Il castello di Trezzo: Novella storica - 08
Total number of words is 4444
Total number of unique words is 1876
33.4 of words are in the 2000 most common words
48.0 of words are in the 5000 most common words
54.7 of words are in the 8000 most common words
trasse un rumor forte. A quelle busse s’affacciò il portiere ad uno
spiatoio, e addomandò chi fosse; «Sono Palamede (disse il cavaliero);
non mi riconosci, o Gottardo?» Gottardo il riconobbe, e corse colle
grosse chiavi a disserrare la porta e spalancare i battenti. Al cigolar
di questi, al calpestio de’ cavalli sul lastricato del cortile, tutti
gli abitanti della casa furono in moto: in un istante la novella
dell’arrivo di Palamede vi si sparse; molti doppieri risplendettero
sulle scale e sulle finestre. Leone e Guido, figli del marchese Azzo,
discesero rapidamente all’incontro del cavaliero che amavano più che
fratello, e si precipitarono l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo
lunghi amplessi, Palamede, salendo le scale fra loro e le altre persone
della casa, entrò nella sala ove l’attendevano Azzo colla moglie
Ricciarda, che l’abbracciarono teneramente, ed Adelaide loro figlia,
la quale arrossendo ricevette e gli porse sulla fronte un fraterno
bacio. Al primo sfogo di un’affezione viva e sincera succedette uno
scambio d’inchieste e di risposte, ed uno interessarsi a vicenda
delle disavventure e delle prosperità, che avrebbe protratto quel
conversare troppo a lungo, se non fosse stato interrotto da Ricciarda,
che consigliò Palamede a ritrarsi al riposo, di cui già da molto
tempo abbisognava, e che in quella notte a causa della ferita, della
cui doglia si risentiva, e dell’agitazione dell’animo, ardentemente
bramava.
CAPITOLO VII.
La bellicosa ampia Milan di lieti
Inni eccheggia, e di cantici devoti.
Splendon del maggior tempio le pareti
Per cento fiammeggianti auree lumiere.
GROSSI.
Allorchè Palamede schiuse gli occhi dal sonno, che avea ristorate le
sue forze e recatagli la calma nel cuore, splendeva già il sole sul
rustico muro che di prospetto alla finestra della sua camera chiudeva
il giardino. La luce, gli addobbamenti, gli arnesi che ornavano
quella stanza, destarono un’impressione vivissima nel suo spirito,
che rinfrancato dal riposo si riaprì pieno di sensibilità alle tenere
sensazioni. Ancora fanciulletto avea Palamede perduti entrambi i
genitori. Alberto de’ Bianchi, conte di Velate, suo padre, essendo
stato creato console di giustizia della città di Milano, era perito,
vittima dello zelo pel pubblico bene, nella peste che desolò questa
città nel 1361; e sua madre Gella Pusterla scese col marito nella
tomba, uccisa dal velenoso miasma che le sue cure per lui le avevan
fatto assorbire. Alberto andava congiunto in istretto parentado con
Ricciarda, venuta allora a nozze col marchese Azzo Liprando, uno
de’ più fidati di lui amici, per cui, vicino a spirare, fece ad essi
loro consegnare l’infante Palamede, affidandogli la cura d’educarlo
e d’amministrarne il ricco patrimonio. Troppo era sacra pel generoso
Liprando la parola d’un moribondo amico, onde egli ne tradisse i voti
usurpando gli averi, o trascurando pensatamente il suo pupillo: ciò
che in que’ tempi sarebbe stato per un iniquo assai facile impresa,
poichè ne porgevano agevoli mezzi e i molti chiostri, in cui racchiusi
giovinetti inesperti venivano con lusinghe o spaventi forzati a vestir
l’abito monacale, ed a rinunziare a doviziose sostanze, e i facili
raggiri forensi in tanta confusione e assurdità di leggi, e le molte
guerre, in cui se aizzato con mal consiglio un giovane guerriero
rimaneva indubitatamente estinto. Azzo all’incontro tenendo sempre il
giovinetto Palamede presso di se, ne coltivò con tutto il potere il
mansueto animo, lo svegliato e dolce ingegno, la destrezza e la forza;
e fece di lui uno de’ più compiti giovani signori di quell’età, che a
tutti veniva proposto a modello di bravura nelle armi e di moderatezza
e leggiadria di costume. Tante doti e il suo candido animo l’avean reso
assai caro a tutte le persone di quella famiglia, dove era amato qual
figlio e qual fratello, e nella cui casa, prima della sua guerriera
spedizione, avea sempre dimorato.
Quante aurore nella sua infanzia e ne’ primi anni della giovinezza
lo avevano veduto in quella camera istessa, nella quale nulla era
alterato, risvegliarsi, colmo il cuore del sentimento felice che
abbella la prima esistenza, e di cui non si perde mai la rimembranza,
o colla mente assorta nei pensieri della gloria dell’armi, o nella
speranza e le gioie d’amore! Trapassò al cavaliero come un lampo fugace
della fantasia la memoria delle sue lontane imprese, e di ogni fatto
accaduto; e ripensando ai dolci momenti che prima della sua partenza
egli aveva in Milano e in quella istessa casa trascorsi, immerso nel
pensiero della sua Ginevra, gli sembrava che l’ora consueta battesse
in cui concesso gli era vederla nel di lei palazzo; e stava in questa
soave illusione, quando un rumoreggiare di turbe e gridi di _Viva
Giovan Galeazzo_, _Viva il conte di Virtù_, che a lui dalla sottoposta
contrada salivano, gli ridestarono con maggior vigore l’amara
riflessione della realtà: onde un dolor cupo l’invase, poichè pensò al
suo ed al destino della fidanzata prigioniera.
Al tumultuare del popolo, ch’ora s’allentava, ora andava crescendo,
si frammischiò il tintinnare delle campane delle chiese vicine e
delle lontane torri. Palamede stette sulle prime in forse, fosse nata
qualche sollevazione di plebe; ma distinguendo fra i suoni, a cui porse
attento orecchio, il tocco grave e rimbombante della campana del gran
consiglio, si persuase che dovea essere la chiamata a radunanza degli
ottocento, onde stabilire qualche nuova legge o statuto: per tale fatto
egli determinossi di recarsi fra il popolo, o riunirsi, secondo avrebbe
dato il caso, agli uomini d’armi della sua parrocchia, di cui era uno
de’ capitani, e al possedimento del qual grado tanto maggior titolo
s’aveva per la fama di valoroso ed esperto acquistata nelle guerre
dei Veneziani. Così operando, rifletteva fra se, gli sarebbe dato
scoprire quali pensieri nutrissero i Milanesi intorno alla loro nuova
signoria; e se nulla egli poteva intraprendere a favore di Bernabò,
avrebbe cercato almeno di guadagnar l’animo d’alcuno fra quelli che
avvicinavano il principe, onde ottenere che gli fosse conceduta in
isposa Ginevra.
Entrarono in questo mentre i servi nella stanza di lui ad abbigliarlo,
ed egli fece chiamare Enzel Petraccio, il quale si presentò recando
una fiala d’acqua ch’ei diceva portentosa, onde rimedicargli la ferita
del braccio, già quasi all’intutto rimarginata. Allorchè furono i
servi allontanati, «Da che proviene (disse il cavaliero all’aríolo)
il gridare di popolo e suonar di campane che già da qualche tempo mi
ferisce l’orecchio? — Oh! (rispose Enzel) non vi potete immaginare,
signor cavaliero, qual movimento ci sia quest’oggi in Milano! da
che provenga, di certo io ancora non lo potei scoprire; ma parmi da
ciò che si va narrando qua e là, che sia a causa delle novità che il
signor Giovan Galeazzo ha ordinate, le quali debbono riuscire molto
gradite a questa gente. — Pur troppo (mormorò fra se Palamede) Bernabò
lasciò largo e facile campo a chi gli successe nel dominio di farsi
amare dai soggetti!... — Per tutto (proseguì l’aríolo) s’incontrano
uomini e donne festeggianti e genti allegre che fanno gli evviva; per
tutto veggonsi ricchezze, che sembra che l’oro e l’argento sian caduti
dalle nuvole; i soldati delle porte e delle parrochie hanno pulite le
loro armature e infisse le penne nei morioni; i capitani si scorgono
risplendenti come soli; le tuniche nere dei signori del consiglio
appaiono in ogni strada, e dicesi che l’arcivescovo, i vicarii di
provvisione e il podestà s’abbiano a raccogliere nel broletto nuovo.
