Il castello di Trezzo: Novella storica - 03

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silenzio, meditando forse ciascuno la sua trista fortuna presente e
l’incerto avvenire che gli si preparava; fors’anche eran compresi dalla
solennità dell’ora che precede la notte, in cui la desolazione ed un
segreto spavento penetrano nelle anime afflitte, quasi se sparendo la
luce, sparisse un amico consolatore, allorchè entrò in quella sala un
paggio, annunziando a Bernabò che se, come era suo costume, intendeva
discendere nella chiesa del castello per recitare le preghiere della
sera, tutto era disposto; e udissi in questo mentre la campana suonare
il segno usato per chiamare alle orazioni vespertine. Bernabò fu più
scosso da questo suono che dalle parole del paggio; e frate Leonardo a
lui rivolto disse:
«Scendiamo, o Principe, ad impetrare dalla gran Madre di Dio un
sollievo ai nostri mali. Se ella degna ascoltare le nostre preghiere,
e infonderà nel cuore quella pace e quella rassegnazione che la nostra
umana fralezza non saprebbe ritrovare in tutte le vanità della terra.»
E in così dire gli si accostò per porgergli braccio ad alzarsi dalla
sedia su cui stava assiso; ma Bernabò, alzandosi da sè francamente: —
«Per Sant’Ambrogio (gridò), io pregherò assai meglio nostra Signora
di Trezzo che quell’ipocrita di Giovan Galeazzo non avesse pensato
di pregare la Vergine del monte di Varese.» Nè potè trattenersi dal
dire fra i denti la sua solita e terribile espressione di vendetta:
«Che egli venga squarciato da’ miei cani.» Ma Donnina, che lo
intese, tremando che alcun altro l’avesse udito, vibrògli uno sguardo
significante, e Bernabò s’avviò silenzioso verso la porta della scala.
Il principe era appoggiato all’eremita; Donnina al suo fianco sinistro;
dietro le venivano Ginevra e Damigella con Geltrude; indi Rodolfo e
Lodovico. Le guardie che stavano al piede della scala abbassarono
l’alabarda al passare di Bernabò, e la comitiva, attraversato il
cortile, entrò nella gotica porta della chiesa.
L’oscurità che ivi regnava non era diradata che dalla luce rossastra
di due lampade che ardevano innanzi all’immagine della Vergine; e
questa luce diffondendosi sotto quella volta rischiarava alcuni avelli
di marmo trasportati dalla vecchia rocca, che forse erano quelli
de’ suoi primi fondatori, e ripercuotevasi sui profili delle statue
che vedevansi distese sopra le arche, atteggiate all’eterno sonno;
penetrava pur anche fiocamente quel lume entro il cancello che chiudeva
la cappella de’ morti; e facea luccicare alcune ossa pulite dal tempo
e dalle mani di chi toccandole invocava pace allo spirito che le aveva
animate, e le quali stavano disposte in giro sulle pareti. Collocatisi
ciascuno in divota posizione, disse l’eremita un sermone sulla caducità
delle umane grandezze; indi intuonò le preci con canto monotono e cupo,
ma con voce pietosa. Rispondevano a quel canto nello stesso tenore
alternativamente i supplicanti; e quelle voci di dolore replicate dagli
echi della volta della chiesa, perdendosi in un mormorio indistinto
nella cappella de’ morti, incutevano negli animi un terrore e una
mestizia profonda.
