Il castello di Trezzo: Novella storica - 01

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IL CASTELLO
DI TREZZO

NOVELLA STORICA
DI
GIAMBATTISTA BAZZONI.

PARIGI.
BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA,
9, RUE DU COQ, PRÈS LE LOUVRE.
1838.


DALLA STAMPERIA DI CRAPELET,
9, RUE DE VAUGIRARD.


IL CASTELLO DI TREZZO.


CAPITOLO I.
E voi degli altri secoli feroci
Ed ispid’avi... co’ sanguinosi
Pugnali a lato, le campestri rocche
Voi godeste abitar, truci all’aspetto
E per gran baffi rigida la guancia
Consultando gli sgherri.
PARINI.

Nell’età di mezzo, età d’armi e di fanatismo, in cui rade volte i
principi s’avevano di mira il pubblico bene, l’Italia non offriva
quell’aspetto florido e ridente che attualmente presenta. Non vedevansi
allora comode ed ampie strade, non sodi ponti sui molti suoi fiumi e
torrenti, non villaggi ben costrutti e popolosi. Nell’alta Lombardia
specialmente a piè de’ colli e a dilungo de’ fiumi erano vaste foreste
e boschi antichissimi; il suolo in molte parti non appariva che nuda
brughiera o inculta landa; le strade erano torti viottoli, la maggior
parte ne’ dì piovosi impraticabili, ne’ villaggi stavano ammucchiati
gli abituri dei contadini, fabbricati parte di legno e parte di sassi e
creta, che mal valevano a proteggerli dalla intemperie delle stagioni.
Surgevano all’incontro pel contado castelli di massiccie mura,
cerchiati da profonda fossa e chiusi da porte ferrate: quivi o nobile,
o feudatario, o guerriero stava rinchiuso per esercitare prepotenze
sopra i vassalli, per tendere agguati a’ vicini, o per sottrarsi alle
pene meritatesi coi delitti e co’ tradimenti. Qua e là sparsi per le
borgate e la campagna erano conventi e certose, i di cui superiori od
abbati possedevano sovrani diritti. Le città presentavano l’aspetto
più di fortezze che si guatino minacciose, che d’asilo di pacifici
cittadini: l’una dell’altra inimiche, sempre tementi d’assalti,
andavano tutte cinte d’altissime mura; e si amava più tosto con
fossati e bastite di renderne l’avvicinamento difficile, di quello che
procurarle ingresso comodo ed ornato.
Nè a que’ tempi era agevole attraversare le acque: i torrenti si
passavano a secco od a guado; e quanto ai fiumi, se ne togli i luoghi
più importanti per vie militari, ove gittavansi ponti, da per tutto il
passaggio si mostrava disastroso, e il più delle fiate impossibile.
E dove scorgi presentemente il maestoso ponte sull’Adda tra Canonica
e Vaprio, allora non t’abbattevi che in due altissime ripe, entro cui
quasi avvallate correvano le acque, inette a guadarsi. Surgevane pel
vero un altro, erettovi dal duca Bernabò Visconti, allorchè rialzò
dalle rovine il Castello di Trezzo; esso era guernito a due capi da
torri, ma non porgeva altro ingresso fuor che al castello: e però
niuno ardiva, anzi che passarlo, nè pure accostarvisi: chè chiunque
fosse stato trovato o su una strada, o sovra un ponte di Bernabò, era
crudelmente tormentato e quindi ucciso.
