensavano
intorno a voi. — Che dici mai? (rispose Ginevra) è egli vero che è
surta un’aura d’oriente che mi deve liberare dagli affanni che mi
circondano? Oh soffii, soffii con forza quell’aura in questo cuore; la
mia felicità da colà solo mi deve ritornare.... o dalla Vergine, che mi
accoglierà nel suo grembo, quando avrò espiate le mie colpe. Ma ora mi
spiega tu, cui sono palesi i profondi arcani e le cose ignote, che vuol
egli significare il sollevarsi di quest’aura orientale? — Quest’aura
a me significa (Enzel riprese) che un cavaliero cui cinge il petto una
ciarpa azzurra, dopo essersi fatto acclamare fra i più prodi in campo
chiuso ed aperto, ritorna valoroso alla nobile donzella, il cui nome
fu sempre sulle sue labbra e l’imagine dentro il cuore.» Una gioia
vivissima apparve a queste parole nello sguardo e nel viso di Ginevra.
«Rieda (ella esclamò) il cavaliere a chi con tanti e lunghi sospiri
ne ha incessantemente invocato il ritorno; ma come rivederlo (proseguì
ella ricadendo nella usata mestizia) se io son chiusa fra le custodite
mura di questo castello, cui nessuno può ardire appressarsi?»
Enzel le si accostò, fisolla in volto; poscia girando lo sguardo per la
camera onde assecurarsi che le sue parole non erano da altri intese,
le disse sommesso: «Datemi fede di eseguire ciò che vi dirò, ed io
vi giuro per le tre punte del fulmine, che fra pochissimo tempo vi
mostrerò il cavaliero che amate.» Ineseguibile parve sulle prime così
fatta promessa a Ginevra; e sebbene ella ardentemente lo bramasse, e
avesse fede eziandio nel potere dell’aríolo, tanti erano gli ostacoli
che la sua mente le depinse opporsi a sì fatto disegno, che le sembrò
impossibil cosa il mandarlo ad effetto, e temette un istante non
volesse l’aríolo prepararle un inganno; ma trasportata dal pensiero
della gioia che avrebbe provato se la promessa dell’aríolo si fosse
avverata, non volle affatto dubitare di lui, ma pensò previamente
assicurarsi di sua scienza con prove maggiori. Chiese quindi all’aríolo
il nome del cavaliere e le di lui forme, non che i paesi dove avea
guerreggiato; e dimandogli ove ella lo avesse conosciuto, da quanto
tempo essi si amavano, e molte altre circostanze della loro affettuosa
corrispondenza. Ed Enzel a ciò che avea saputo dallo scudiero satisfece
con precisione: a tutte le altre domande rispose involgendo i concetti
in oscure parole, e frammezzandoli colla narrativa di quei fatti che
sono indivisibili da simigliante passione; per lo che tanto persuase
la mente di lei, che le si affidò intieramente, e sicura che l’aríolo
avrebbe condotto a lei davanti Palamede, gli promise di far tutto ciò
che a quest’uopo fosse per imporle.
La notte istessa di quel giorno in cui l’aríolo ebbe sì fatto colloquio
con Ginevra, si recò alla _tana del cervo_, ove trovando Palamede
dormiente sui gradini dell’ara, lo condusse a traverso al bosco sino
sotto al verone di Ginevra, e colà lasciandolo, dopo averlo ammonito
di ciò che avesse a fare, penetrò pel sotterraneo nel castello, e salì
inosservato nelle camere di Ginevra, recando l’involto che racchiudeva
la lettera col nastro, che Palamede invano cercò dal Tencio far
consegnare all’amante. Quando Ginevra vide Enzel entrare da lei a
quell’ora, fra il palpito della speranza e del timor di un inganno,
gli chiese se ei veniva ad adempiere la promessa che le aveva giurata.
Enzel, senza rispondere alla sua inchiesta, svolse il nastro che
rannodava il foglio, e glielo presentò, certo che Ginevra l’avrebbe
riconosciuto per un oggetto che apparteneva a Palamede.
Non è esprimibile la maraviglia ed il trasporto con cui quella
innamorata mirò, e riconobbe il nastro, che ella avea trapunto e
rannodato di propria mano alla guaina della spada del suo cavaliero nel
giorno di sua partenza.