Non vi saprei ben dire quanti forestieri trovansi ora in questa
città, tanto si è il loro numero: Pavesi, Veneziani, Francesi, se ne
incontrano assai. Basta ch’io vi narri che a causa della solennità di
questo giorno, per sino messer Beltramo speziale avea tutta adorna la
sua bottega con paramenti, quand’io v’entrai per comperar quest’acqua,
segreto mirabile che possiede egli solo, e mi narrò, che deve verso
il mezzodì recarsi a Sant’Ambrogio, per porsi a fianco di maestro
Arnolfo capo del Paratico degli speziali, il quale ha ad assistere
al gran consiglio. — Ho grand’uopo, in questo giorno, dell’opera
tua (l’interruppe Palamede abbassando la voce, e dispiegandola in
modo d’additargli che gli confidava un importante incarico); tu devi
recarti fra il popolo, ascoltare, penetrare, interrogando ciò che si
pensa di Giovan Galeazzo e Bernabò e ritenere quanto si va dicendo
di questo e di quello; scoprire, se puoi, quali siano i partigiani
dell’uno e dell’altro, ed isvelare se il principe prigioniero possegga
ancora qualche caldo amico; devi spiare cosa sente il nuovo signore
ed i suoi, de’ partigiani di Bernabò, e se contro questi si tramino
sorprese o tradimenti; e fra i forestieri devi porgere orecchio per
udire se qualcuno mal vegga questa usurpazione di stati, e se ne
mediti vendetta: in somma cerca di scoprire i pensieri, i divisamenti
del popolo, dei signori, degli estranei, per riportarmeli fedelmente,
poichè tutto io mi prometto dalla fina arte tua. — Non dubitate, signor
Palamede, io farò tutto quello che sarà in mio potere per compiacervi;
poichè vi assicuro che tanto la vostra, quanto la felicità della
signora Ginevra mi stanno veramente a cuore — Ebbene sappi (rispose
Palamede a tai detti, stringendogli una mano affettuosamente), quanto
io ti debbo per avermi salvo da un assassinio, sarà un nulla nella
misura della mia riconoscenza a fronte di quanto meriterai da me se
giungerò per tuo mezzo ad ottenere la figlia di Donnina.»
Dopo queste parole, l’aríolo, fatta riverenza al cavaliero, pieno di
allegrezza per la persuasione che possedeva la confidenza e l’affezione
di lui, uscì aguzzando gli occhi, tutto in se raccogliendosi, torcendo
il collo ed avanzandolo, come se si trovasse di già fra la moltitudine
di cui dovea osservare i moti e raccogliere le parole. Palamede,
preceduto da un valletto, lasciò le sue camere e recossi nella sala
dove l’attendeva la famiglia di Azzo.
Quivi entrato abbracciò Leone e Guido, ed a Ricciarda, che amorosamente
qual madre l’accogliea, baciò con trasporto la mano. S’immaginò
bentosto la cagione per cui vedeva Guido involto in una bruna zimarra
col nero berretto del consiglio, e Leone vestito a tutto punto d’una
armatura lucente colle piume ondeggianti sul cimiero. Stava per
ritrarne, interrogandoneli, più certa cognizione, allorchè spalancati
i battenti della porta entrò colà il marchese Azzo. Una ricca veste
di colore scarlatto broccata in oro lo ricopriva, e vedevasi su di
essa nella parte che gli vestiva il petto, da destra ricamato lo
scudo argenteo di Milano colla croce rossa, da sinistra due vipere
ondeggiate, collocate paralellamente in senso opposto, chiuse in gira
da questo motto in caratteri gotici colore di sangue: _Vipera victrix
audet_, lo che era lo stemma della famiglia Liprando; tenea sul capo
un berretto pure scarlatto con fiori d’oro, sotto cui rìcadeangli sul
collo le chiome che incominciavano a incanutire; a fianco gli pendea
una lunga spada in ricca guaina, e tale era l’abito dei vicarii di
provvisione, uno de’ quali era appunto il marchese Azzo. I figli e
Palamede al suo apparire gli si fecero incontro ad abbracciarlo; il
marchese rendendo l’amplesso, e fissando con molta compiacenza gli
occhi in volto a Palamede, ad un tratto si turbò, scorgendogli nelle
pupille le lagrime che stavano per ispuntare. Palamede abbassò il
capo; Leone e Guido si fecero muti, e tutti intesero qual segreta causa
spingeva sul ciglio di lui quella stilla involontaria di pianto.
«Mio diletto figlio (rompendo pel primo il silenzio, disse il marchese
con voce affettuosa rivolto a Palamede), conosco che tu sei già fatto
consapevole del grande avvenimento che cangiò le sorti nostre e di
tutta questa città, per cui vedi che siamo stati in oggi chiamati
a riordinare e creare nuovi statuti, onde migliorare le condizioni
generali della nostra patria. Se la mano di Dio e del glorioso
Sant’Ambrogio hanno gravitato sul capo di Bernabò, egli, è d’uopo
confessarlo, provocò questo castigo colle sue azioni, poichè eravamo
oramai da’ suoi capricciosi scialacquamenti, dalle sue tirannie e dalla
prepotenza de’ suoi figli ridotti agli estremi; nè sicurezza di vita,
di sostanze o di onore più ci rimaneva. Ciò che al cuore veramente
mi pesa, si è che la marchesa Donnina de’ Porri, mal fidente nella
moderazione del conte di Virtù, s’abbia condotta seco in prigionia la
tua Ginevra. Pensai quanto recasse affanno a lei l’essere strascinata
lontana da queste sue native mura, pressochè nello stesso istante in
cui tenea per fermo che il tuo ritorno avrebbe coronate le sue vive
speranze; e sento per te quanto t’angosci una sì ardente brama delusa,
da poi che tanto ti eri adoprato ad ottenerla. Ma ti conforta, mio
Palamede, e t’assicura: Giovan Galeazzo è principe umano, saggio,
generoso, egli non vorrà or certo opporsi a’ tuoi desiderii negando
concederti che ritrar possi dal castello Ginevra; nè ciò ti negheranno
Bernabò e Donnina che teco l’han fidanzata. Io, te ne accerto, non
poserò in quiete il capo sugli origlieri che non abbia con tutte le
posse adoperato per ottenerti la donna che il tuo cuore ha scelta a
compagna.»
A tali parole, che la dolce ed autorevole voce e la fisonomia
imponente, ma nel tempo stesso assicurante, del marchese rendevano
insinuanti e solenni, il cuore di Palamede fu penetrato da consolatrici
riflessioni che lo riapersero alla speranza: quindi il rasserenarsi
dell’anima si palesò sul di lui volto con un sorriso, e Guido e
Leone gli si accostarono, parlandogli ciascuno della bontà di Giovan
Galeazzo, e traendone sicuro argomento che avrebbe ottenuta l’amata
fanciulla. Ricciarda e la figlia Adelaide avevano, siccome il lungo
amichevole affetto ad esse imponeva, appressate Donnina e Ginevra
sino agli ultimi momenti in cui eran rimaste libere in Milano; e fu
innanzi a loro che l’innamorata donzella diè libero sfogo alla piena
di dolore che opprimeva il suo cuore, lacerato dall’orribile idea
di essere condotta lontana, e forzata, come ella pensava, a perdere
per sempre l’oggetto dell’amor suo più ardente, alla cui mano per
le nuziali promesse avea acquistato diritto. Avevano esse miste le
loro alle lagrime di Ginevra, ed ogni via tentata per consolarla,
ma vanamente: per cui, quando videro Palamede trafitto dall’angoscia
della di lei perdita, cedere al pianto, nella mente loro s’appresentò
l’immagine della desolata Ginevra; e vivamente commosse dalle sventure
di que’ fidanzati, intenerite, a grave stento frenavano i singhiozzi
e le lagrime; ma al racconsolarsi di Palamede per le parole di Azzo,
esse pure si allegrarono, sperando che un giorno esso sarebbe felice;
ed Adelaide a lui s’appressò con seducente ingenuità, e fisandogli in
viso gli occhi ancor umidi di pianto, disse: «La tua Ginevra m’impose
d’invocare ogni giorno dalla Vergine il tuo ritorno, e ti assicuro che
mai non passò sera che io prostrata innanzi alla sua immagine, a cui
offriva i più freschi fiori, non gli chiedessi con tutto il fervore
una tal grazia, ed ella m’esaudì, ed esaudì pure nostra madre, che
tante volte mi guidò nella chiesa a pregar seco per la tua salute.»