Alla necessità de’ passaggeri s’era però provveduto presso Vaprio con
un porto costrutto rozzamente, come quella età comportava. Appena si
usciva di Canonica, scontravasi un sentiero che, passando tra ciottoli
ed arene, attraversava qua e là i rigagnoli del Brembo (il quale
scende dalle valli bergamasche per iscaricarsi nell’Adda), e dopo breve
tratto di cammino, mettea capo a quel fiume in sito ove partitosi in
due rami presentava nel di lui seno un’isoletta. Quivi la fiumana,
men rigogliosa d’acque pei non ricevuti torrenti e per la partizione
sofferta, dava facile adito al porto, il quale constava di due zattere
locate agli opposti lati dell’isola ed aventi nella parte di mezzo un
grosso palo, alla cui cima correva una fune infissa alle due bande del
fiume. La prima di queste recava il passeggiero dalla sponda sinistra
dell’Adda persino all’isola; la seconda dall’isola al destro lido; e
qui si arrampicava novellamente un viottolo che adduceva alla via detta
del bosco, tra Vaprio e Concesa.
Quest’isola era chiamata la Ca di Mandellone, perchè abitata da Nicola
di Mandello, che per esser pingue appellavasi _Mandellone_; ed era
uomo sollazzevole e di gaio aspetto, non che fino amatore del danaro.
Guidava egli le zattere, e s’era per ciò edificata in mezzo all’isola
una casuccia ove dimorava con sua figlia ed un famiglio; vendeva anche
vino e cibi a’ viandanti, i quali astretti a passare di là, vi si
fermavano volentieri, adescati da sue lusinghe a vuotarne un bicchiere.
La casa di Mandellone sorgeva in luogo un po’ elevato: un praticello
ombreggiato da alte piante vi si stendea di prospetto, ed offriva qua
e là de’ sedili foggiati coi tronchi d’albero, e qualche tavola per
gli avventori. Circuiva il prato un orticello che forniva i legumi per
la cucina, e quivi mettean capo le due stradicciuole che si volgeano
tra le piante ver gli opposti lidi dell’Adda. Allorchè l’albergatore
udiva la chiamata di chi volea passar l’acque (ed era un grido od un
fischio), soleva affacciarsi ad una finestretta per dove scorgeva i
passeggeri senz’essere veduto: e se era tempo o persona opportuna,
si muoveva a passarla, altramente fingeva di non udirla. Imperocchè
capitando alla Ca di Mandellone ogni maniera di gente, siccome
gabellieri, contrabbandieri, ladri, sgherri, venturieri, donne, frati,
pellegrini, e simil fatta di persone, l’accorto nocchiero-albergatore
evitava succedessero in sua casa incontri che valessero a porne a
repentaglio la sicurezza, o cagionare disgusti agli avventori: e da che
un _non vi ho inteso_ per sua parte, qualche rimbrotto dal canto di chi
non veniva passato, accomodavano ogni faccenda, in tal guisa adoperava
il brav’uomo, che tutti gli restavano amici.
Volgeva l’anno 1385, ed era il venticinque maggio, giorno di giovedì,
allorquando un’ora avanti al cader del sole Mandellone, che quetamente
si stava nel suo casolare, udì dalla riva del bosco di Concesa
partirsi un acutissimo fischio a cui varii altri si succedettero a
brevi intervalli. Spiò a prima giunta dal fenestruolo, e tosto corse a
staccare le zattere per levare un passeggero che lo pressava a gesti
dalla sponda, e volgevasi ogni tratto a guardarsi alle spalle. Era
costui un uomo a trent’anni, alto della persona, di fieri lineamenti
forte adusti dal sole; sotto le larghe alaccie di un logoro cappello
colla testiera a cono muoveva due occhi vivi ed agitati: aveva il
mento coperto da folti peli nerissimi. Il suo vestire constava d’un
rozzo giubbone di lana scura e di due ampie brache; le sue gambe erano
nude, tranne i piedi calzati in grosse scarpe acuminate; teneva tra
le mani uno stocco irrugginito, la di cui punta luccicava tuttavia;
e due pugnali stavangli infissi ai fianchi entro larga coreggia di
cuoio, «Per Sant’ Afra! (egli gridò) che ti possa affogare; sei più
lento di una lumaca a muovere quelle tue quattro tavole mal connesse.
