Il castello di Trezzo: Novella storica - 10

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offerta l’opera sua a Palamede. Allorquando però il cavaliero narrògli
che stando Giovan Galeazzo a Pavia egli si prometteva felice riuscita
alle sue speranze, se fosse pervenuto ad istruire Caterina di quanto
chiedeva, il che era per lui impossibile, Lanfranco si esibì di
superare per lui non solo qualunque ostacolo a ciò s’opponesse, ma di
aggiungere in favor suo le parole di Bianca madre del principe. Era
desso amicissimo di Alberigo da Bereguardo priore degli Agostiniani
di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia, il quale aveva a suo talento per
molto tempo governato lo spirito di Giovan Galeazzo; e morto esso lui,
aveva sempre continuato a possedere l’intimità di Bianca, ed era il
solo che tenesse libero accesso in Pavia presso di lei e di sua nuora
Caterina. Lanfranco, ammaestrato uno de’ suoi monaci di quanto dovesse
operare, lo mandò a Pavia a frate Alberigo, e rincorò Palamede onde
stesse d’animo sicuro, che finalmente avrebbe ottenuto ciò che tanto
desiderava.
La trepidazione in cui visse il cavaliero aspettando da un istante
all’altro il momento di poter volare a rivedere Ginevra, fu pari al
suo dolore, o piuttosto alla disperazione, quando un mattino dopo tre
giorni dall’invio del messo, con mesto viso appresentatosi a lui frate
Lanfranco gli disse: «Figliuol mio, il Signore non ha concesso che le
tue brame siano esaudite. Bianca e Caterina hanno tutto adoperato per
ottener da Giovan Galeazzo che ti sia data Ginevra; ma egli fermo in
suo proposito rigettò le loro istanze: perciò ti do consiglio a non
tentare più l’animo di lui; chè se non si piegò alle richieste della
madre e della moglie, nessun’altra persona vorrà cedere se Iddio non
gli cangia il cuore, e tu insistendo attireresti l’ira sua; però ti
raccomanda alla divina Provvidenza, ch’ella suole con impreveduti
avvenimenti, quando meno si attende, esaudire i voti di chi sa
meritarne le grazie.»
Ma il cavaliero, sordo a miti consigli, più non spirava a queste parole
che odio e vendetta. La durezza di Giovan Galeazzo gli sembrava sì
tirannica e capricciosa, e tanto addentro lo feriva nel cuore, che ei
meditava le più disperate imprese per vendicarsi: e certo a qualche
tremendo fatto si sarebbe lasciato condurre se un singolare avvenimento
non fosse sorto di mezzo a variare il destino di lui.
Enzel Petraccio si era legato ad amicizia con molti altri aríoli,
tempestarii e vagabondi, alcuni de’ quali andavano al servizio de’
potenti ne’ castelli e nelle città, e servivano loro di spioni, o
di guide negli assalti e nelle guerre; altri seguivano le torme de’
soldati di ventura, i quali spesse volte facevano il mestiero degli
assassini: non formavano però gli aríoli lega coi _bravi_ e cogli
sgherri, perchè questi usavano nei loro fatti la prepotenza colla forza
dell’armi, e quelli, sebbene portassero sempre tra i panni pugnali,
punte, mezzelame, e prezzolati commettessero ogni sorta di delitti,
pure aveano per divisa la pacatezza ed il far umile, nè vestivano
armature, ma abiti plebei, e larghi cappelli: in somma adoperavano
tutti que’ modi che giovassero ad ingannar la gente facendosi credere
o mendicanti, o pellegrini, o villici, o uomini del popolo. Essi però
costituivano una società, e si riconoscevano per certi segni, parole e
costumanze particolari.