Palamede affettuosamente abbracciandola palesò a lei, a Ricciarda e ad
Azzo la sua gratitudine per la cura che di lui s’eran presa, e disse
a Leone che bramava, qual capitano dei militi della parrocchia, porsi
in arnese guerriero, ed uscire seco lui ond’essere spettatore della
radunata del gran consiglio, se però l’essere stato uno degli amici
di Bernabò non gli poteva attirare l’odio o le insidie dei governanti.
Leone gli rispose che erano stati prescelti alcuni de’ capitani d’armi
per accompagnare i gonfaloni delle Porte al Broletto nuovo, e ch’esso,
come uno de’ più distinti, ne verrebbe ricercato; e l’assicurò che
scacciati i figli di Bernabò e i ministri delle loro perfidie, nessun
altro cittadino era stato molestato; per cui poteva ciascuno vivere
tranquillo, e più di ogni altro gli uomini valorosi, pe’ quali il Conte
di Virtù avea grande stima. S’allontanò Palamede, e ritornò coperto
delle sue armi, portando a tracolla la ciarpa azzurra, dono di Ginevra,
da cui pendeva la ricca sua spada; s’accompagnò con Leone, e, seguito
dagli scudieri, lasciò il palazzo.
Era prossima la metà del giorno, e le campane ripetevano coi romorosi
suoni la chiamata al gran consiglio. Per tutte le molte strade che
conducevano da Sant’Ambrogio al Carrobbio di Porta Ticinese, di là
per San Giorgio alla Piazza del Broletto nuovo (ora de’ Mercanti)
era un’onda di popolo innumerevole. Dovea l’arcivescovo, che
trovavasi essere in quell’epoca Antonio di Saluzzo, assistere coi
principali del clero alla grande adunata. Abitava esso nel monastero
di Sant’Ambrogio, imperocchè il palazzo arcivescovile, che sorgeva
poco lungi dall’attuale, ma più dal lato di santo Stefano, ruinoso
e disadorno com’era, non offriva una degna abitazione a sì eminente
prelato. Al tempio di Sant’Ambrogio s’eran quindi recati sei vicarii di
provvisione, un distinto numero di consiglieri, consoli di giustizia,
rettori della comunità scelti da ogni porta, e due vicarii del principe
Giovan Galeazzo, onde assistere alla celebrazione de’ divini ufficii,
indi condurre l’arcivescovo alla sala del consiglio. Dopo avere con
gran pompa Antonio compite le sacre funzioni, s’avviò col numeroso
seguito al Broletto.
Sui terrazzi delle case, sui balconi e sotto gli acuti archi delle
finestre stavano affollati i fanciulli e le donne spettatrici del
generale movimento, e in attenzione del passaggio dell’arcivescovo
colla sua nobile comitiva. Ai balconi de’ palazzi scorgeansi le dame
e le ricche donzelle far gran mostra di drappi d’oro, di piume, di
cinti e catenelle, ed aversi da un lato panieri di fiori, onde tenere
profumata l’aria d’intorno. Anche nelle case però de’ meno agiati
cittadini e della plebe miravansi le donne non prive di ornamenti, ed
alcune portare assai preziosi gioielli: il che non doveva a que’ giorni
recar meraviglia, poichè nel sacco dato dal popolo ai palagi di Bernabò
che era la rocca di Porta Romana, ed a quelli de’ suoi figliuoli,
furono rinvenuti ed involati gioielli, addobbamenti, preziose vesti
e suppellettili pel valore di molte migliaia di fiorini d’oro, oltre
ingenti somme di denaro, e ciò tutto era passato nelle mani delle
persone del popolo e de’ cittadini.
Quel luccicare dell’oro e delle gemme, lo splendore delle vesti per
le finestre ed i balconi, che si prolungava variatamente lungo le
pareti delle contrade, ottenea vivace risalto dal contrasto che vi
faceano i bruni colori delle rozze muraglie delle case, delle chiese,
de’ palazzi, le quali ove erano costrutte di pietre le aveva il tempo
annerite, ed ove formate di mattoni, si lasciavano senz’intonaco, chè
così volea l’uso de’ tempi: quindi gli edifizii nuovi rosseggiavano, e
i vecchi imbrunivano a norma dell’età rispettiva.
La folla eziandio, nelle vie stivata, non presentava il monotono
aspetto che a’ nostri giorni offrono le adunate di gente per il quasi
uniforme moderno vestire d’ogni classe di persone tanto ne’ colori
degli abiti che nella forma. Era in quell’epoca una varietà grandissima
di maniere e di coloriti; e sempre o nelle armi o negli adornamenti
risplendevano i metalli, il che ammirabile e svariatissimo spettacolo
porgeva, atto a recare una viva e profonda impressione, ne’ nostri
tempi svanita.
Vedeansi in allora uomini d’armi tutti ruvidi di ferro dai capelli
alla punta de’ piedi; e diverse erano le forme delle armature, poichè
l’uno copriva il capo col semplice elmo, ed aveva giaco di maglia;
l’altro portava visiera e gorgiera a lamine sovrapposte, e corazza
d’acciaio; questi tenea cimiero cesellato con piume ondeggianti, e
quello berretto di ferro puntuto; spade, targhe, brandistocchi pendeano
a’ fianchi, sospesi a ciarpe e pendagli di varii colori. I nobili,
i semplici cittadini e gli artigiani vestivano abiti con proprie
foggie, e scorgevansi agli uni sopravvesti guernite di pelliccie e
di passamani di molte maniere; agli altri, guarnelli, farsetti a più
colori, e brache che aderivano alle membra, o s’allargavano alle coscie
smisuratamente: collari larghi ed elevati, berretti ora acuminati, or
distesi, variatamente tinti, diversificavano gli abbigliamenti delle
molte classi di patrizi, ricchi ed artieri. Così eran pure distinti
i magistrati ed i dottori per le toghe e le assise. Ma ciò che fra
tanta diversità di costumi produceva un singolare contrasto, si erano
gli abiti de’ numerosi frati, de’ confratelli, de’ pellegrini e degli
uomini della plebe. Per le vie talvolta scorgevasi un eremita curvato
dagli anni, coperto il dosso da un rozzo saione olivastro, e il capo
d’un largo cappuccio, la di cui incolta barba e il macilento viso
mostravano la rigida astinenza, collocato fra un baldo guerriero
lucente d’acciaio, e un patrizio sfolgorante per drappi d’oro,
porgere una vivente immagine congiunta della forza, della umiltà,
dell’orgoglio. In quella età, meno dal sociale attrito contusi e
rammorbiditi i costumi, i sentimenti animavano gli spiriti ed i volti
d’un’aria originale e caratteristica: maniere franche, risolute, e
fors’anco fiere, lineamenti risentiti, variati e pittorici, e gli
abbigliamenti che davano alle forme un piccante risalto, manifestavano
lo spirito d’un secolo incolto, pregiudicato e feroce, ma in cui però
erano passioni ardentissime, affetti infrenati e robusti, e un non so
che di più vivo, animato e risentito delle altre successive età.