Ma nessun cuore fra tutti quelli che palpitavano in seno a que’
preganti, era commosso ed agitato al pari di quello della bella
Ginevra. Genuflessa, col volto raccolto nelle proprie palme, ella
talora lasciava scorrere la sua mente sulla folla delle tenere memorie
che in lei si destavano; ma oppressa da crude ambascie e dal doloroso
aspetto dell’avvenire, traeva in segreto affannosi sospiri; tal fiata,
condannandosi come rea, perchè nella casa di Dio attendesse a sì fatti
pensieri, alzava gli occhi all’immagine della Vergine, e ne invocava
il possente aiuto. Alfine il tenebrore di quel sacro luogo, i tristi
oggetti che la circondavano, l’alternare di quelle voci, i terrori che
l’agitavano, addensarono un velo così funesto sulla di lei fantasia,
che le forze sarebbonle mancate sotto l’angoscia che la premeva, se
fosse durata nello stesso stato più a lungo; ma in quell’istante
terminarono le preci, e tutti rialzatisi si mossero per uscire di
chiesa. Pallida, tremante, ella si rilevò: appoggiossi a Geltrude,
e a lenti passi si avviò fuor del tempio. La freschezza dell’aere, e
il bel color d’argento di cui la rivestiva la luna nascente che già
imbiancava i merli delle mura e delle torri, e il brillar di varie
stelle che scintillavano nell’azzurro del firmamento, sollevarono quel
peso di terrore e di affanno che si era concentrato nel cuor suo; più
liberamente ella respirò; e il pallore quasi mortale che si era diffuso
sulle sue guancie divenne debilmente animato da un lievissimo color di
rosa.
Attraversato di nuovo il cortile, tutti risalirono nella sala maggiore,
e di là, dai paggi che Gasparo Visconti aveva a ciò destinati, vennero
condotti in varii appartamenti. Bernabò fu posto in quello in cui era
accostumato abitare, e che stava nel lato meridionale del castello,
al fianco sinistro della torre; presso a sè egli volle ritenere frate
Leonardo, e nelle attigue stanze Donnina. Rodolfo e Lodovico furono
collocati in ricche camere al fianco destro della torre; e Ginevra e
Damigella con Geltrude furono poste nel lato orientale del castello,
ove da un verone guardavasi nell’Adda; ed era un appartamento da
Bernabò un tempo addobbato per ospiziarvi le dame che egli accoglieva
in quella dimora. Gasparo Visconti e Iacopo del Verme, colle altre
persone d’armi di maggiore conto, ebbero buon alloggio nelle molte
camere dal lato occidentale.
Vennero apprestate le cene, e tutti furono nelle diverse camere
serviti. Gabriella, che era la guardiana del castello, siccome moglie
di Tadon Fosco, donna accorta, di modi franchi e gioviali, perchè
accostumata a trattar soldati e cortigiani, fu destinata al servizio
di Donnina e delle sue figlie. Salita nelle stanze di queste, recando
loro una cena ch’ella stessa avea allestita, vedendo che Ginevra
mesta e taciturna non era punto dai cibi solleticata a mangiare, si
pose barzellettando a farle animo per divagarla dalla melanconia; e
le disse che sarebbe stata sì agiatamente in quel castello quanto nel
suo palazzo di Milano. Fece una pomposa descrizione del parco, e narrò
meraviglie dei due cervi addimesticati che vi passeggiavano; parlò
delle rovine della vecchia rocca, della torre nera di Barbarossa e
degli spiriti che la abitavano; i quali durante la notte correvano per
il parco cavalcando i cervi: spiriti però all’intutto innocui, poichè
Tadone suo marito, che tal fiata ella astringeva a passar la notte da
lei discosto, trovandosi nel parco, fu sommamente spaventato dal loro
incontro, ma giammai ne patì offese. Vedendo però Gabriella che tutte
le sue narrazioni nessun sollievo arrecavano all’animo di Ginevra,
pensò, da donna accorta qual era, che il di lei male tenesse radice
ben più profonda che non nel semplice dispiacere della reclusione in
tal luogo: sicchè, fissandola con uno sguardo malizioso e penetrante, e
parlandole sommessamente, le disse:
«Se mai, signora, v’accrescesse il disgusto di abitare in questo
castello, l’idea di non potervi procurare a piacer vostro qualche velo
o drappo di que’ de’ Segazoni[7], oppure di non poter mandare a qualche
vostra amica un nastro da voi trapunto, sappiate che qui abita un
aríolo[8], detto Enzel Petraccio, il quale sa tutto e va per tutto; e
se pur vi fossero dieci capitani d’armi e diecimila soldati a custodire
il castello, e se queste mura avessero lo spessore d’una montagna, egli
entra ed esce a suo senno dal castello, senza che alcuno lo possa nè
scorgere nè arrestare. Io e mio marito l’abbiam sempre lasciato abitar
qua liberamente, perchè esso ci racconta tutte le novelle del paese,
e ci serve fedelmente in tutto ciò che gli comandiamo; e se a voi
piacesse aver notizia degli avvenimenti di qualunque persona che gli
chiediate, ve li narrerà dalla nascita sino al momento in cui vi parla;
se desiaste inviarlo a recare, o ricevere qualche cosa, gli è come se
vi andaste voi stessa... Ah! pur troppo egli sa tutto!.. Sapeva già da
un mese la disgrazia che doveva accadere a Bernabò; ma siccome racconta
le cose con motti stravaganti, non l’avevamo compreso chiaramente.»