Ella guardò fiso l’aríolo, e poco stette nell’entusiasmo della sua
gioia, se non era la sua figura troppo stravagante e brutta, ch’ella
nol venerasse come un essere potente disceso dal cielo per renderla
felice. Applaudivasi l’aríolo in sè stesso di cagionare tanta
contentezza ad una fanciulla, il cui grado e la cui beltà la rendevano
sovra ogni altra interessante; ma sollecitandolo il tempo e il timore
non venisse dalle guardie scoperto Palamede, disse a Ginevra: «Io vi
assicurai che vedreste il cavaliero; e voi lo vedrete. Questi oggetti
saranno però inutili per accertarvi che quegli che vi si offrirà
allo sguardo sia Palamede, perchè l’occhio dell’amore ne scorgerà le
sembianze anche al pallido raggio della luna.» Ginevra slanciossi
a questi detti avidamente verso le vetriate onde mirare a piè del
castello; ma Enzel ne la impedì, dicendole che tutto tornerebbe vano
s’ella non eseguiva quanto era per dirle; e le intimò si recasse
nella sala del verone, ed accompagnandosi col liuto intuonasse un
canto noto al cavaliero: poichè alla sola sua voce questi sarebbesi a
lei fatto palese. Ginevra eseguì infatti ciò che l’aríolo le impose,
e fu solo quando ebbe dato fine al canto che affacciatasi al verone
scorse brillare ai raggi di luna l’armatura di un guerriero, ch’ella
immantinente riconobbe essere Palamede. L’aríolo, che in quel mentre
erasi posto in agguato, onde gli amanti non fossero sorpresi, udì farsi
qualche rumore, benchè lieve, nel cortile del castello; ed era una
scolta, che avvedutasi della presenza di un armato sotto le mura, mandò
ad avvertirne Iacopo del Verme, il quale, siccome gli s’indicò, veniva
per assicurarsene alle stanze di quelle fanciulle: l’aríolo, udendo
l’alternare dei passi di taluno che si appressava, ritrasse Ginevra dal
verone, spense il lume, e uscito rapido qual lampo rasente il muro di
un andito opposto si perdette nelle lontane camere superiori.


CAPITOLO V.
Quel guerrier, come ardito, invitto e franco,
Si volse indietro, e vide il traditore
Che ferito l’avea nel lato manco,
E gridò forte: O crudel peccatore,
A tradimento mi desti nel fianco.
PULCI. _Il Morgante._

Sebbene Palamede fosse rientrato nel bosco prima di essere scorto
palesemente dagli uomini d’arme, che facevano la scolta sull’alto
della bastita, e l’aríolo fosse scomparso senza essere veduto dal
loro capitano, pure non era ancora surto il mattino, che già una
voce erasi sparsa fra le genti del castello d’uno straordinario
avvenimento, accaduto la notte sotto le mura. E siccome la prigionia
di un principe che avea per tant’anni signoreggiato, non che quella
dei di lui congiunti, si riguardava come un avvenimento a cui
dovevano concorrere cause soprannaturali, dicevasi quindi già averlo
preconizzato la comparsa di una cometa a coda sanguinea, e l’essersi,
come allora divulgarono gli astrologi, congiunti i pianeti di Giove,
Marte e Saturno nella casa dei Gemini; oroscopo che si credeva fatale
ai principi, al che s’aggiungeva il pronostico più patente e terribile
del replicato scagliarsi dei fulmini sul palazzo di Rodolfo figlio di
Bernabò.
Per tal guisa gli animi delle genti erano di leggieri preparati a
dar fede a qualunque strana novella venisse narrata. E ciò tanto
maggiormente, in quanto che sebbene Bernabò fosse da tutti come
crudele e capriccioso tiranno abbominato, pure molti erano stati
nella coscienza offesi dal modo con cui suo nipote Giovan Galeazzo
lo aveva sorpreso e imprigionato, simulando un divoto pellegrinaggio
alla Madonna del Monte presso Varese. La qual cosa a que’ tempi dava
agio alle fantasie di mescere a tal fatto l’intervento di demonii, di
vendette celesti, di spaventose apparizioni. Gli uomini all’incontro
meno servi delle favole grossolane dai più credute, e conoscitori delle
variabili ed armigere inclinazioni di che allora iva animata la plebe
ed alcuni signori, non furono dal primo istante dell’imprigionamento
di Bernabò senza sospetti di una rivolta a suo favore, contra il
conte di Virtù. Quindi, secondo il modo che ciascuno dei militi che
erano nel castello considerava nel proprio pensiero quel fatto, andava
diversamente ripetendo le cose che si raccontavano avvenute la notte
sotto le mura, e vi facea varie conghietture.
Nei cortili del castello, nelle ampie e rozze stanze delle torri, e
lungo il porticato ove stavano i soldati ripulendo le armature, gli uni
andavano dicendo che si erano la notte uditi per l’aria suoni e canti
di angeli, e s’era veduta una gran luce a cui stavan per entro molte
persone danzanti in candide vesti: ciò che era segno di un felicissimo
avvenimento. Altri sostenevano al contrario, che ad un tratto videsi
ardere il bosco di Trezzo, e comparire al piè delle mura del castello
un gran demonio lucente, che cantò con voce femminina per addormentare
le guardie, e così divorarle; e che non vi riuscendo, si era gettato
nell’Adda. Ma negli appartamenti superiori, i principali fra i caporali
di lancia che si erano raccolti, con Iacopo del Verme, dal capitano
Gasparo Visconti, pensarono esser potesse qualche tradimento con cui
si avesse tentato sorprendere quel forte onde liberare i prigionieri,
e determinarono doversi addoppiare la vigilanza, e spedire a Milano ad
avvertirne Giovan Galeazzo.