Il Broletto nuovo, verso cui dirigevasi tutta la folla del popolo,
era il palazzo del comune o del podestà, perchè colà questi abitava:
contenea esso la loggia degli Osii, che è quell’antico edifizio che
ancora esiste nella parte meridiana della Piazza de’ Mercanti, adorno
d’antiche statue di santi, ed in una fascia, sul prospetto del quale
vedonsi scolpiti degli scudi con varii stemmi, che erano quelli delle
diverse porte di Milano. Antichissimo fabbricato era quello, e venne
nel 1316 ristorato, abbellito ed ampliato da Matteo Visconte, il
quale, fatte atterrare molte casupole che lo deformavano, lo ridusse
ad un vasto edifizio oblungo ed isolato, che da San Michele al Gallo
si prolungava sino al vicolo della Foppa. Era in esso una grandissima
sala in cui si radunava il consiglio degli ottocento, e contenea con
quella del podestà l’abitazione de’ suoi ufficiali: s’aveva congiunta
una piccola chiesa dedicata a Sant’Ambrogio, e gli sorgea nel mezzo una
quadrata torre, su cui stava una grossa campana e tre altre più piccole
per chiamare a raccolta i consiglieri ed il popolo. Dalla parte ove ora
sta l’archivio notarile, la piazza era affatto sgombra e si stendea
sino al cominciare di Santa Margherita, cinta intorno di alte case e
palagi; questa piazza era destinata a contenere il popolo accorrente ad
intendere le decisioni del consiglio.
Zeppa per la moltitudine era quella piazza, quando il ridestarsi più
rumoroso del suono delle quattro campane della torre, e lo stivarsi
più fitto della folla, annunziò l’avvicinarsi dell’arcivescovo.
Precedevano que’ ch’eran puri membri del consiglio, seguivano questi
i consoli di giustizia, i quattro vicarii di provvisione, indi i
priori, gli abbati de’ principali conventi, ed i sacerdoti maggiori
delle basiliche di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e Santa Maria Iemale;
dietro a questi veniva l’arcivescovo sovra un bianco cavallo, con
gualdrappa d’oro e ricchissima bardatura, guidato a mano da un giovine
patrizio pomposamente vestito, con bianchi guanti di serica stoffa
ricamata in oro; ai lati del cavallo stavano i due vicarii di Giovan
Galeazzo, e due di provvisione, e dietro altri monaci, sacerdoti,
magistrati e municipali. Seguivano la comitiva i vessilli delle sei
principali porte della città, portati ciascuno da un gonfaloniere,
fiancheggiato da quattro capitani d’armi delle quattro più distinte
parrocchie d’ogni porta. Precedeva il vessillo di Porta Ticinese,
ch’era una candida bandiera con asta d’oro, e questo fu il primo,
siccome quello che apparteneva ad una parte della città già soggetta
alla signoria di Giovan Galeazzo prima del consolidamento in lui di
tutto il dominio di Milano; quindi non volle andar a paro con quello
di Porta Orientale, come soleva per lo addietro, perchè il signore di
questa era caduto: onde l’Orientale veniva seconda, portando nel suo
vessillo un leon nero. Notavansi fra i capitani d’armi, che seguitavano
questo vessillo, Palamede e Leone, il primo de’ quali per la lunga
assenza, la ricca armatura, il nobile e mesto aspetto s’attraeva gli
sguardi della moltitudine; seguiva lo stendardo di Porta Vercellina,
ch’era bruno con una bianca stella; poscia quel rosso di Porta Romana;
indi lo scaccato bianco e rosso di Porta Comasina, e finalmente il
vessillo di Porta Nuova col leone bianco; chiudevano la comitiva gli
anziani de’ Paratici, ossia capi delle università delle arti, gli
operai di ciascuna delle quali, come barbieri, armaiuoli, tessitori,
fabbri, pellicciai, avevano un capo o maestro, che era loro giudice
e presidente, ne decideva le controversie e manteneva i diritti. Il
podestà, ch’era Liarello da Zeno, veneziano, accompagnato da’ suoi
militi ed ufficiali, venne al peristilio della maggior porta del
palazzo per farsi incontro all’arcivescovo, il quale, disceso dal
suo cavallo, offrì al bacio del podestà l’anello che tenea in dito
contenente una rara reliquia, e dopo essersi rivolto a benedire il
popolo che stava prostrato, entrò, con tutti quelli che ne formavano il
seguito, nel gran consiglio.
Cessò in quell’istante il rimbombare dei bronzi, e quattro trombettieri
con trombe d’argento, ed altrettanti banditori, sopra i cui cappelli
stavano alte piume, apparvero sulla loggia del palazzo. Si fece
universale silenzio, ed essi annunziarono che il gran consiglio dava
incominciamento alle decisioni.
Una sana e previdente politica, anzi direm piuttosto il solo amor
dell’ordine, tanto necessario nelle cose di pubblico momento, non
avevano fino a quell’epoca portata luce alcuna o chiarezza nella
direzione delle città e dei popoli. Il principe, sdegnando i consigli
d’una scelta di personaggi sapienti ed esperimentati, dettava a
capriccio assurdi ed ingiusti decreti; un’unione di uomini ignoranti
o servili che rappresentava la popolazione, riceveva, o rigettava
tumultuariamente, contendendo sulle leggi e gli statuti ciò che
quasi sempre le era svantaggioso. Le armi, le rapine, i patiboli
costringevano i meno resistenti a sostenere il carico di enormi spese
fatte per guerre ingiuste, per lusso esorbitante, per largizioni
delittuose. Non registrazione di pubblici atti, non raccolte o
promulgazioni di leggi e prescrizioni: per tutto era un operare alla
cieca, un eludersi e paralizzarsi di forze mal dirette, e un dominare
dell’astuzia, della ribalderia, della prepotenza. Se pubbliche calamità
o penuria affliggevano i popoli, si consultavano del rimedio gli
astrologi, che da sognate combinazioni di pianeti, dall’apparizione
di sanguigne comete, o dalle meteore facean sempre derivare i mali di
questa terra; si erigevano chiese e conventi, e si trascuravano tutti
gli altri mezzi che poteano recare riparo o salvezza.
Bernabò non ebbe mai più di due vicarii e tre consiglieri; non volle
segretarii, scrittori, persone istruite in somma che tenendo conto
delle entrate, dei consumi della corte e della nazione, ne accennassero
le fonti, le cause, e ne dirigessero i modi. Suo fratello Galeazzo,
padre di Giovan Galeazzo, dotato d’uno spirito intraprendente,
ingegnoso, pel primo pensò che gli uomini scienziati potevano giovare,
concorrendo allo sviluppo delle ricchezze, del commercio, della
popolazione, ad ingrandire la potenza del principe. Spinto da tale
considerazione e dal consiglio di alcuni letterati e filosofi de’ suoi
tempi, e in ispecie da Signorello Amadio e Baldo giureconsulti, da
Emanuello Crisolora bizantino e da Ugo sanese, diede principio alla
famosa università di Pavia, ch’era la capitale de’ suoi stati; quivi
raccolse con generosi stipendii molti uomini dotti, ed aviò la gioventù
alle scientifiche discipline.
Giovan Galeazzo, la cui mente profonda e intellettiva era stata,
spiatoio, e addomandò chi fosse; «Sono Palamede (disse il cavaliero);
non mi riconosci, o Gottardo?» Gottardo il riconobbe, e corse colle
grosse chiavi a disserrare la porta e spalancare i battenti. Al cigolar
di questi, al calpestio de’ cavalli sul lastricato del cortile, tutti
gli abitanti della casa furono in moto: in un istante la novella
dell’arrivo di Palamede vi si sparse; molti doppieri risplendettero
sulle scale e sulle finestre. Leone e Guido, figli del marchese Azzo,
discesero rapidamente all’incontro del cavaliero che amavano più che
fratello, e si precipitarono l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo
lunghi amplessi, Palamede, salendo le scale fra loro e le altre persone
della casa, entrò nella sala ove l’attendevano Azzo colla moglie
Ricciarda, che l’abbracciarono teneramente, ed Adelaide loro figlia,
la quale arrossendo ricevette e gli porse sulla fronte un fraterno
bacio. Al primo sfogo di un’affezione viva e sincera succedette uno
scambio d’inchieste e di risposte, ed uno interessarsi a vicenda
delle disavventure e delle prosperità, che avrebbe protratto quel
conversare troppo a lungo, se non fosse stato interrotto da Ricciarda,
che consigliò Palamede a ritrarsi al riposo, di cui già da molto
tempo abbisognava, e che in quella notte a causa della ferita, della
cui doglia si risentiva, e dell’agitazione dell’animo, ardentemente
bramava.