Ginevra al sentire che esisteva un uomo capace di rischiararla
sul destino di persone lontane, fu punta da viva brama di parlare
all’Aríolo per intendere che mai fosse di una persona che il suo cuore
forte ardeva di rivedere; ma temè di fidare il segreto suo più caro
ad un uomo che esser poteva un astuto ingannatore di quelle genti
ignoranti, e porne sì a parte una donna che ancora non conosceva.
Quindi dopo un istante di riflessione ringraziò Gabriella di sue
cortesi offerte, e licenziolla dicendo volersi recare al riposo.
Partita Gabriella, Ginevra si accostò al verone, e le si stese alla
vista un vasto piano variamente illuminato dalla luna, nel quale
scorgevansi grandi spazii, erano i folti boschi dei dintorni; spinse
indi lo sguardo al più lontano orizzonte, dalla parte d’oriente,
sospirò, e ricadde in una tetra melanconia. Universale era il silenzio
e la quiete intorno a lei, rotta soltanto dal romoreggiare incessante
dell’Adda che frangevasi contro la rupe del castello, o da qualche
lontano grido, o scoppio di risa che partiva dalle stanze inferiori,
ove i soldati ed i paggi stavano lietamente gozzovigliando.


CAPITOLO III.
Di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor.
Per valli petrose, per balzi dirotti
Vegliaron nell’armi le gelide notti
Membrando in fidati colloquii d’amor.
MANZONI.

A pena la luce del primo biancheggiare dell’alba trapelò per entro
i fessi delle travi della capanna di Mandellone, Palamede, che
ansiosamente fra gli interrotti sonni aveva atteso il giorno, si levò
dal giaciglio di foglie su cui aveva passata la notte. Girando lo
sguardo fra quel lume incerto, il primo oggetto che gli occorse alla
vista si fu il crocifisso di legno sul quale Aldobrado aveva a’ ladri
fatto prestar giuramento, e che pria di coricarsi avea riposto sovr’una
tavola. Palamede alzò colla destra quel crocifisso, e piegatoglisi
innanzi con un ginocchio a terra, mandò alcune fervorose preghiere,
invocandone il potente patrocinio nell’impresa che stava per assumere;
indi rilevossi, e lo ripose. Staccò poi da un uncino di legno la sua
spada che appesa vi avea la sera, baciò tre volte la ciarpa a cui
andava rafferma, e, siccome per voto soleva, fecesi il segno della
croce colla impugnatura su cui stava effigiata a cesello l’imagine di
Sant’Ambrogio contornata di pietre preziose, e se la mise a tracolla.
In questo mentre svegliossi anche Aldobrado, balzò in piedi d’un
salto, e volse intorno gli occhi con sospetto, parendo ne’ primi
moti intricato nella lunga veste che lo avviluppava; ma assecuratosi
dell’esser solo con Palamede, si rinfrancò, diè di piglio al
crocifisso, e toccatosi con quello il petto, se lo ripose sotto la
tunica: indi uscirono ambedue dalla capanna.