In Milano eranvi molte persone di questa professione, poichè vi
venivano da tutte le parti d’Italia, e qui s’avevano una specie di
riunione centrale d’onde poi si diramavano in diversi altri paesi. Per
non dare di loro sospetto, e non arrischiare d’essere arsi come maghi o
stregoni, del che era facile in que’ tempi destare dubbio se si fossero
lasciati scorgere a congregarsi in secrete combriccole, avevano gli
aríoli un luogo di convegno, fuori dalla città dalla parte occidentale,
affatto appartato, sebbene non molto lungi dalle mura.
Enzel, che venne riconosciuto da loro per sapientissimo, siccome
esperto nell’astrologia, nelle arti di formare secreti farmaci
e pozioni, fu ricercato si portasse un giorno nel luogo del loro
convegno, ed egli v’acconsentì. Era questo un giorno sul finir di
novembre; giusta il convenuto Enzel sul far della sera s’appostò presso
la muraglia dell’orto del Monastero Maggiore, e quivi attese un altro
aríolo di nome Gallinaccio. Allorchè questi passò, avvertito dal di
lui fischio, Enzel il seguì, ed uscì seco da Porta Vercellina, che
trovavasi, come abbiam detto altrove, nel luogo in cui ora sta il ponte
del Naviglio, che a que’ tempi non era che una larga fossa la quale
si passava sovra un ponte levatoio: fuori della porta incontravasi il
Borgo delle Grazie, al terminar del quale non eravi, come al presente,
una strada diritta, solida, larga, ma bensì una ristretta via, guasta,
avvallata fra due alte sponde, tutta ingombra di sassi e pantani.
Giunti al cominciar di questa via Enzel e Gallinaccio si riunirono, non
essendovi persona alcuna a cui questi due insiem congiunti potessero
cagionar sospetto. Quando ebbero fatto qualche tratto di strada
entrarono sulla destra in un piccolo sentiero che s’innoltrava fra alte
piante. Il giorno non era caduto affatto, ma la nebbia che s’alzava
oscurava l’aria, e la rendeva umida e fredda; a traverso ai nudi rami
degli alberi, da cui il gelido soffio del vento staccava le ultime
foglie disseccate, appariva un cielo di tristo color cenericcio, alcun
poco biancastro ad occidente, verso cui camminavano gli aríoli. Dopo
alquanti passi il sentiero cessò, il bosco divenne più folto, ed essi
entrati in quello giunsero alla sponda dell’Olona. Sopra un dossetto
presso a quel piccolo fiume stava un diroccato edifizio cinto da
rottami incespati di spine e di roveti; dal lato da cui vennero que’
due, scorgevasi un elevato muro che aveva costituita una parete di quel
fabbricato, e che ora stava solo eretto fra le ruine, e dalle finestre
del quale vedeasi l’opposto cielo. Gallinaccio condusse Enzel fra gli
spinai verso questa muraglia, e pervenutivi dappresso, discesero in
un fossato asciutto che circondava l’edifizio, nel quale scorsero una
porta, dalle cui fessure intravedevasi un lume lontano. Gallinaccio
bussò tre volte a quella porta, e diede altrettanti fischii; si udì
taluno appressarsi, che tolse ai battenti una spranga, e li aprì.
Entrarono que’ due, fu richiusa la porta, ed essi, passando sotto una
lunga oscura volta, giunsero in un’ampia stanza, la metà superiore
della quale era ripiena dal fumo che tramandava un gran fuoco acceso
in mezzo ad essa. Dintorno a questo stavano molti aríoli disposti in
variate posizioni.
Taluno era sdraiato sul pavimento, altro seduto sovra le legna che
servivano ad alimentare il fuoco; questi incrocicchiava le gambe alla
turchesca, quegli rannicchiato sporgeva il capo fra i ginocchi, ma
tutti però tenevano il volto in verso alla fiamma, la quale, secondochè
risplendeva vivace, od andava calando, ne illuminava variatamente le
strane fisonomie e gli abbigliamenti, progettandone le ombre, fatte per
la distanza gigantesche, sulle ruvide pareti di quella camera, o direm
piuttosto cantina o sotterraneo.