CAPITOLO VII.
La bellicosa ampia Milan di lieti
Inni eccheggia, e di cantici devoti.
Splendon del maggior tempio le pareti
Per cento fiammeggianti auree lumiere.
GROSSI.
Allorchè Palamede schiuse gli occhi dal sonno, che avea ristorate le
sue forze e recatagli la calma nel cuore, splendeva già il sole sul
rustico muro che di prospetto alla finestra della sua camera chiudeva
il giardino. La luce, gli addobbamenti, gli arnesi che ornavano
quella stanza, destarono un’impressione vivissima nel suo spirito,
che rinfrancato dal riposo si riaprì pieno di sensibilità alle tenere
sensazioni. Ancora fanciulletto avea Palamede perduti entrambi i
genitori. Alberto de’ Bianchi, conte di Velate, suo padre, essendo
stato creato console di giustizia della città di Milano, era perito,
vittima dello zelo pel pubblico bene, nella peste che desolò questa
città nel 1361; e sua madre Gella Pusterla scese col marito nella
tomba, uccisa dal velenoso miasma che le sue cure per lui le avevan
fatto assorbire. Alberto andava congiunto in istretto parentado con
Ricciarda, venuta allora a nozze col marchese Azzo Liprando, uno
de’ più fidati di lui amici, per cui, vicino a spirare, fece ad essi
loro consegnare l’infante Palamede, affidandogli la cura d’educarlo
e d’amministrarne il ricco patrimonio. Troppo era sacra pel generoso
Liprando la parola d’un moribondo amico, onde egli ne tradisse i voti
usurpando gli averi, o trascurando pensatamente il suo pupillo: ciò
che in que’ tempi sarebbe stato per un iniquo assai facile impresa,
poichè ne porgevano agevoli mezzi e i molti chiostri, in cui racchiusi
giovinetti inesperti venivano con lusinghe o spaventi forzati a vestir
l’abito monacale, ed a rinunziare a doviziose sostanze, e i facili
raggiri forensi in tanta confusione e assurdità di leggi, e le molte
guerre, in cui se aizzato con mal consiglio un giovane guerriero
rimaneva indubitatamente estinto. Azzo all’incontro tenendo sempre il
giovinetto Palamede presso di se, ne coltivò con tutto il potere il
mansueto animo, lo svegliato e dolce ingegno, la destrezza e la forza;
e fece di lui uno de’ più compiti giovani signori di quell’età, che a
tutti veniva proposto a modello di bravura nelle armi e di moderatezza
e leggiadria di costume. Tante doti e il suo candido animo l’avean reso
assai caro a tutte le persone di quella famiglia, dove era amato qual
figlio e qual fratello, e nella cui casa, prima della sua guerriera
spedizione, avea sempre dimorato.
Quante aurore nella sua infanzia e ne’ primi anni della giovinezza
lo avevano veduto in quella camera istessa, nella quale nulla era
alterato, risvegliarsi, colmo il cuore del sentimento felice che
abbella la prima esistenza, e di cui non si perde mai la rimembranza,
o colla mente assorta nei pensieri della gloria dell’armi, o nella
speranza e le gioie d’amore! Trapassò al cavaliero come un lampo fugace
della fantasia la memoria delle sue lontane imprese, e di ogni fatto
accaduto; e ripensando ai dolci momenti che prima della sua partenza
egli aveva in Milano e in quella istessa casa trascorsi, immerso nel
pensiero della sua Ginevra, gli sembrava che l’ora consueta battesse
in cui concesso gli era vederla nel di lei palazzo; e stava in questa
soave illusione, quando un rumoreggiare di turbe e gridi di _Viva
Giovan Galeazzo_, _Viva il conte di Virtù_, che a lui dalla sottoposta
contrada salivano, gli ridestarono con maggior vigore l’amara
riflessione della realtà: onde un dolor cupo l’invase, poichè pensò al
suo ed al destino della fidanzata prigioniera.
Al tumultuare del popolo, ch’ora s’allentava, ora andava crescendo,
si frammischiò il tintinnare delle campane delle chiese vicine e
delle lontane torri. Palamede stette sulle prime in forse, fosse nata
qualche sollevazione di plebe; ma distinguendo fra i suoni, a cui porse
attento orecchio, il tocco grave e rimbombante della campana del gran
consiglio, si persuase che dovea essere la chiamata a radunanza degli
ottocento, onde stabilire qualche nuova legge o statuto: per tale fatto
egli determinossi di recarsi fra il popolo, o riunirsi, secondo avrebbe
dato il caso, agli uomini d’armi della sua parrocchia, di cui era uno
de’ capitani, e al possedimento del qual grado tanto maggior titolo
s’aveva per la fama di valoroso ed esperto acquistata nelle guerre
dei Veneziani. Così operando, rifletteva fra se, gli sarebbe dato
scoprire quali pensieri nutrissero i Milanesi intorno alla loro nuova
signoria; e se nulla egli poteva intraprendere a favore di Bernabò,
avrebbe cercato almeno di guadagnar l’animo d’alcuno fra quelli che
avvicinavano il principe, onde ottenere che gli fosse conceduta in
isposa Ginevra.
Entrarono in questo mentre i servi nella stanza di lui ad abbigliarlo,
ed egli fece chiamare Enzel Petraccio, il quale si presentò recando
una fiala d’acqua ch’ei diceva portentosa, onde rimedicargli la ferita
del braccio, già quasi all’intutto rimarginata. Allorchè furono i
servi allontanati, «Da che proviene (disse il cavaliero all’aríolo)
il gridare di popolo e suonar di campane che già da qualche tempo mi
ferisce l’orecchio? — Oh! (rispose Enzel) non vi potete immaginare,
signor cavaliero, qual movimento ci sia quest’oggi in Milano! da
che provenga, di certo io ancora non lo potei scoprire; ma parmi da
ciò che si va narrando qua e là, che sia a causa delle novità che il
signor Giovan Galeazzo ha ordinate, le quali debbono riuscire molto
gradite a questa gente. — Pur troppo (mormorò fra se Palamede) Bernabò
lasciò largo e facile campo a chi gli successe nel dominio di farsi
amare dai soggetti!... — Per tutto (proseguì l’aríolo) s’incontrano
uomini e donne festeggianti e genti allegre che fanno gli evviva; per
tutto veggonsi ricchezze, che sembra che l’oro e l’argento sian caduti
dalle nuvole; i soldati delle porte e delle parrochie hanno pulite le
loro armature e infisse le penne nei morioni; i capitani si scorgono
risplendenti come soli; le tuniche nere dei signori del consiglio
appaiono in ogni strada, e dicesi che l’arcivescovo, i vicarii di
provvisione e il podestà s’abbiano a raccogliere nel broletto nuovo.