Già i primi raggi dell’aurora imporporavano la dentata cima del Segone
e degli altri monti di Lecco e del Bergamasco, e dalla parte del Brembo
il cielo s’investiva della lucida tinta del crepuscolo, sebbene dal
lato opposto risplendesse ancora qualche rara stella. Si udiva per
entro i folti rami degli alberi dell’isola uno stormire di uccelletti,
e uno zirlare di tordi e allodole, a cui si univa un mormorio delle
foglie per l’alitare d’una brezza mattutina, che increspava le correnti
acque dell’Adda. Nel praticello poco lungi dalla porta della capanna,
già stavano intesi al partire il Tencio, il Brescianino e il Carbonaio,
muniti ciascuno delle proprie armi; un po’ più discosto eravi lo
scudiere di Palamede, il quale teneva pel freno il suo destriero e
quello del cavaliere, a cui aveva addossati gli arcioni e le armi; e vi
era pur Mandellone con sua figlia Maria, che avea costretto a dormire
al suo fianco sulla zattera; e il servo Trado. Tutti, all’aprirsi
della porta della capanna, ed all’uscirne di Palamede ed Aldobrado,
s’inchinarono, scoprendosi il capo; ma più d’ogni altro inchinossi
umilmente Mandellone, che si accostò al cavaliere, chiesegli scusa
pel disagiato letto su cui aveva dovuto passare la notte, e gli offrì
con voce melata una refezione per disporsi al viaggio. Ma Aldobrado
interruppe bruscamente il suo parlare, e volgendosi a Palamede gli
disse con voce sommessa: «Per l’impresa che meditammo, e pei compagni
che ne deggiono seguire (ed accennò i tre ladri), fa d’uopo che
cangiate quegli abiti di troppo ricchi ed appariscenti; armatevi il
capo, e riponete le piume. — E che farem noi dei cavalli?» soggiunse
Palamede: «È necessario (riprese l’altro) o qui lasciarli, o mandarli
a qualche vicino contado al di là dell’Adda, onde si trovino pronti
sulla strada al ritorno che faremo, compiuta l’impresa.» E in così
dire fe’ cenno a Mandellone ed allo scudiere che gli si avvicinassero;
e trattili in disparte, disse loro: «Tu, Mandellone, terrai in
quest’isola questo scudiere e quei due cavalli, e loro presterai tutto
quanto sarà d’uopo; e tu, scudiere, attenderai qui il ritorno o del tuo
signore, o di me che ti recherò i di lui comandi.» Ambedue mostrarono
la loro grata sommissione a tale ordine; il primo, perchè isperava una
lauta ricompensa; l’altro, perchè il bel volto e gli occhi espressivi
della figlia di Mandellone aveangli reso piacevolissimo il soggiornare
nell’isola. Palamede, fattesi recar le armi, si levò l’abito ranciato e
la maglia, ed addossò una fina armatura d’acciaio non pesante, ma salda
a tutte prove, che avanti la sua partenza aveale donata il marchese
Azzo Liprando, che teneagli luogo di padre, e lo amava qual figlio;
acconciossi i bracciali ed i guanti; lasciò il berretto, e si coverse
il capo con un elmo a celata, ma senza cimiero; ritenne la spada in una
catenella che si cinse, v’infisse un pugnale di una forma singolare che
acquistato egli aveva a Venezia da un Greco della corte di Bisanzio,
e gittossi alle spalle un bruno mantello. Porse a Mandellone due
imperiali d’oro; indi raccomandossi allo scudiere perchè avesse special
cura del suo cavallo, a cui innanzi al partire palpeggiò la groppa,
ed accarezzò il muso ed il collo, acquetandolo colla voce, mentre egli
ergeva la testa nitrendo e scalpitando, impaziente che il suo signore
gli salisse sul dorso onde mettersi in cammino. Affrettato da Aldobrado
si pose in via. Mandellone corse a staccare la zattera, e li trasportò
al di là dell’Adda.