Vestivano essi tutti in foggie particolari. L’uno andava coperto da
una zimarra a doppio colore, rossa sul petto, verde sul dorso, ma
lacera e rattoppata; l’altro aveva sul corpo un saione fratesco, questo
indossava una schiavina; portavano tutti però o gabbani, o casacche, o
tabarri di colori oscuri, rossi o cilestri, ma di grossolani tessuti.
Alcuni coprivansi la testa con cappe e cappucci, altri la tenevano
scoperta, e mostravano calve fronti od irte e scarmigliate capellature,
e ruvidi crini cadenti in ciocche a mischiarsi colle scomposte barbe e
le folte basette.
«Ecco una nuova volpe che viene al covo (disse una rauca voce rivolta
ad Enzel appena questi fu colà entrato). — Nuova a questo covo (egli
rispose), ma vecchia per i pollai e le lepri. — Ti conoscono assai
bene (disse Gallinaccio), e puoi stare fra noi ed esserci maestro. Ti
ritira (soggiunse ad uno che stava più degli altri presso la fiamma),
e lasciaci, o Calabrese, sedere vicini al fuoco, perchè veniamo da
dove spira un’aria di neve che ci ha intirizziti.» Si ritrasse il
Calabrese, ed accovacciatosi in altra parte: «Prosegui (disse con
accento di sua nazione), Masiello, a raccontare come sia finita la
storia della regina Giovanna.» Masiello, che stava a lui di prospetto,
e verso cui tutti rivolsero ansiosamente gli occhi, con voce di chi
riprende una storia così parlò: «Andò all’inferno nell’istesso modo
che vi aveva fatto andare otto de’ suoi innamorati e due mariti. Due
giorni dopo che fummo giunti ad Aversa, Cecarello, che ivi ne aveva
condotti, eseguendo l’ordine del signor duca Carlo Durazzo, mi palesò
cosa avessi a fare, e mi fece aprire l’uscio della camera della torre
ov’ella dormiva. Vecchia così come era tentò trarmi ai lacci, e vedendo
di non riuscirvi invocò il cielo e tutti i santi; ma Cecarello m’avea
prefisso il tempo, e il di lei collo era sì sottile, che non sudai a
sbrigarla. Mi fu dato per sì picciola fatica più oro che quando venni
mandato da Napoli, attraversando di verno gli Appennini, a Bologna
a prendere da certo speziale un’acqueruola che non seppi poi mai chi
l’abbia bevuta. — Per quant’oro toccasse allora la tua mano, o Masiello
(riprese un altro), non sarà certo stato tanto quanto quello che un
barone Piccardo tolse al duca d’Angiò ch’era venuto per quella stessa
regina in Italia, e metà di quell’oro lo recai io a Venezia, dove
il Francese mi fece seco a parte a scialacquarlo. Ma ti debbo però
dire che me lo era guadagnato con maggior fatica della tua. Il Papa
d’Avignone mi avea spedito a Parigi a portare lettere al duca d’Angiò,
imponendomi di servire ad esso di guida a discendere per l’Alpi:
eseguii tale comando, e quando fummo di poco col Francese inoltrati
in Italia, il duca d’Angiò mi diede ordine che mi recassi a Roma dai
Colonna, ed a Napoli da Giovanna per certe intelligenze: giunto nella
prima città, il Papa di Roma mi fece prendere, e voleva mi appiccassero
in castel Sant’Angelo, ciò che avveniva di certo se non mi fossi calato
per le mura; ma finalmente arrivai anche a Napoli, ed adempiute le
commissioni, a traverso all’armata di Carlo Durazzo pervenni a Bari,
dove il duca d’Angiò m’aveva imposto di recarmi; egli era colà, ma
più non aveva nè soldati nè danari, e null’altro possedeva di tutto
ciò che aveva recato di Francia fuorchè la spada e il valore: perciò
senza nulla darmi, ma facendomi grandi promesse, pregommi riconducessi
nella sua terra il barone Piccardo, che avrebbe recato molto oro e
soldati: il feci infatti; e il Piccardo, giunto a Parigi, ebbe l’oro
dal re e dai fratelli del duca; ma soldati non ne ricercò, nè volle,
perchè piacevagli marciar spedito: quest’oro ce lo distribuimmo sulla
persona e sui cavalli, e per le vie diaboliche del paese degli Svizzeri
tornammo in Italia, ed andammo a Venezia; dove lo si profuse _gaîment
pour dames et bon vin_, come soleva dire il Piccardo; e il duca d’Angiò
seppi poscia che morì a Bari di fame.»