— Vengo, vengo; non t’arrabbiare, Tencio (rispose Mandellone): aspetta
che mi ti accosti.» Ma fu indarno, perchè Tencio spiccò un salto; e
sebbene arrischiasse di capovolgere la zattera, datosi tosto a tirarne
la corda a tutta possa, la fece retrocedere velocemente. Appena
giunti all’isola, cacciossi fra le piante. Costui era un fuoruscito,
il quale si aggirava per que’ dintorni con due suoi compagni a fine
di svaligiare i viandanti; e pel suo viso abbronzato s’avea avuto il
soprannome di Tencio. Raccontò desso a Mandellone d’aver veduto uno
stuolo d’uomini armati a piedi ed a cavallo, i quali s’avviavano dalla
strada di Vaprio verso Concesa: per lo che avea divisato di porsi
prestamente in salvo. «Crederesti (gli disse Mandellone) che debbasi
muovere un’armata per prender te, o il Carbonaio, o il Brescianino?
Sarà Bernabò che si recherà colla sua corte al Castello di Trezzo. —
E sia chi diavolo si voglia (rispose Tencio); se ci trovassero, pensi
tu che ristarebbero dal porre le nostre teste in una gabbia di ferro
sovra qualche albero ad uso di lanterna per la strada maestra? — Eh
sì certo, che non faresti gran lume! (soggiunse Mandellone).» Mentre
muovevano simiglianti discorsi, videro alla sommità della sponda donde
era calato il Tencio alzarsi fra le piante un polverìo, ed udirono un
calpestío di cavalli e un rumore di ruote, senza però scorgere persona:
chè i folti rami degli alberi glielo impedivano. Quel calpestìo
allontanandosi svanì del tutto; e Tencio e Mandellone si ritrassero in
casa, persuasi essere quegli il principe che si recava a villeggiare al
suo castello. Trascorsi pochi istanti si udirono novelli fischi dalla
stessa sponda; Mandellone guardò, e conobbe essere i due compagni del
Tencio: sicchè temendo del lasciar solo in casa quell’uccellaccio da
preda, sia a riguardo di sua figlia Maria, sia a riguardo delle botti,
si diè a chiamar Trado il famiglio perchè lì passasse. Giunti i due
compagni, strinsero a Tencio la mano, e gridarono festanti: «Novità,
grandi novità: evviva Galeazzo! Quel can di Bernabò vien condotto fra
soldati al Castello di Trezzo a guisa di un assassino.» Tutti fecero
le maraviglie; e il Carbonaio e il Brescianino proseguirono la rozza
narrazione del fatto interrotta di quando in quando da contumelie
indiritte a Bernabò: quel racconto non era che una fedele sposizione di
quanto avevano veduto essi medesimi, mentre si stavano celati nel bosco
che correva a’ fianchi della strada.
«Dinanzi a tutti venivano (dissero essi) due lancie[1] ed ogni caporale
di lancia aveva il roncone in resta, ed abbassata sul volto la celata:
indi sur un cavallo fulvo si avanzava il capitano della compagnia, che
distinguevasi per le alte piume del suo cimiero e per la bella armatura
damascata. Dietro a costui erano altre quattro lancie; e poscia
circuito da due alabardieri, uno de quali teneva le redini della mula,
veniva Bernabò coverto d’un abito cremisino, col solito suo cappuccio
in testa; ma non gli vedemmo spada, nè bacchetta: teneva le braccia
incrocicchiate al seno, e il capo piegato, quasi dicesse orazioni.
Alle terga gli stava sovr’altra mula un frate che aveva un largo
cappello da eremita; ravvolgevasi in veste bigia, gli calava sul petto
una lunga barba bianca, e nelle mani recava un grosso libro. Venivano
quindi altre lancie e quattro alabardieri a cavallo che tenevano
in mezzo due giovani, l’uno vestito di velluto azzurro, l’altro di
rosso, entrambi incatenati: poscia seguivano altri soldati; e a coda
di questi una paraveréda[2] tirata da quattro mule con uomini a piedi
che le guidavano; e pareva racchiudere donne. Altre lancie chiudevano
la comitiva.» Aggiunsero essere certi che questa dovette prendere la
strada di Vaprio, quantunque più lunga per giungere a Trezzo, perchè
la sola da cui potesse passare la paraveréda. E posero fine a sì fatta
narrazione collo esporre la novella, raccolta da uno del paese, che
il maestro delle gabelle e il daziere del transito di Vaprio venivano
richiamati, e se ne mandavano due altri i quali tenevano aspetti meno
burberi, onde giovava sperare che le loro faccende coi contrabbandieri
del Bergamasco sarebbero andate a maraviglia.