Non vi saprei ben dire quanti forestieri trovansi ora in questa
città, tanto si è il loro numero: Pavesi, Veneziani, Francesi, se ne
incontrano assai. Basta ch’io vi narri che a causa della solennità di
questo giorno, per sino messer Beltramo speziale avea tutta adorna la
sua bottega con paramenti, quand’io v’entrai per comperar quest’acqua,
segreto mirabile che possiede egli solo, e mi narrò, che deve verso
il mezzodì recarsi a Sant’Ambrogio, per porsi a fianco di maestro
Arnolfo capo del Paratico degli speziali, il quale ha ad assistere
al gran consiglio. — Ho grand’uopo, in questo giorno, dell’opera
tua (l’interruppe Palamede abbassando la voce, e dispiegandola in
modo d’additargli che gli confidava un importante incarico); tu devi
recarti fra il popolo, ascoltare, penetrare, interrogando ciò che si
pensa di Giovan Galeazzo e Bernabò e ritenere quanto si va dicendo
di questo e di quello; scoprire, se puoi, quali siano i partigiani
dell’uno e dell’altro, ed isvelare se il principe prigioniero possegga
ancora qualche caldo amico; devi spiare cosa sente il nuovo signore
ed i suoi, de’ partigiani di Bernabò, e se contro questi si tramino
sorprese o tradimenti; e fra i forestieri devi porgere orecchio per
udire se qualcuno mal vegga questa usurpazione di stati, e se ne
mediti vendetta: in somma cerca di scoprire i pensieri, i divisamenti
del popolo, dei signori, degli estranei, per riportarmeli fedelmente,
poichè tutto io mi prometto dalla fina arte tua. — Non dubitate, signor
Palamede, io farò tutto quello che sarà in mio potere per compiacervi;
poichè vi assicuro che tanto la vostra, quanto la felicità della
signora Ginevra mi stanno veramente a cuore — Ebbene sappi (rispose
Palamede a tai detti, stringendogli una mano affettuosamente), quanto
io ti debbo per avermi salvo da un assassinio, sarà un nulla nella
misura della mia riconoscenza a fronte di quanto meriterai da me se
giungerò per tuo mezzo ad ottenere la figlia di Donnina.»
Dopo queste parole, l’aríolo, fatta riverenza al cavaliero, pieno di
allegrezza per la persuasione che possedeva la confidenza e l’affezione
di lui, uscì aguzzando gli occhi, tutto in se raccogliendosi, torcendo
il collo ed avanzandolo, come se si trovasse di già fra la moltitudine
di cui dovea osservare i moti e raccogliere le parole. Palamede,
preceduto da un valletto, lasciò le sue camere e recossi nella sala
dove l’attendeva la famiglia di Azzo.
Quivi entrato abbracciò Leone e Guido, ed a Ricciarda, che amorosamente
qual madre l’accogliea, baciò con trasporto la mano. S’immaginò
bentosto la cagione per cui vedeva Guido involto in una bruna zimarra
col nero berretto del consiglio, e Leone vestito a tutto punto d’una
armatura lucente colle piume ondeggianti sul cimiero. Stava per
ritrarne, interrogandoneli, più certa cognizione, allorchè spalancati
i battenti della porta entrò colà il marchese Azzo. Una ricca veste
di colore scarlatto broccata in oro lo ricopriva, e vedevasi su di
essa nella parte che gli vestiva il petto, da destra ricamato lo
scudo argenteo di Milano colla croce rossa, da sinistra due vipere
ondeggiate, collocate paralellamente in senso opposto, chiuse in gira
da questo motto in caratteri gotici colore di sangue: _Vipera victrix
audet_, lo che era lo stemma della famiglia Liprando; tenea sul capo
un berretto pure scarlatto con fiori d’oro, sotto cui rìcadeangli sul
collo le chiome che incominciavano a incanutire; a fianco gli pendea
una lunga spada in ricca guaina, e tale era l’abito dei vicarii di
provvisione, uno de’ quali era appunto il marchese Azzo. I figli e
Palamede al suo apparire gli si fecero incontro ad abbracciarlo; il
marchese rendendo l’amplesso, e fissando con molta compiacenza gli
occhi in volto a Palamede, ad un tratto si turbò, scorgendogli nelle
pupille le lagrime che stavano per ispuntare. Palamede abbassò il
capo; Leone e Guido si fecero muti, e tutti intesero qual segreta causa
spingeva sul ciglio di lui quella stilla involontaria di pianto.
«Mio diletto figlio (rompendo pel primo il silenzio, disse il marchese
con voce affettuosa rivolto a Palamede), conosco che tu sei già fatto
consapevole del grande avvenimento che cangiò le sorti nostre e di
tutta questa città, per cui vedi che siamo stati in oggi chiamati
a riordinare e creare nuovi statuti, onde migliorare le condizioni
generali della nostra patria. Se la mano di Dio e del glorioso
Sant’Ambrogio hanno gravitato sul capo di Bernabò, egli, è d’uopo
confessarlo, provocò questo castigo colle sue azioni, poichè eravamo
oramai da’ suoi capricciosi scialacquamenti, dalle sue tirannie e dalla
prepotenza de’ suoi figli ridotti agli estremi; nè sicurezza di vita,
di sostanze o di onore più ci rimaneva. Ciò che al cuore veramente
mi pesa, si è che la marchesa Donnina de’ Porri, mal fidente nella
moderazione del conte di Virtù, s’abbia condotta seco in prigionia la
tua Ginevra. Pensai quanto recasse affanno a lei l’essere strascinata
lontana da queste sue native mura, pressochè nello stesso istante in
cui tenea per fermo che il tuo ritorno avrebbe coronate le sue vive
speranze; e sento per te quanto t’angosci una sì ardente brama delusa,
da poi che tanto ti eri adoprato ad ottenerla. Ma ti conforta, mio
Palamede, e t’assicura: Giovan Galeazzo è principe umano, saggio,
generoso, egli non vorrà or certo opporsi a’ tuoi desiderii negando
concederti che ritrar possi dal castello Ginevra; nè ciò ti negheranno
Bernabò e Donnina che teco l’han fidanzata. Io, te ne accerto, non
poserò in quiete il capo sugli origlieri che non abbia con tutte le
posse adoperato per ottenerti la donna che il tuo cuore ha scelta a
compagna.»
A tali parole, che la dolce ed autorevole voce e la fisonomia
imponente, ma nel tempo stesso assicurante, del marchese rendevano
insinuanti e solenni, il cuore di Palamede fu penetrato da consolatrici
riflessioni che lo riapersero alla speranza: quindi il rasserenarsi
dell’anima si palesò sul di lui volto con un sorriso, e Guido e
Leone gli si accostarono, parlandogli ciascuno della bontà di Giovan
Galeazzo, e traendone sicuro argomento che avrebbe ottenuta l’amata
fanciulla. Ricciarda e la figlia Adelaide avevano, siccome il lungo
amichevole affetto ad esse imponeva, appressate Donnina e Ginevra
sino agli ultimi momenti in cui eran rimaste libere in Milano; e fu
innanzi a loro che l’innamorata donzella diè libero sfogo alla piena
di dolore che opprimeva il suo cuore, lacerato dall’orribile idea
di essere condotta lontana, e forzata, come ella pensava, a perdere
per sempre l’oggetto dell’amor suo più ardente, alla cui mano per
le nuziali promesse avea acquistato diritto. Avevano esse miste le
loro alle lagrime di Ginevra, ed ogni via tentata per consolarla,
ma vanamente: per cui, quando videro Palamede trafitto dall’angoscia
della di lei perdita, cedere al pianto, nella mente loro s’appresentò
l’immagine della desolata Ginevra; e vivamente commosse dalle sventure
di que’ fidanzati, intenerite, a grave stento frenavano i singhiozzi
e le lagrime; ma al racconsolarsi di Palamede per le parole di Azzo,
esse pure si allegrarono, sperando che un giorno esso sarebbe felice;
ed Adelaide a lui s’appressò con seducente ingenuità, e fisandogli in
viso gli occhi ancor umidi di pianto, disse: «La tua Ginevra m’impose
d’invocare ogni giorno dalla Vergine il tuo ritorno, e ti assicuro che
mai non passò sera che io prostrata innanzi alla sua immagine, a cui
offriva i più freschi fiori, non gli chiedessi con tutto il fervore
una tal grazia, ed ella m’esaudì, ed esaudì pure nostra madre, che
tante volte mi guidò nella chiesa a pregar seco per la tua salute.»