Dopo questo racconto, l’un l’altro eccitandosi, narrarono moltissimi
fatti da essi loro eseguiti, o di cui erano stati spettatori: quasi
tutti consistevano in astuzie, raggiri, insidie adoperate per impedire
od anche agevolare conquiste di terre e castelli, incendii, assassinii,
rapimenti di donne e fanciulle; ciò che rendeva singolari quelle
narrazioni, era l’influsso sugli avvenimenti umani che attribuivano ai
prestigi, ai pianeti ed alle magiche virtù di molte sostanze naturali
preparate con certe arti o segni stravaganti.
Poscia che ebbero a lungo favellato, l’ultimo che parlò disse ad uno
che gli stava di fianco: «Andreazzo, è tempo oramai che ci bagniamo
la gola; non hai tu portato qualche poco di vino? — Non beveremo, per
Satanasso, sin che non abbiamo detto qualche cosa di meglio delle
ciancie che si son fatte finora.» Così pronunciò con voce grave e
rude, che non s’era mai intesa durante i ragionamenti, una persona la
quale, involta sino alla metà del viso in un mantello a lungo pelo
nero, e tenendo calato un berretto pur di pelo sino alle ciglia,
movendo sotto assiepate palpebre due bigi occhi feroci, s’aveva la
forma piuttosto d’orso che d’uomo. «Non abbaiare, Can-di-monte (a lui
rispose Andreazzo), se bevessimo anche tosto, io tengo qui tal liquore
che non ti parrà certo decotto amaro, ma se tu hai a dire alcun che
d’importante, dillo col malanno che ti porti, che ti ascolteremo.»
Can-di-monte, che tal era il soprannome di quell’ispida figura, volse
ad Andreazzo uno sguardo minaccioso di sdegno, quindi disse: «A ciò
che è avvenuto io non penso mai, e lascio ai cantafavole le parole o le
novelle: io voglio fatti ed azioni, e perciò bado a quel che faccio o
che dovrò fare; il passato è come se non fosse mai stato. Voi v’avete
stancata la lingua con vecchie storie, e nessuno ha palesato ancora
ciò che farà domani, onde possiamo porgerci mano a condurre a buon fine
qualche impresa.»
— «Hai ragione, Can-di-monte (soggiunse l’un d’essi); io non so come
mai m’abbia a lungo garrito in inutili baie, mentre ho un rilevante
messaggio da farti da parte di un tale, che ieri ritrovai presso
Magenta, e che mi disse che ti risovverresti chi fosse, rammentandoti
il Frate Rosso. — Oh! il conosco assai bene, è Aldobrado Manfredi;
e che ti disse egli per me? — Ei mi ha detto che domani a notte ti
attende nelle valli di Ticino, presso al gran pioppo nel bosco del
Crocifisso, dove saranno seco lui i soliti amici. — Ma non sai tu,
Squarcia (chiese Can-di-monte), per qual motivo? — Te lo dirò, ma
non lo seppi da lui: esso vuole appostarti sulla strada di Novara per
dargli segnale del momento in cui passerà il duca Lodovico di Francia,
e gli altri signori i quali vengono a Milano a nozze, poichè egli ha
disegno di guardar loro ne’ forzieri per vedere quali doni rechino
alla signora Valentina. — Si è assunto un difficile impegno (disse
quello che aveva narrata la storia del duca d’Angiò), poichè conosco i
cavalieri di Francia, ed hanno spade affilate, e le menano di taglio e
punta, che guai dove colgono. — Sappi (gli rispose Can-di-monte), che
Aldobrado non mette rete che non prenda pesce; sai che è stato più anni
confidente di Bernabò: allora ho fatto per suo comando delle operazioni
che s’avevano altre spine, ed egli ha date prove sufficienti di quanto
valga. — Mi fu narrato (proseguì Squarcia) che, dopochè il suo padrone
venne mandato a Trezzo, si è dato a condurre una masnada a svaligiare i
passeggieri, e non vi sono fanti che battano la sua traccia, perchè si
è reso formidabile. — Ma come deve esser ella la faccenda dei Francesi?