Terminato il racconto, tutti fecero gli evviva a Giovan Galeazzo:
imperciocchè erasi divulgata una voce in que’ giorni che a cagione del
Conte di Virtù (così Galeazzo chiamavasi) fossero accaduti a Milano
importanti avvenimenti. Ma a quei tempi le notizie si propagavano
con tanta difficoltà e lentezza, che non si potevano conoscere che
tardi i particolari del fatto. Arguivano però che la prigionia di
Bernabò essere dovesse opera del di lui nipote Giovan Galeazzo: e
quindi a questi, siccome spogliatore del potere d’un principe che
per le sue crudeltà era abborrito da tutti, portarono unanimi le loro
acclamazioni.
Mandellone rivóltosi allora alla brigata, disse: «In segno d’allegria
vo’ imbandirvi uno squisito banchetto; e cápiti chi può a far da spia,
saprò ben tenere la lingua in bocca.» Così dicendo s’avviò vèr l’orto,
diè mano ad una zappa, scavò la terra a piè di un albero e ne trasse
due lepri non che un pezzo di cinghiale, da lui fatti uccidere nei
boschi dell’Adda. Erano vivande queste che di consueto gelosamente
celava per poi farne parte a’ più fidati amici; imperò che sotto
Bernabò l’uccidere una lepre od un cinghiale delle sue caccie era
cotale misfatto da averne strappata la lingua, o peggio ancora.
I tre masnadieri, riposte da un canto le armi, si adoperarono allo
scorticare le lepri, raunarono legna in mezzo al prato, infilarono
le cacciagioni sur uno spiedo, che era l’arma del Brescianino; ed
appoggiatolo a due bastoni forcuti, se ne servirono da girarrosto.
Maria intanto recava due ampii vasi del vino brianzesco più eccellente,
giacchè l’accorto Mandellone soleva esser cortese con quei ladri che
non isminuzzavano le lire di terzoli, ma davano generosamente fiorini
d’oro, senza mai chiederne il resto. Alloraquando le lepri si furono
cotte, sdraiaronsi sull’erba sotto gli alberi; e dopo avere invocato
la protezione della Vergine, si posero a mangiar festosamente, ed a
trar lunghe golate dai vasi a salute del Conte di Virtù e ad ignominia
di Bernabò, mescendo però saviamente agli augurii le invocazioni del
passaggio di ricchi viandanti, onde cavarne buono scotto.
Compivano appena il loro pasto, quando udissi risuonare in voce nasale,
sulla medesima sponda destra del fiume, un _Deo gratias_. Si volsero
presti, e videro all’estremo del sentiere che scendeva dall’erta
un frate in aspettazione della zattera. Mandellone avvertì i suoi
commensali che avrebbe mandato a passarlo, perocchè non era quegli
persona da cagionar loro timore di sorta. E pel vero non sarebbonsi per
lui scostati d’un passo, siccome fecero tosto, se scorto non avessero
dall’altra banda venire da Canonica per le arene del Brembo alla volta
dell’Adda due uomini a cavallo preceduti da un contadino. Presero essi
le loro armi, calarono sulle fronti il cappello, e ripararono da un
lato dell’isola dietro un gruppo di piante. L’ombra gittata dall’alta
sponda a ponente del fiume spandeva sulle acque e sull’isola una
sufficiente oscurità per toglierli facilmente all’altrui vista, giacchè
i raggi del sole già vicino al tramonto si riflettevano appena sui rami
più elevati degli alberi.