Giunti a piè della ripa, il Brescianino, il quale, velocissimo di
gambe, soleva prestamente ire e redire spiando da lungi se a caso si
avessero ad incontrare persone sulla strada, salì all’uopo pel primo,
quasi servisse d’antiguardo; indi seguivalo il Tencio, e dietro a lui
Aldobrado e Palamede; a retroguardia stette il Carbonaio, il quale
indossando abiti alla foggia de’ villici di que’ luoghi, e portando
una scure da taglialegne, non valeva ad incitare sospetto alcuno, se
iscorto lo avessero i gabellieri od i soldati: potea così dare avviso
se taluno li sorprendesse alle spalle. Salita l’erta ed elevata sponda,
trovaronsi sulla strada del bosco di Concesa, la quale fu da loro
abbandonata per cacciarsi dirittamente nella foresta che le sorgeva a’
fianchi.
Foltissimo era quel bosco, formato da spesse ed antichissime piante:
le quercie, gli olmi, i faggi, le elci, qualche pioppo e platano
occupavano i fondi paludosi, e s’intralciavano fittamente coi rami in
guisa da produrre un’ombra densissima. Al loro piede i vepri, le spine,
i vimini ingombravano il terreno; a cui si mescevano ne’ siti umidi,
canne e giunchi; ne’ più silvestri, rose e pruni selvatici. Su pei
tronchi serpeggiavano l’ellera, ed altre piante parassite, le quali
in varii luoghi slanciandosi come le liane da un albero all’altro,
attraversavano il cammino a guisa di verde tenda. Quivi eran piante
per vecchiezza cadute; altre là si sfasciavano ritte sulle morte
radici: tutto in somma nel folto di quella selva annunziava che la mano
dell’uomo non l’avea da gran tempo tocca.
Il Brescianino però frammezzo a quegli inviluppi s’avea messo per un
sentiero che non potevasi discernere che da chi n’aveva gran pratica,
il quale, aggirandosi in volte e rivolte per lo intrecciarsi delle
piante, conduceva fra levante e settentrione al centro del bosco. Gli
altri lo seguivano a varie distanze, spiando attentamente i di lui
moti, per iscorgere se mai per la selva vi fossero appiattate insidie.
E siccome ad ogni tratto da una parte o dall’altra, spaventati dal
rumore che essi facevano nel passare fra i rami e le foglie, sbucavano
dalle macchie fuggendo pel bosco o cerbiatti o lepri, e tra le fronde
svolazzavano uccelli, o saltellavano scoiattoli, Palamede e Aldobrado
si arrestavano insospettiti; chè pel vero accostumati siccom’erano a
percorrere le selve nel frastuono delle caccie, giammai fu loro dato
di udire quella pressa di animali, che il guaire de’ cani suol volgere
in fuga anzi l’arrivo del cacciatore: così tra l’aspetto selvaggio del
luogo e le antiche abitudini tenevano opinione di null’altro ritrovare
colà fuorchè silenzio profondo.
Dopo aver camminato lungo spazio di tempo fra un labirinto di piante,
giunsero ove il bosco, diradandosi, presentava un aspetto di solitudine
più gradevole; indi pervennero in un largo spazio verdeggiante, in
cui s’ergeva un’antica solitaria chiesa; chè tale parve sulle prime
a Palamede l’edifizio che gli si offerse dinanzi. Era questo una
rotonda non molto vasta che serbava le forme di un tempietto romano;
e scorgevasi che un tempo andava decorata in giro da ornamenti
architettonici, di cui però non apparivano qua e là che pochi avanzi.