(disse Enzel Petraccio, che si fece attentissimo a raccogliere tutte
le parole su tale argomento). — Come vuoi che sia? Aldobrado fu
avvertito che il duca Lodovico volendo far grata sorpresa a Giovan
Galeazzo, onde giungere inaspettato a sposarne la figlia, passerà fra
tre giorni con pochi cavalieri e senza scorta dalla strada di Novara,
ed Aldobrado co’ suoi li assalirà, perchè miglior bottino a’ nostri
giorni non si potrebbe sperare.» Can-di-monte volgendo ad Andreazzo
gli occhi, da cui trapelava l’allegrezza recatagli da tale notizia:
«Porgi ora da bere (disse), e se è vino che mi piaccia, ti voglio fra
quattro giorni donare una delle più belle gioie del duca Lodovico. —
Potresti anche fra quattro giorni (disse Andreazzo) lasciare il pelo
sotto il rasoio del boia;» e in così dire s’alzò, e venne in un angolo
di quella stanza, smosse una tavola dal muro, e levò un gran vaso che a
due mani portò in mezzo al circolo presso al fuoco: molte legna furono
gettate ad avvivare la fiamma, ed una scodella di terra girò d’intorno,
riempiendosi ad ogni istante del vino che quel vaso conteneva.
Riscaldati da quel liquore, lunga pezza fecero i socii parole, risa
e gridi; ma a poco a poco i più s’addormentarono, altri rimasero
ragionando a bassa voce: la fiamma mancando d’alimento si spense, e
restarono nell’oscurità rotta solo dal rosseggiar de’ carboni attizzati
di quando in quando da alcuno de’ più vigilanti con una palla di ferro.
Sorto finalmente il mattino, ad uno ad uno uscirono tutti da quella
casa, e si dispersero disgiuntamente.


CAPITOLO IX.
Ma qui pur gli oppressori omicidi
Or s’accampan la legge insultando;
Qui si sente un tumulto di stridi
Prorompente lontano lontan.
...........................
E non sai che col vanto di prode
Or sovente dal laccio si pende?
GUIDOBALDO IL CACCIATORE. _Mel. Lir._

L’antico arco, che in Milano dicesi volgarmente _voltone_, che sta
al ponte del Naviglio di Porta Ticinese, formava a’ tempi de’ quali
parliamo la porta stessa, per cui la chiesa di Sant’Eustorgio e l’unito
convento di Domenicani, che sono alquanto al di là di quel voltone,
si ritrovavano in un sobborgo della città. Per entro un’appartata
via di questo sobborgo, alla quale facevan parete da un lato il muro
del cimitero posto a canto alla chiesa di Sant’Eustorgio medesimo, e
dall’altro San Barnaba al fonte, con varie antiche case, s’inoltrava
a passi rapidi Palamede. Era esso ravvolto in un mantello che
scendendogli al ginocchio lasciava vedere al di sotto una parte della
lunga spada che teneva sospesa al fianco, e il suo capo era coperto con
un berretto senza piume od altri adornamenti. Camminò egli frettoloso
sin presso alla metà di quella via, poscia ad un tratto soffermossi in
atto pensoso.