Intanto il frate, che aveva attraversato il fiume sulla zattera,
s’avviava pel sentieruolo dell’isola inverso il prato. Sebbene le
scorrevoli acque dell’Adda mantenessero quivi una grata frescura, pure
il calore della stagione e il sereno dell’aere erano tali da invitare
allo starsi a testa scoperta: ciò nulla meno quel monaco portava sul
capo il suo pesante cappuccio, e lo teneva abbassato sin quasi sugli
occhi. La grossa veste di lana a colore ulivigno che gli scendea
sino ai piedi, sembrava chiusa superiormente ed avviluppata intorno
al mento: per lo che non appariva del di lui viso altro che un naso
adunco, due occhi neri, e alcuni peli rossastri che gli ombravano
le guancie. Era uomo costui d’alta statura, di portamento franco
ed altiero, ben diverso da quello che convenivasi ed un religioso
mendicante: teneva ambe le mani insaccate nelle larghe maniche, e
procedea lentamente. Giunto innanzi alla casa di Mandellone, porse a
Trado una picciola moneta; e gli dimandò se nel primo paese, varcato il
fiume, si trovassero conventi. Trado rispose che no: e il frate, girato
uno sguardo intorno, chiesegli se avrebbe quivi potuto passar la notte:
il famiglio soggiunse, attendesse il padrone: che se quegli assentiva,
avrebbero cercato di ricoverarlo alla meglio nella loro povera casetta.
Il frate chinò il capo, e andò ad assidersi sovra un sasso locato alla
porta dell’abituro.
Mandellone, a cui il ricco vestire de’ due viandanti che venivano a
dilungo del Brembo avea fermato il pensiere, lasciò si ritraessero
gli amici, corse alla zattera, e addottala all’altro lido, quivi fe’
alto onde riceverli. Accostatiglisi i passeggeri, scesero dalle loro
cavalcature, e vennero a due riprese passati: il villico che avea loro
servito di guida, ebbe la mercede, e fu rimandato. Il primo de’ due
stranieri che s’avea valicato le acque, era un giovane di bellissime
forme, snelle insieme e robuste: il di lui viso andava altiero per
maschie tinte, e ne’ lineamenti sentiva altamente di un far nobile ed
espressivo. Sebbene atteggiasse lo sguardo imperiosamente, pure le sue
pupille apparivano sede di sentimenti dolci ed appassionati; il suo
capo era coperto da uno scuro berretto adornato da due candide piume;
e sotto questo cadevagli sugli omeri nerissima capellatura foggiata a
leggiadre anella. Il collo mostravasi nudo; e l’abito color ranciato
non gli scendea che al ginocchio, mentre lo difendeva internamente una
fina corazza d’acciaio; ne’ fianchi lo cingea larga cintura di pelle,
rafferma all’avanti da aurato fermaglio; ed a tracollo portava una
ciarpa azzurra, a cui s’appendeva la spada di ricca impugnatura. Egli
conduceva a mano un bianchissimo destriero, il cui arcione e le briglie
erano fornite di ricami e dorature. Quegli che lo seguiva, mostravasi
abbigliato quasi alla stessa foggia, benchè meno riccamente; e il di
lui cavallo portava in groppa un grosso involto, lo che dava indizio
dell’essergli scudiere.