Sull’ingresso, che era volto a ponente, stava un peristilio di gusto
gotico, il quale constava di una guglietta acuta sostenuta da quattro
sottili colonne, che appaiate s’appoggiavano alla base sul dorso di
due leoni, a cui o il tempo o gli accidenti aveano ad uno mozzato il
capo per intero, all’altro per metà. Sull’avanti della guglietta, in un
campo triangolare, stava effigiata a bassorilievo una donna incoronata,
rivolta verso un’altra figura di cui non si scorgeva più l’aspetto,
ed in giro vi erano alcune lettere scolpite, che nessuno di loro
seppe, o si curò di leggere. Palamede ammirò, compreso da una certa
meraviglia, quell’edifizio locato in un luogo sì solitario, e gli parve
destarglisi una sensazione, non dissimile da quel sacro orrore, che già
infondevano gli antichi templi che, per farne più solenne ai profani
l’avvicinamento, si ergevano nelle foreste.
Il Brescianino intanto era penetrato per la non difesa porta di quel
tempietto (che que’ ladri nel loro gergo chiamavano la _tana del
cervo_), allorchè diè d’un subito indietro, gridando spaventato:
«Il diavolo! il diavolo!» E s’intese in quel mentre come un lungo
e lamentoso ruggito partirsi dall’interno dell’edifizio. Tutti
arretraronsi sulle prime inorriditi, e ad Aldobrado un visibilissimo
pallore salì alle guancie; ma il Tencio, accortosi ben tosto di ciò che
fosse, alzò lo stocco che tenea fra le mani, e voltosi al Brescianino
disse: «Se tu andassi allo spiedo, siccome io vi metterò quest’oggi il
diavolo che sta là dentro, sarebbevi al mondo un vigliacco infingardo
di meno.» Resi impertanto avvertiti i compagni a star colle armi
preparati al colpire, si cacciò nel tempio. Palamede sguainò la spada;
Aldobrado, non avendo armi all’uopo, levò un grosso masso, uno dei
tanti ruderi caduti dall’edifizio e giacenti sull’erba; il Brescianino,
benchè ancor tremante dallo spavento, dirizzò il suo spiedo; e il
Carbonaio, che era giunto in quell’istante all’orlo della boscaglia,
subitamente arrestossi, alzando la scure. S’intese nel tempio gridare
il Tencio a tutta gola, al che successe un parapiglia, uno incalzarsi
rumoroso; indi si vide sbucare dalla porta un nero animale zannuto,
ed era un cinghiale, il quale, scoperti que’ che fuori lo attendevano,
tentò di arretrarsi; ma il Tencio, pungendolo collo stocco nel dorso,
lo costrinse ad uscire. I tre al di fuori gli furono addosso, e il
ferirono in varie parti; ma sarebbesi tuttavia recato in salvo, se
Aldobrado col colpo di pietra non gli spezzava una gamba, per cui venne
a cadere ai piedi del Carbonaio, che gridando «A me, a me!» gli spaccò
il cranio con un colpo di scure vibrato a due mani. Il Tencio rientrato
nel tempio, ne uscì portando nella destra sospesi per un piede due
cinghialini a pena nati; e ben si avvidero che l’ucciso animale era una
cinghialetta che colà avea deposto i suoi parti. «Male per chi va nella
tana del cervo che ha le corna di ferro (disse il Carbonaio, accennando
la scure): così per un po’ di giorni noi avremo l’arrosto. — Vedi come
abbiamo trattato il tuo diavolo?» soggiunse il Tencio volgendosi al
Brescianino, il quale presa la scrofa per una gamba se la trascinava
nel tempio, in cui tutti penetrarono.