Già spuntato era il sole, ma il cielo nebbioso rendeva incerta la
luce: rade persone scorgevansi passare per quella via, e queste erano
o villici o servi che recavano le provvigioni al convento. Palamede
girò lo sguardo, investigando se alcuno lo tenesse di mira; indi, colla
risolutezza di chi prende irrevocabilmente un partito, proseguì il
cammino. Giunto al terminare di quella strada, stava per porre il piede
sul limitare d’una casa, quando sentendosi afferrare pel mantello,
udì dire: «Dove andate, cavaliero?» Ei si rivolse con isdegno; ma
veduto chi era, «Che vuoi tu, Enzel Petraccio? (gridò con sorpresa).
— Io voglio, signor Palamede (disse Enzel con certa voce di preghiera
e di comando insieme), che voi non andiate in questa casa.» Un lampo
d’ira balenò a questi detti in volto a Palamede; poichè un cavaliero
armato non era uso soffrire da altri il benchè minimo contrasto senza
por mano alla spada; ma riflettendo tosto che l’aríolo non poteva aver
così parlato che col pensiero d’arrecargli vantaggio, «Sai tu (disse
rappacificato) perchè io qui venni a quest’ora? — Non v’ho io provato
che sapeva tante altre cose che v’appartenevano? Or vi persuaderò che
non ignoro neppure la causa per cui siete qui venuto: in questa casa
prese alloggio Gherardo Cappello, il quale è stato mandato a Milano
dal signor di Verona per ragunare e disporre alla rivolta i nemici di
Giovan Galeazzo: così egli fa credere ai varii che diedero retta alle
sue parole, e voi, uno fra questi, venite a riporvi nel novero dei
congiurati. — Sì tu lo sai (rispose Palamede): io vengo a congiungermi
a quelli che hanno giurato di vendicare Bernabò; ma è Giovan Galeazzo
stesso che mi vi spinge. Egli, non sazio d’usare del suo tirannico
potere contro quelli che potrebbono a buon diritto disputargli
l’usurpato dominio, sta fermo per crudeltà in negarmi una fanciulla
che è a me legata per sacre promesse, oh! sentirà quando questo ferro
gli passerà il cuore, che non stanno tutti nel castello di Trezzo quei
di cui deve paventare. — Ah, signor Palamede, che dite mai! (esclamò
l’aríolo, fissandolo con occhi pel terrore di tale idea allargati con
ispavento) questo pensiero vi fu al certo posto in cuore da uno spirito
infernale: tutti i segni del cielo stanno contro di voi se durate
in tale proponimento. Allorchè mi deste l’incarico di gire scoprendo
quali cose si dicessero dal popolo in riguardo di Bernabò e di Giovan
Galeazzo, non v’ho io rapportato, siccome aveva udito, che tutti
mostravansi accaniti contro l’antico, ed affezionati al nuovo signore?
Or bene, non pensate voi che assalire Giovan Galeazzo è lo stesso che
rendersi tutto il popolo nemico, dalle cui mani non riesce facile il
sottrarsi, e quindi la corda o la ruota sarebbe il genere di morte men
doloroso a cui anderebbe incontro chi attizzasse la rivolta?»
Si accostò in così dire all’orecchio di Palamede, che alle di lui
prime parole s’era fatto meditabondo, stando immobile colle braccia
incrocicchiate sul petto; e traendolo dolcemente lontano da quella
casa, con voce a cui, sebbene sommessa, cercava dare un tuono profetico
e misterioso: «Ancorchè aveste certezza (disse) di compire da voi solo
il vostro disegno, non vi fidate di questo Veronese. Dove sono i suoi
soldati, i capitani atti a resistere a quelli del conte di Virtù?