La novella pervenne ben tosto anche all’orecchio di Bernabò e suoi
figli, non che di Donnina e di frate Leonardo. Accesi tutti dal
desiderio e dalla speranza della loro liberazione, credettero esser
potesse alcuno de’ loro amici e fautori di Milano, o di altra città
soggetta al dominio di Bernabò, che radunata gran mano d’uomini,
venisse a trarnelo da quel luogo di prigionia. Il vecchio principe per
le lunghe esortazioni del frate eremita, con cui l’andava dissuadendo
della vanità delle terrene grandezze, e gli infondeva in cuore, coi
consigli della religione, la pazienta nelle traversie, invitandolo a
sofferire quel doloroso rovescio di fortuna ad espiazione delle proprie
colpe, aveva piegato l’animo a deporre ogni desiderio di grandezza e di
signoria; e innanzi all’altare della Vergine avea promesso che nessun
altro pensiero sulla terra lo avrebbe padroneggiato fuorchè quello
di un amaro pentimento de’ suoi peccati. Appena però gli balenò allo
sguardo un lampo di speranza di riprendere il potere de’ suoi vasti
dominii, la brama d’impero, di vendetta e di tirannia, che avea messe
radici profonde nell’omai decrepito suo cuore, si risvegliò con somma
violenza, squarciando quel velo di forzata sommissione penitente a’
decreti della Provvidenza, creata più dalla necessità delle cose, dallo
spavento della disgrazia e dei rimorsi, che non da vero sentimento di
pietà, troppo straniero all’orgoglioso, fantastico e nella crudeltà
corrotto animo di Bernabò. Quando egli ebbe udito che correa voce
essere stati veduti nella notte soldati estrani aggirarsi intorno alle
mura del castello, e che forte dubbiavasi fossero stati spediti per
liberarlo, d’un subito i lineamenti tutti del di lui viso, piegati a
mestizia ed abbattimento, furono animati dall’avanzo di quel fuoco
guerriero che tanto, durante la sua vita, l’aveva agitato: quindi
fieramente alzando il capo con tuono d’impero, mirando in volto a’
suoi due robusti figliuoli, e girando lo sguardo alle armature che
stavano appese come trofei intorno alle pareti di quella sala, parve
loro accennasse che ad ogni evento ei non sarebbesi con essi rimasto
inoperoso.
Rodolfo, inteso il cenno del padre, strinse colla sinistra la mano
a Lodovico; e protendendo la nerboruta sua destra, assecurollo
silenziosamente ch’egli ne agognava l’istante. Donnina, a cui
non facevano illusione que’ vaghi racconti, ma sempre tremava che
irritandosi, o insospettendosi Giovan Galeazzo non venisse inasprito il
trattamento di Bernabò, e frate Leonardo del pari, a cui solo stava a
cuore la di lui eterna salute, gli si fecero incontro per rattemprarne
lo spirito esaltato, e Donnina gli disse: «Volesse il Cielo, che ai
nostri amici di Milano avesse conceduto San Giorgio la sua lancia e il
suo cavallo, che a quest’ora non sarebbevi più dentro le otto porte un
solo dei militi del conte di Virtù nè de’ suoi Francesi! E potrebbe
anch’essere vero quanto si va dicendo degli armati, che questa notte
furono veduti tentare di sorprendere questo castello; io però credo
esser questo null’altro che ciance de’ soldati, sparse fors’anco ad
arte dai capitani, per tenerli in maggior vigilanza, o per trarre il
vostro generoso e ardito cuore a qualche movimento, che riferito a
Giovan Galeazzo aumenti verso di voi e di noi tutti l’odio ed i suoi
scellerati disegni. Ond’io scongiuro voi ed i vostri valorosi figli
per l’istessa vostra salute a nulla operare nè dimostrare che vaglia ad
infondere sospetti in chi ci tiene qui rinchiusi, perchè non abbia la
loro mano ad aggravarsi sopra di noi: e pregovi attendiate con pazienza
la fine di questi mali, che se così piacerà alla Vergine sacrosanta,
non saranno, siccom’io spero, di una lunga durata.» Frate Leonardo
stava per avvalorare colle sue le parole di Donnina, ma Bernabò vibrò
ad ambedue uno sguardo feroce, talquale e’ soleva allorachè minacciava
un tremendo gastigo.
«Voi, Marchesa (le disse), dovreste arrossire di consigliare in tal
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