Nude erano le interne pareti di quell’edifizio, e la volta dal lato
meridionale appariva diroccata: quivi trapelava per ampio foro la
luce. Il pavimento si offriva tuttora lastricato di marmi; e nel
suo mezzo si ergevano disposti in foggia quadrangolare dei massi che
formavano una specie di altare o d’ara, a cui si ascendeva per due in
allora sconnessi gradini. Recatisi dietro quest’ara, il Tencio e il
Carbonaio, l’uno collo stocco, l’altro colla scure, puntarono ad una
lastra di pietra, facendo sì che questa levandosi, aprisse il varco
ad una angustissima scala che metteva sotterra. Appuntellata la pietra
invitarono Palamede e Aldobrado a discendere, senza tema di sorta, in
quella che essi appellavano la _fontana_, di cui dissero mille elogi,
tanto per la freschezza che vi si godeva, di grande ristoro in quella
stagione, quanto per la sicurtà del nascondiglio. Discesero la scala
essi pei primi; chè d’alquanto furono ritrosi da principio il finto
frate e il cavaliere, cui mosse non lieve ribrezzo quell’entrare là
sotto; ma presa fidanza ne’ giuramenti dei ladri e nella guarantia
delle proprie armi, pronti alla fine vi si risolvettero. Ultimo a
discendere si fu il Brescianino, che calò al basso prima la uccisa
scrofa; indi, fatti alcuni gradini; levò il ferro che sosteneva la
pietra, la quale abbassatasi chiuse il sotterraneo.
Affatto tenebrosa parve a prima giunta quella sotterranea stanza ai
due che vi erano stranieri, e solo a’ loro orecchi risuonò un lieve
gorgoliar d’acqua. Scorsi alcuni istanti, e dileguatasi dalle loro
pupille la impressione della viva luce esterna, cominciarono ad
iscorgere varii fori praticati in giro delle pareti, per dove penetrava
uno scarso lume: indi si avvidero di trovarsi sotto una volta sostenuta
da due massiccie colonne, e il vano del sotterraneo corrispondere in
estensione al pavimento superiore del tempio: osservarono pure che
la scala per cui eran discesi girava a spira intorno ad una di quelle
colonne. Presso la parete in fondo, era un avello di marmo, da cui la
soverchiante acqua ricadeva con debile mormorio in sottoposto bacino,
e appese qua e là per le muraglie stavano armi ed altri arnesi. Nel
mezzo eravi un grosso tavoliere di legno, ed in giro vani sedili. «Qui,
signori miei (disse Tencio ai due che si erano seduti a canto di quella
tavola, guardando intorno con atti di meraviglia), qui voi potrete
abitare securi, anche sino a quando quella santa, di cui nessuno sa
il nome, abbia tratto la freccia.» E in così dire, accennò una rozza
scultura sulla volta, che rappresentava una Diana in atto di tender
l’arco. «Sappiate che niuno ha mai ardito di penetrare nella tana del
cervo, e molto meno qua sotto a ber di quell’acqua, da che Guandaleone
da Dongo, mio zio, detto l’Eremita bruno, venne a stabilirvisi,
al tempo che il signor Bernabò, fabbricando il castello di Trezzo,
chiuse nel parco la vecchia torre di Barbarossa, sua prima abitazione.
Perocchè Guandaleone era un uomo penitente, il quale non amava che tre
cose: sant’Uberto, di cui portava sempre seco l’imagine, la solitudine,
e la borsa dei passeggeri. — Ma che? di’ tu il vero? (esclamò Aldobrado
il quale al nome di Eremita bruno era balzato in piedi atterrito.)