Credetemi! egli cerca di attirarvi nella rete per darvi nelle mani
di Giovan Galeazzo, onde renderlo amico del suo signore.» Palamede,
colpito da tali detti volse uno sguardo fiero a quella casa, indi disse
con instanza all’aríolo: «Sai tu questo di certo?» Ed Enzel, sempre
traendolo più da quel luogo lontano: «Dovreste essere persuaso che io
non soglio ingannarmi; ma vi lascio supporre che il Veronese abbia
realmente a sostenervi in un tale fatto: non è egli inevitabile che
al primo manifestarsi d’un movimento di ribellione Giovan Galeazzo fa
togliere la vita a Bernabò, ai figli, a Ginevra? — Qual via dunque mi
rimane per ottenerla? (proruppe con forza il cavaliero, interrompendo
l’aríolo, quasi non potesse sostenere ch’ei proseguisse con tali
per lui terribili parole). — La via (continuò l’aríolo, contento del
trionfo che conobbe di aver riportato sull’animo di Palamede), la via
si troverà; forse essa non è tanto discosta o difficile come potete
credere: per ora però è d’uopo che facciate forza a voi stesso, e vi
astenghiate da qualunque tentativo.»
Un atto d’impaziente dispetto s’appalesò sul volto a Palamede; e il
di lui mantello, che s’aprì, lasciò vedere la sua mano, che portata
all’elsa della spada la premeva con forza al fianco: involontario
moto che indicava l’interno sforzo nel comprimere l’ira, che tante
opposizioni alle sue brame gli destavano in seno. Enzel, il quale
penetrò che la mente del cavaliero era agitata da fiera tempesta, pensò
essere quel momento opportunissimo a prepararlo ad un progetto che
egli aveva in suo capo formato nella congrega degli aríoli; quindi,
«Non dovete (disse) rimanervi frattanto in un ozio che la vostra
abitudine alle vicende delle armi vi renderebbe penoso. Io voglio
darvi una notizia che vi porgerà campo di vendicarvi d’un traditore
e di reprimere l’audacia di un ribaldo assassino.» Palamede gli
chiese ansiosamente chi questi si fosse; e l’aríolo palesando essere
Aldobrado Manfredi che a lui aveva tentato togliere la vita nel bosco
di Trezzo, narrò il divisamento che quegli avea fatto d’assalire sulla
strada di Novara, presso al Ticino il duca Ludovico di Francia, che
veniva alle nozze della signora Valentina, figlia di Giovan Galeazzo.
Gli ascosi e secondarii pensieri che la narrativa delle disposizioni
dell’assaltamento del duca aveva fatti nascere nell’animo dell’aríolo,
non sorsero a tale novella in cuore a Palamede, la cui mente fu
invasa da tutto lo spirito guerriero e di vendetta, di cui in quella
età non andavano esenti anche i più umani fra quelli che facevano
professione delle armi. Tutto pieno del desío di trovarsi al cimento,
e concentrando in questo solo ogni altro pensiero che lo conturbava,
rifece a passi rapidi, seguito dall’aríolo, quella stessa strada per
rientrare in Milano.
Pervenuti alla via che passando innanzi a S. Eustorgio metteva a Porta
Ticinese, videro un improvviso accorrere di popolo, uno affacciarsi
di genti alle finestre, ed udirono le campane di quella chiesa dare
in suoni festosi. «Arriva il signor Giovan Galeazzo da Pavia (disse
l’aríolo a Palamede); ora che qui sta solo a far da padrone, troverà
nelle sale dei ricchi palazzi, e fra le dame di Milano, un più
aggradevole soggiorno che nelle sacrestie della sua chiesa del castello
e tra i monaci di Pavia.» Si vide infatti il principe coperto da un
fino drappo orlato di pelliccia venire sovra un bianco destriero: gli
cavalcavano al fianco alcuni nobili capitani d’armi, e lo seguivano
molti militi armati in tutto punto. Il popolo, che stava stivato in ale
lungo la strada, faceva eccheggiare l’aria di evviva al suo passaggio.