Palamede affettuosamente abbracciandola palesò a lei, a Ricciarda e ad
Azzo la sua gratitudine per la cura che di lui s’eran presa, e disse
a Leone che bramava, qual capitano dei militi della parrocchia, porsi
in arnese guerriero, ed uscire seco lui ond’essere spettatore della
radunata del gran consiglio, se però l’essere stato uno degli amici
di Bernabò non gli poteva attirare l’odio o le insidie dei governanti.
Leone gli rispose che erano stati prescelti alcuni de’ capitani d’armi
per accompagnare i gonfaloni delle Porte al Broletto nuovo, e ch’esso,
come uno de’ più distinti, ne verrebbe ricercato; e l’assicurò che
scacciati i figli di Bernabò e i ministri delle loro perfidie, nessun
altro cittadino era stato molestato; per cui poteva ciascuno vivere
tranquillo, e più di ogni altro gli uomini valorosi, pe’ quali il Conte
di Virtù avea grande stima. S’allontanò Palamede, e ritornò coperto
delle sue armi, portando a tracolla la ciarpa azzurra, dono di Ginevra,
da cui pendeva la ricca sua spada; s’accompagnò con Leone, e, seguito
dagli scudieri, lasciò il palazzo.
Era prossima la metà del giorno, e le campane ripetevano coi romorosi
suoni la chiamata al gran consiglio. Per tutte le molte strade che
conducevano da Sant’Ambrogio al Carrobbio di Porta Ticinese, di là
per San Giorgio alla Piazza del Broletto nuovo (ora de’ Mercanti)
era un’onda di popolo innumerevole. Dovea l’arcivescovo, che
trovavasi essere in quell’epoca Antonio di Saluzzo, assistere coi
principali del clero alla grande adunata. Abitava esso nel monastero
di Sant’Ambrogio, imperocchè il palazzo arcivescovile, che sorgeva
poco lungi dall’attuale, ma più dal lato di santo Stefano, ruinoso
e disadorno com’era, non offriva una degna abitazione a sì eminente
prelato. Al tempio di Sant’Ambrogio s’eran quindi recati sei vicarii di
provvisione, un distinto numero di consiglieri, consoli di giustizia,
rettori della comunità scelti da ogni porta, e due vicarii del principe
Giovan Galeazzo, onde assistere alla celebrazione de’ divini ufficii,
indi condurre l’arcivescovo alla sala del consiglio. Dopo avere con
gran pompa Antonio compite le sacre funzioni, s’avviò col numeroso
seguito al Broletto.
Sui terrazzi delle case, sui balconi e sotto gli acuti archi delle
finestre stavano affollati i fanciulli e le donne spettatrici del
generale movimento, e in attenzione del passaggio dell’arcivescovo
colla sua nobile comitiva. Ai balconi de’ palazzi scorgeansi le dame
e le ricche donzelle far gran mostra di drappi d’oro, di piume, di
cinti e catenelle, ed aversi da un lato panieri di fiori, onde tenere
profumata l’aria d’intorno. Anche nelle case però de’ meno agiati
cittadini e della plebe miravansi le donne non prive di ornamenti, ed
alcune portare assai preziosi gioielli: il che non doveva a que’ giorni
recar meraviglia, poichè nel sacco dato dal popolo ai palagi di Bernabò
che era la rocca di Porta Romana, ed a quelli de’ suoi figliuoli,
furono rinvenuti ed involati gioielli, addobbamenti, preziose vesti
e suppellettili pel valore di molte migliaia di fiorini d’oro, oltre
ingenti somme di denaro, e ciò tutto era passato nelle mani delle
persone del popolo e de’ cittadini.
Quel luccicare dell’oro e delle gemme, lo splendore delle vesti per
le finestre ed i balconi, che si prolungava variatamente lungo le
pareti delle contrade, ottenea vivace risalto dal contrasto che vi
faceano i bruni colori delle rozze muraglie delle case, delle chiese,
de’ palazzi, le quali ove erano costrutte di pietre le aveva il tempo
annerite, ed ove formate di mattoni, si lasciavano senz’intonaco, chè
così volea l’uso de’ tempi: quindi gli edifizii nuovi rosseggiavano, e
i vecchi imbrunivano a norma dell’età rispettiva.
La folla eziandio, nelle vie stivata, non presentava il monotono
aspetto che a’ nostri giorni offrono le adunate di gente per il quasi
uniforme moderno vestire d’ogni classe di persone tanto ne’ colori
degli abiti che nella forma. Era in quell’epoca una varietà grandissima
di maniere e di coloriti; e sempre o nelle armi o negli adornamenti
risplendevano i metalli, il che ammirabile e svariatissimo spettacolo
porgeva, atto a recare una viva e profonda impressione, ne’ nostri
tempi svanita.
Vedeansi in allora uomini d’armi tutti ruvidi di ferro dai capelli
alla punta de’ piedi; e diverse erano le forme delle armature, poichè
l’uno copriva il capo col semplice elmo, ed aveva giaco di maglia;
l’altro portava visiera e gorgiera a lamine sovrapposte, e corazza
d’acciaio; questi tenea cimiero cesellato con piume ondeggianti, e
quello berretto di ferro puntuto; spade, targhe, brandistocchi pendeano
a’ fianchi, sospesi a ciarpe e pendagli di varii colori. I nobili,
i semplici cittadini e gli artigiani vestivano abiti con proprie
foggie, e scorgevansi agli uni sopravvesti guernite di pelliccie e
di passamani di molte maniere; agli altri, guarnelli, farsetti a più
colori, e brache che aderivano alle membra, o s’allargavano alle coscie
smisuratamente: collari larghi ed elevati, berretti ora acuminati, or
distesi, variatamente tinti, diversificavano gli abbigliamenti delle
molte classi di patrizi, ricchi ed artieri. Così eran pure distinti
i magistrati ed i dottori per le toghe e le assise. Ma ciò che fra
tanta diversità di costumi produceva un singolare contrasto, si erano
gli abiti de’ numerosi frati, de’ confratelli, de’ pellegrini e degli
uomini della plebe. Per le vie talvolta scorgevasi un eremita curvato
dagli anni, coperto il dosso da un rozzo saione olivastro, e il capo
d’un largo cappuccio, la di cui incolta barba e il macilento viso
mostravano la rigida astinenza, collocato fra un baldo guerriero
lucente d’acciaio, e un patrizio sfolgorante per drappi d’oro,
porgere una vivente immagine congiunta della forza, della umiltà,
dell’orgoglio. In quella età, meno dal sociale attrito contusi e
rammorbiditi i costumi, i sentimenti animavano gli spiriti ed i volti
d’un’aria originale e caratteristica: maniere franche, risolute, e
fors’anco fiere, lineamenti risentiti, variati e pittorici, e gli
abbigliamenti che davano alle forme un piccante risalto, manifestavano
lo spirito d’un secolo incolto, pregiudicato e feroce, ma in cui però
erano passioni ardentissime, affetti infrenati e robusti, e un non so
che di più vivo, animato e risentito delle altre successive età.
Il Broletto nuovo, verso cui dirigevasi tutta la folla del popolo,
era il palazzo del comune o del podestà, perchè colà questi abitava:
contenea esso la loggia degli Osii, che è quell’antico edifizio che
ancora esiste nella parte meridiana della Piazza de’ Mercanti, adorno
d’antiche statue di santi, ed in una fascia, sul prospetto del quale
vedonsi scolpiti degli scudi con varii stemmi, che erano quelli delle
diverse porte di Milano. Antichissimo fabbricato era quello, e venne
nel 1316 ristorato, abbellito ed ampliato da Matteo Visconte, il
quale, fatte atterrare molte casupole che lo deformavano, lo ridusse
ad un vasto edifizio oblungo ed isolato, che da San Michele al Gallo
si prolungava sino al vicolo della Foppa. Era in esso una grandissima
sala in cui si radunava il consiglio degli ottocento, e contenea con
quella del podestà l’abitazione de’ suoi ufficiali: s’aveva congiunta
una piccola chiesa dedicata a Sant’Ambrogio, e gli sorgea nel mezzo una
quadrata torre, su cui stava una grossa campana e tre altre più piccole
per chiamare a raccolta i consiglieri ed il popolo. Dalla parte ove ora
sta l’archivio notarile, la piazza era affatto sgombra e si stendea
sino al cominciare di Santa Margherita, cinta intorno di alte case e
palagi; questa piazza era destinata a contenere il popolo accorrente ad
intendere le decisioni del consiglio.