Questa è la grotta dell’Eremita bruno? di quello spirito spaventoso
del bosco, di cui narravasi esserne così tremendo l’aspetto? di colui
che or prendeva le forme di un falco, or di un cinghiale, ora di una
vipera, per assalire spietatamente que’ che s’avessero la disavventura
di essere da lui veduti prima di scorgerlo. Dalla cui grotta narravasi
uscisse un fumo, il quale aveva il potere di incenerire chiunque vi
si accostasse? e però i contadini non solo, ma Bernabò, io stesso, e
tutta la gente di corte, quando scorgevamo per questo bosco levarsi in
qualche sito del fumo, recedevamo rapidamente. — Ah! Ah!» a que’ motti
diedero in uno scroscio di risa i tre ladri. «Il fumo, proseguì il
Tencio, non era che quello delle legne con cui egli faceva qui sotto
arrostire le lepri, che io stesso uccideva pel bosco; e que’ che si
accostavano, non rimanevano morti che per mezzo dell’asta uncinata che
là vedete, e colla quale il romito, mirandoli qui celato da quel foro,
sapea colpire sì bene da trapassare un uomo con maggiore destrezza
ch’io non faccia d’una lepre: così non era dato pur mai al tapino di
accorgersi da qual banda partisse il colpo. «E dove trovasi adesso
codesto terribile Guandaleone?» disse Palamede. «Qui sotto (rispose il
Tencio, percuotendo con un piede il terreno); ma credo che il diavolo
si porti via le ossa ad uno ad uno, perchè veggo qui ogni giorno,
abbassarsi il suolo. — E voi tre (riprese Palamede), a che veniste a
compagni di Guandaleone, se, come tu dicesti, o Tencio, egli amava la
solitudine?»
«Questi due (rispose Tencio) ci vennero quando l’anima di Guandaleone
era già volata in giù, mercè un colpo di lancia che un bravo sulla
strada di Vimercate, non volendo perdere il proprio denaro, seppe
vibrargli: sicchè appena ebbe forza di rientrare nel bosco, e
strascinarsi fin qui, dove innanzi al morire imposemi di seppellirlo
nello stesso luogo ove sarebbe spirato, il che ho eseguito appena ebbe
chiusi gli occhi, perchè non venisse la notte, urlando e fischiando,
a rompermi colle catene il sonno. Non erano allora che tre anni da
che io mi trovava con lui, e ciò fu per ben tenue cagione. Sappiano,
signori, che recatomi un giorno a Milano, andai con uno mio compare in
una taverna, entro cui venne pure un soldato, che sul morione[9] teneva
un bel pennacchio rosso. Mio compare, che amoreggiava Bertranda della
pusterla Fabbrica, alla quale piaceva il pungerlo del continuo, perchè
innanzi le comparisse con qualche ornamento della persona, pensò farsi
bello con quel pennacchio: lasciato che il soldato deponesse il morione
sopra un sedile, staccògli la piuma, e se la nascose fra le pieghe de’
scoffoni[10], che ricoprì col guarnello, accennandomi che partissimo.
Avevamo già tocco la porta, quando accortosi il soldato dello
smarrimento del suo pennacchio, si slanciò sovra ambedue, serrandoci
fra le sue braccia, e gridando: «Alla ruota i ladri! alla ruota!» Io
allora per divincolarmi gli menai sulla testa un colpo del mio martello
da fabbro, che sempre teneva appeso alla cintura, e lo feci cadere
colla fronte insanguinata sul pavimento: ma il taverniere frattanto
se ne era ito di fuori gridando «aiuto, soccorso!» e fe’ giugnere
alcuni uomini d’arme che stavano alla guardia del gonfalone di porta
Ticinese, i quali mentre s’impossessavano di mio compare, diedermi
campo di saltare per la finestra nel cortile di attiguo monistero, dal
quale rapidamente mi fuggii per la porta, e mi recai a salvamento. Due
ore dopo, il mio compare era già sulla ruota colle braccia e le gambe
spezzate ad assordare i corvi, e ad attendere dal carnefice il colpo
di grazia. Spaventato dal pericolo di vedermi frante le ossa, non volli
più fermarmi a Milano, e pensai far ritorno a Brivio nella mia fucina:
il giorno era già prossimo ad oscurare quando io mi posi in istrada;
camminai tutta la notte, sebbene la oscurità mi astringesse più volte
a sostarmi, e verso il mattino io mi trovai un po’ al disopra di
Gorgonzola lungo la Molgora, ed al limitare di questo bosco. Procedendo
allora più veloce nel cammino, m’abbattei in un uomo assai bruno in
viso, e vestito da eremita, il quale guardatomi fisamente, mi disse:
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