Quando Giovan Galeazzo fu giunto dappresso al tempio di Sant’Eustorgio,
rivolse verso la porta di quello il proprio cavallo, e così fecero gli
altri. I frati Domenicani usciti dalla chiesa gli vennero incontro:
due persone del suo seguito, balzate da sella, si recarono a lato
del di lui cavallo; e tenendogliene le staffe, gli diedero braccio a
discendere. Egli porgendo con affabilità il saluto a que’ frati, che
con atti di umiltà e di sommo rispetto lo accoglievano, s’avviò alla
chiesa, dicendo essere desideroso di assistere alla celebrazione d’una
messa avanti all’altare de’ tre Re Magi, per rendere grazie a Dio della
sua felice venuta.
I battenti della porta della chiesa furono spalancati, e Giovan
Galeazzo col seguito vi entrò. Un inginocchiatoio adorno di preziosi
ornamenti, con cuscini di seta frangiati in oro, venne recato innanzi
alla cappella dei Re Magi; e il principe piegato su quello, fosse
abitudine, fosse sincero sentimento di religiosa pietà, si compose in
attitudine d’intenso pregare.
Da tutte le celle e le stanze corsero alla sagrestia i frati ed i servi
del convento, e si affaccendarono ad allestire speditamente quegli
oggetti che potevano servire a rendere più splendido l’altare e pomposa
la celebrazione della messa: venne accesa gran quantità di lumi; si
scoprirono le più belle reliquie, e tra tutte la più preziosa, quella
di S. Pietro martire, racchiusa in aurea conserva da molti gioielli
coperta; si trassero i più ricchi paramenti e gli abiti sacerdotali di
maggior riserbo, e col massimo decoro incominciò la religiosa funzione,
che l’incessante suonare dei bronzi annunziava.
Le porte della chiesa eran rimaste aperte; e il popolo, cui i militi
impedivano d’entrarvi, stando al di fuori affollato, rimirava
con divozione e maraviglia quegli splendori dell’altare, ed il
raccoglimento di Giovan Galeazzo e de’ nobili suoi seguaci. Palamede e
l’aríolo trovaronsi essi pure frammisti a quella turba, e guardavano
anch’essi curiosamente il principe; ma i loro pensieri erano d’assai
diversi da quelli delle persone da cui erano circondati. L’aríolo,
astuto e conoscitore siccome era delle altrui ipocrisie, non lasciavasi
dalle apparenze sedurre, e stimava entro di se che quel fervor
religioso del conte di Virtù fosse, piuttosto che al vero scopo
della preghiera, diretto ad ingannare il popolo; nell’animo del quale
quegli esterni atti di pietà sì pubblicamente praticati infondevano
venerazione, e recavano convincimento essere dotato di grande bontà
chi li eseguiva. Nel cuor di Palamede all’incontro quella vista non
mosse che sdegno: egli teneva per fermo che l’eccesso della tirannia
fosse stato da Giovan Galeazzo consumato contro di lui in rifiutargli
replicatamente la prigioniera di Trezzo; quindi si persuadeva che
avendo esso un animo così duro e cattivo, falsa e simulata era l’aria
di divozione con cui stava innanzi agli altari; e poco avvezzo a
frenare l’impeto de’ proprii sentimenti, «Cuor di serpe (esclamò), i
santi non ascolteranno i tuoi bugiardi voti....» ed avrebbe proseguito
imprecando contro di lui, con pericolo d’attirarsi l’attenzione e
l’ira degli astanti, se Enzel noi costringeva con rapide parole al
silenzio, ed aprendogli un passaggio in mezzo alla folla, nol traeva
di là lontano; per buona sorte nessun individuo del popolo aveva
prestato orecchio a que’ detti, per cui, senza che persona al mondo
loro abbadasse, ripresero la strada di Porta Ticinese e rientrarono in
Milano.
L’aríolo, cui pressava sommamente l’impresa del cavaliero contro
l’aggressione del duca di Francia, meditata da Aldobrado, si diede
con ogni studio a ricercar di sapere il giusto momento in cui
questi sarebbe passato presso il fiume Ticino, luogo ove l’assassino
ritrovavasi; e col mezzo degli altri aríoli venne a capo d’aver notizia
che il duca Ludovico era pervenuto di già a Novara, e il giorno
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