Zeppa per la moltitudine era quella piazza, quando il ridestarsi più
rumoroso del suono delle quattro campane della torre, e lo stivarsi
più fitto della folla, annunziò l’avvicinarsi dell’arcivescovo.
Precedevano que’ ch’eran puri membri del consiglio, seguivano questi
i consoli di giustizia, i quattro vicarii di provvisione, indi i
priori, gli abbati de’ principali conventi, ed i sacerdoti maggiori
delle basiliche di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e Santa Maria Iemale;
dietro a questi veniva l’arcivescovo sovra un bianco cavallo, con
gualdrappa d’oro e ricchissima bardatura, guidato a mano da un giovine
patrizio pomposamente vestito, con bianchi guanti di serica stoffa
ricamata in oro; ai lati del cavallo stavano i due vicarii di Giovan
Galeazzo, e due di provvisione, e dietro altri monaci, sacerdoti,
magistrati e municipali. Seguivano la comitiva i vessilli delle sei
principali porte della città, portati ciascuno da un gonfaloniere,
fiancheggiato da quattro capitani d’armi delle quattro più distinte
parrocchie d’ogni porta. Precedeva il vessillo di Porta Ticinese,
ch’era una candida bandiera con asta d’oro, e questo fu il primo,
siccome quello che apparteneva ad una parte della città già soggetta
alla signoria di Giovan Galeazzo prima del consolidamento in lui di
tutto il dominio di Milano; quindi non volle andar a paro con quello
di Porta Orientale, come soleva per lo addietro, perchè il signore di
questa era caduto: onde l’Orientale veniva seconda, portando nel suo
vessillo un leon nero. Notavansi fra i capitani d’armi, che seguitavano
questo vessillo, Palamede e Leone, il primo de’ quali per la lunga
assenza, la ricca armatura, il nobile e mesto aspetto s’attraeva gli
sguardi della moltitudine; seguiva lo stendardo di Porta Vercellina,
ch’era bruno con una bianca stella; poscia quel rosso di Porta Romana;
indi lo scaccato bianco e rosso di Porta Comasina, e finalmente il
vessillo di Porta Nuova col leone bianco; chiudevano la comitiva gli
anziani de’ Paratici, ossia capi delle università delle arti, gli
operai di ciascuna delle quali, come barbieri, armaiuoli, tessitori,
fabbri, pellicciai, avevano un capo o maestro, che era loro giudice
e presidente, ne decideva le controversie e manteneva i diritti. Il
podestà, ch’era Liarello da Zeno, veneziano, accompagnato da’ suoi
militi ed ufficiali, venne al peristilio della maggior porta del
palazzo per farsi incontro all’arcivescovo, il quale, disceso dal
suo cavallo, offrì al bacio del podestà l’anello che tenea in dito
contenente una rara reliquia, e dopo essersi rivolto a benedire il
popolo che stava prostrato, entrò, con tutti quelli che ne formavano il
seguito, nel gran consiglio.
Cessò in quell’istante il rimbombare dei bronzi, e quattro trombettieri
con trombe d’argento, ed altrettanti banditori, sopra i cui cappelli
stavano alte piume, apparvero sulla loggia del palazzo. Si fece
universale silenzio, ed essi annunziarono che il gran consiglio dava
incominciamento alle decisioni.
Una sana e previdente politica, anzi direm piuttosto il solo amor
dell’ordine, tanto necessario nelle cose di pubblico momento, non
avevano fino a quell’epoca portata luce alcuna o chiarezza nella
direzione delle città e dei popoli. Il principe, sdegnando i consigli
d’una scelta di personaggi sapienti ed esperimentati, dettava a
capriccio assurdi ed ingiusti decreti; un’unione di uomini ignoranti
o servili che rappresentava la popolazione, riceveva, o rigettava
tumultuariamente, contendendo sulle leggi e gli statuti ciò che
quasi sempre le era svantaggioso. Le armi, le rapine, i patiboli
costringevano i meno resistenti a sostenere il carico di enormi spese
fatte per guerre ingiuste, per lusso esorbitante, per largizioni
delittuose. Non registrazione di pubblici atti, non raccolte o
promulgazioni di leggi e prescrizioni: per tutto era un operare alla
cieca, un eludersi e paralizzarsi di forze mal dirette, e un dominare
dell’astuzia, della ribalderia, della prepotenza. Se pubbliche calamità
o penuria affliggevano i popoli, si consultavano del rimedio gli
astrologi, che da sognate combinazioni di pianeti, dall’apparizione
di sanguigne comete, o dalle meteore facean sempre derivare i mali di
questa terra; si erigevano chiese e conventi, e si trascuravano tutti
gli altri mezzi che poteano recare riparo o salvezza.
Bernabò non ebbe mai più di due vicarii e tre consiglieri; non volle
segretarii, scrittori, persone istruite in somma che tenendo conto
delle entrate, dei consumi della corte e della nazione, ne accennassero
le fonti, le cause, e ne dirigessero i modi. Suo fratello Galeazzo,
padre di Giovan Galeazzo, dotato d’uno spirito intraprendente,
ingegnoso, pel primo pensò che gli uomini scienziati potevano giovare,
concorrendo allo sviluppo delle ricchezze, del commercio, della
popolazione, ad ingrandire la potenza del principe. Spinto da tale
considerazione e dal consiglio di alcuni letterati e filosofi de’ suoi
tempi, e in ispecie da Signorello Amadio e Baldo giureconsulti, da
Emanuello Crisolora bizantino e da Ugo sanese, diede principio alla
famosa università di Pavia, ch’era la capitale de’ suoi stati; quivi
raccolse con generosi stipendii molti uomini dotti, ed aviò la gioventù
alle scientifiche discipline.
Giovan Galeazzo, la cui mente profonda e intellettiva era stata,
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il castello di Trezzo: Novella storica - 09
- Parts
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 01Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4458Total number of unique words is 191732.9 of words are in the 2000 most common words45.8 of words are in the 5000 most common words52.7 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 02Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4513Total number of unique words is 190432.5 of words are in the 2000 most common words46.0 of words are in the 5000 most common words54.0 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 03Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4582Total number of unique words is 189132.4 of words are in the 2000 most common words45.5 of words are in the 5000 most common words53.9 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 04Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4560Total number of unique words is 192631.2 of words are in the 2000 most common words44.9 of words are in the 5000 most common words51.9 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 05Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4556Total number of unique words is 181334.7 of words are in the 2000 most common words48.9 of words are in the 5000 most common words56.9 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 06Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4566Total number of unique words is 177134.0 of words are in the 2000 most common words48.1 of words are in the 5000 most common words56.3 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 07Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4573Total number of unique words is 182635.9 of words are in the 2000 most common words49.5 of words are in the 5000 most common words56.2 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 08Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4444Total number of unique words is 187633.4 of words are in the 2000 most common words48.0 of words are in the 5000 most common words54.7 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 09Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4418Total number of unique words is 181834.4 of words are in the 2000 most common words49.4 of words are in the 5000 most common words57.9 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 10Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4603Total number of unique words is 184736.1 of words are in the 2000 most common words50.8 of words are in the 5000 most common words58.1 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 11Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4459Total number of unique words is 176734.5 of words are in the 2000 most common words50.0 of words are in the 5000 most common words56.5 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 12Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4413Total number of unique words is 187534.0 of words are in the 2000 most common words48.3 of words are in the 5000 most common words57.3 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 13Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 4421Total number of unique words is 181632.6 of words are in the 2000 most common words47.4 of words are in the 5000 most common words54.2 of words are in the 8000 most common words
- Il castello di Trezzo: Novella storica - 14Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.Total number of words is 3394Total number of unique words is 157634.7 of words are in the 2000 most common words49.9 of words are in the 5000 most common words57.4 of words are in the 8000 most common words