Quando pervennero all’abituro di Mandellone, questi disse loro se
amavano ristorarsi: ed iva loro esagerando la lunghezza e l’andar
malagevole del cammino di Vaprio. Gli stranieri fiaccati dal caldo,
colle fauci esauste dalla polvere della strada, sedotti d’altronde
dalla freschezza e amenità del luogo, assentirono al prendere un po’ di
posa, ed ordinarono a Mandellone di recar loro un vaso di vino. Chiamò
questi la figlia Maria, chiamò il famiglio, e li pressò a ben servire
quei signori. Egli intanto si diè cura di acconciare con eleganza sur
un gran piatto di rame i rimasugli del suo pasto coi ladri, e venne
a presentarglielo siccome vivanda degna d’eccellente convitto. Sulla
rozza tavola ov’egli depose il piatto delle lepri, aveano di già
Trado e Maria arrecato i vasi del vino, il pane e gli altri utensili
della mensa. Lo scudiere non fu tardo a gittarsi su que’ cibi come
avoltoio, e trangugiarseli a grossi bocconi. Il cavaliere all’incontro
bevette alcuni sorsi di vino, quindi s’adagiò sur un tronco d’albero,
e volgendo gli occhi tra quelle piante, assunse in viso una tinta di
soave malinconia: chinò il capo, appoggiandolo al palmo della mano, e
parve assorto in profonda meditazione.
Il frate, che all’arrivo di que’ due forestieri s’era precipitosamente
ritirato dietro le piante, sostò fra quelle a guatarli per alcun
tempo, esternando tratto tratto atti di stupore. Avanzossi di
queto verso di loro; e avvicinatosi, inchinò umilmente la testa; e
portandosi le braccia al petto, disse: «Dio vi salvi, o fratelli.»
Lo scudiere gli porse uno sguardo di dispetto, quasi credesse costui
uom venuto a dividere le sue provvigioni: ma il cavaliere al suono
di quella voce alzò lo sguardo; e miratolo fisamente per qualche
istante, levossi in piedi siccome chi è côlto da maraviglia. Il
frate gli andò dappresso con circospezione, e preselo per mano, seco
il condusse lungo il sentiero a man ritta: quivi, dopo aver data
un’occhiata d’intorno, trasse subitamente indietro il cappuccio, e
scoverse un’altiera testa ricinta da rossi capegli. Attonito a quella
vista il cavaliere, esclamò: «Come, Aldobrado, tu qui?» Ma l’altro
ricopertosi immediatamente, portò il dito alla bocca accennandogli di
tacere. Indi accostatoglisi all’orecchio, con voce bassa e interrotta
gli disse: «Voi non sapete, Palamede, quali terribili avvenimenti
siano accaduti in Milano da venti giorni? Bernabò, i suoi figli,
la signora Donnina de’ Porri, Ginevra (a questo nome il cavaliere
impallidì) furono imprigionati, e quest’oggi stesso vennero condotti
al castello di Trezzo.» Il cavaliere sbigottì a sì fatta novella, ed
eccitò Aldobrado a narrargli come si fossero queste venture accadute.
Ritornarono a questo fine nel prato, ove Palamede per allontanare lo
scudiere intimògli andasse ad abbeverare i cavalli nel fiume: indi,
seduti a fianco l’un l’altro, Aldobrado gli fece minuto racconto
dell’imprigionamento del vecchio Principe.
Narrò egli siccome Giovan Galeazzo, nipote di Bernabò, il quale sino
a que’ giorni portava soltanto il titolo di conte di Virtù, e che
tenea sede in Pavia, vivendo vita tranquilla, e servando fama d’uom
bacchettone e dappoco, si fosse partito dal suo castello il giorno
sei di maggio, spargendo voce di volere pellegrinare per divozione
al Santuario della Vergine del Monte sopra Varese. A mal disegno però
s’aveva menato con sè più di quattrocento uomini armati. Giunto alla
distanza di due miglia da Milano, eranglisi mossi incontro fuori di
Porta Ticinese i signori Rodolfo e Ludovico, figliuoli maggiori di
Bernabò, i quali vennero da lui accolti con atti di cortesia: poscia
arrivato alle mura della città, non entrò già per Porta Ticinese, ma
girando a mancina lungo il fossato s’incamminò verso il Castello di
Porta Giovia[3]. Pervenuto appena alla _pusterla_ di Sant’Ambrogio,
s’abbattè presso le mura di quello spedale in Bernabò, il quale
cavalcando una mula traeva innanzi con pochi de’ suoi, onde riceverlo.
Giovan Galeazzo, fattoglisi vicino con ilare aspetto, diè di subito
un segnale: e Giacomo del Verme, il quale capitanava le lancie di
Galeazzo, fu il primo a por le mani addosso a Bernabò, e gridare
ch’egli era prigioniero. Ottone da Mandello gli tolse dalle mani
le briglie e la bacchetta; e recidendogli il pendon della spada, lo
disarmò: il che fu pure eseguito verso gli altri cortigiani e verso i
figliuoli del principe. Fatti in tal guisa prigioni, vennero trascinati
al castello di Porta Giovia, e chiusivi nella torre con buon numero
di guardie. Poscia Giovan Galeazzo entrò co’ suoi militi in Milano; e
sparsasi novella dell’accaduto, trasse a lui tutto il popolo gridando:
_Viva il conte di Virtù: muoiano le colte e le gabelle_. Galeazzo
venne riconosciuto per signore; e si piacque permettere alla plebe il
saccheggio dei palazzi di Bernabò e de’ suoi figli: sicchè in breve vi
andarono a ruba tutti gli argenti, le gioie, i denari e ricchissimi
arredi; indi si posero a sacco gli uffizi de’ dazi e delle gabelle,
e se ne arsero i libri. Il principe e la di lui famiglia stettero
rinchiusi nel castello di Milano sino al giorno venticinque, in cui
di buon mattino vennero spediti sotto scorta armata, condotta da
Gasparo Visconti, acerbo inimico di Bernabò, al Castello di Trezzo. Co’
prigioni erano il padre Leonardo degli Eremiti di Sant’Ambrogio _ad
nemus_, Donnina de’ Porri, di cui conoscevasi il generoso carattere,
e che s’aveva ottenuto licenza da Galeazzo di poter seguitare Bernabò
nel luogo della di lui reclusione, unitamente alle sue figlie Ginevra e
Damigella, le quali colla vecchia Geltrude, chiuse in una paraveréda,
doveano cogli illustri prigionieri essere già entrate in castello.
«Io (proseguì Aldobrado), che voi ben sapete di quale amicizia fossi
legato a Bernabò, paventando l’ira di Galeazzo, e assai più del popolo,
che nel bollore della rivolta uccise Baldizone e il Malaspina, stetti
celato sino a questo istante da mia sorella Lucia, sperando che la
plebe, o le milizie fossero per volgersi novellamente a nostro favore.
Ma allorchè mi fu narrato che tutti i cittadini di Milano avevano
acclamato signore Giovan Galeazzo, ed il vecchio Bernabò doveva venire
tradotto dal castello di Porta Giovia al forte di Trezzo, divisai
di recarmi a salvamento. Questa istessa mattina fuggii col nome e
gli abiti di mio fratello Bernardo cappuccino, col pensiero di farmi
soldato da ventura, e pormi a servigio o dei signori della Scala, o dei
Veneti; oppure congiungermi a’ Ghibellini di Toscana, che ben sapete
quanto amino Bernabò. Così mi sarà dato tentare di muovere qualche
potente soccorso a vantaggio del mio antico signore.»
Palamede, a cui avean trafitto l’animo le narrazioni di quel funesto
successo, prese la mano d’Aldobrado e gli disse: «Sa la Vergine Santa
se io non retrovolgerei con tutta la brama il mio cavallo per teco
ritentare la sorte dell’armi a fine di trarre Bernabò dalla prigionia
ove l’ha gittato il tradimento; ma ripartirmi senza vedere dopo due
anni di dura assenza le torri e le mura della mia Milano, riedere senza
fisarmi in Ginevra, senza parlarle, non posso. Io ho abbandonate le
più belle speranze di gloria e di potere che mi si apparecchiavano da’
Veneziani, per ritornare a lei. Non sarà un mese che la laguna e S.
Marco risuonarono d’applausi tributati al mio valore: ma tutto feci
per lei. Ella mi cinse la spada: e allora giurai per lei stessa e per
Sant’Ambrogio di deporla dopo due anni coperta di gloria a’ suoi piedi.
Ned io posso mancare al giuramento: nè fia che alzi lancia o spada in
guerra, se prima non ho veduta Ginevra.»
Aldobrado, sebbene della nobile stirpe de’ Manfredi, aveva costumi
da sgherro anzi che da amico intimo d’un Principe (se pure Bernabò
ebbe intimi amici): laonde era troppo estranio ai sentimenti d’amore
e d’onore cavalleresco per concepire nella loro forza le parole di
Palamede; e ritornando alle abituali sue idee di crudeltà, proruppe
con ironico sogghigno a così dire: «Voi penderete appiccato senz’occhi
dal più alto merlo delle torri di Trezzo prima di satisfare al vostro
giuramento. Ginevra è chiusa fra impenetrabili mura; e a cento passi
del castello sta indubitatamente la morte. Nè vale bravura: ch’io ben
mi so quali soldati abbiano scelto per far quivi la guardia. Rimontate
a cavallo, date a me quello dello scudier vostro, e andiamocene a
Verona. — No (rispose l’altro), se mi dovessero gittare nel forno
di Monza. — Ma come credete riuscire nella vostra pazza impresa? —
Me ne andrò da Galeazzo, invocherò da lui di vedere Ginevra, e meco
menarla sposa in altre regioni. Quali timori potrà destargli, quali
sospetti una giovinetta timida, innocente, la di cui forza sta nella
bellezza, e la di cui sola ambizione sarà la gloria del proprio sposo!
Oh certo egli saprà accordarla alle mie preci. — Lasciatevi scorgere
entro le porte di Milano (disse l’altro freddamente), e vorrei essere
arruotato vivo se voi non marcite nella Malastalla[4].» Palamede cadde
a queste parole in seria meditazione, interrotta a quando a quando
da profondi sospiri. Aldobrado si alzò, fisò un momento lo sguardo
sovra di lui: indi, movendo l’occhio irrequieto, e concentrandosi
in riflessioni, fece qualche moto colle braccia, come se gli si
allacciassero dispiacevoli idee; indi a lui vòlto: «Ebbene (disse)
giacchè volete assolutamente veder Ginevra, io ne conosco il mezzo, ma
è ardito e terribile. — Spiégati (disse l’altro con ansietà, sorgendo
da’ gravi pensieri in cui tutto erasi immerso): dovessi affrontare
un’armata (e portò la mano alla spada), io non tremo. — Sappiate
(proseguì Aldobrado) che ho veduto, saranno tre lustri, a ricostruire
ed ampliare il Castello di Trezzo, e ne conosco le fondamenta più
che il palmo della mia mano. Allora io vidi scoprirsi, e qualche
volta dappoi (e sì dicendo espresse col volto un atto involontario di
ribrezzo) io mi trovai per ordine di Bernabò in un sotterraneo che ha
l’uscita in fondo agli scogli dell’Adda, e l’ingresso in un sepolcro
della cappella dei morti della chiesa del castello: se voi trovate il
modo di avvertire Ginevra, perchè vi si rechi, e se avete coraggio di
penetrarvi, potrete seco voi condurla, senza aver d’uopo d’invocare
concessioni da Galeazzo.» Un lampo di gioia brillò a questi accenti
sul viso di Palamede, abbracciò Aldobrado: «Eh ch’io possa (esclamò)
vederla, parlarle, premere la sua mano sulle mie labbra, e saprò
sostenere animoso tutte quelle venture di disagio e di perigli che
al cielo piacesse prefiggermi. — Ma vi avverto (Aldobrado continuò)
che l’impresa è scabrosa; ch’io v’addito i luoghi, nè vo’ seguitarvi:
d’altronde saranno indispensabili due uomini molto pratici di questi
dintorni, e sperti vogatori, onde guidare e tener ritta una barca sulla
corrente dell’Adda. — Quanto al pericolo, io so sprezzarlo; ma dove
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