Il castello di Trezzo: Novella storica - 14

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L’aríolo, che aveva più volte veduti e maneggiati veleni, s’accorse ben
tosto dal colore verde-giallo che veleno appunto era quella polvere
infusa da Lanza nella fiala. Tosto gli occorse al pensiero che in
un angolo del parco del castello avea altre volte veduta crescere
un’erba la cui radice, bollita con fresco latte, era ottimo antidoto
alle inghiottite velenose sostanze. Racconsolato da tale scoperta, e
gioiendo in sè stesso pel colpo di difesa che poteva recare a quello
che stava per iscagliare il finto scudiero, proponendosi, appena
spuntasse il giorno, di disporre il suo contravveleno, s’adagiava
al riposo; allorchè udendo rumore di persone, le quali uscendo dagli
appartamenti di Bernabò attraversavano il cortile, e distinguendo in
esso la voce di Palamede, pensò essere saggio consiglio il recarsi ad
avvertirnelo di tutto, giovandogli per far ciò celatamente la fitta
oscurità della notte. Seguendo tale idea, cheto cheto lasciò la sua
cameretta; ed a passi leggieri venendo lungo il porticato, entrò nelle
stanze in cui s’era ritirato il cavaliero.
Palamede, che non respirava che pensieri d’amore e di gioia, fu
preso da stupore nel vedersi apparire davanti l’aríolo a quell’ora;
e s’accrebbe la sua sorpresa quando questi fatto cenno col dito che
tacesse, accostatoglisi: «Con grave mia pena (disse a voce sommessa)
son costretto a porvi in cuore una spina che parte vi distruggerà della
contentezza recatavi dalla signora Ginevra. — Che mai avvenne? (chiese
palpitando Palamede, cui si trasfuse subito in cuore l’agitazione
che stava in volto ad Enzel, recandogli un’affannosa tema). — Nulla
sinora di disastroso (rispose questo); ma discoprii una serpe che
attende la letizia dei conviti per addentare una segnata vittima. Sì,
ad alcuno di voi dee scorrere di certo per le vene il veleno: esso è
già in pronto; domani a quest’ora potrebbe avervi colpito ed ucciso. —
Che dici? (esclamò Palamede atterrito) è preparato per noi il veleno?
Giovan Galeazzo mi avrà forse lasciato entrare in questo castello per
togliere in una sol volta la vita a me, a Bernabò, a suoi figli?...
Qual tradimento?» A questo pensiero trasportato da un impeto di furore,
impugnata la spada: «M’indica, aríolo (gridò), chi deve eseguire sì
infame comando: io gli passerò questo ferro dieci volte nel cuore.»
Enzel all’infuriare del cavaliero fu preso da doppia paura: temeva che
qualche persona avesse ad udire quegli accenti pronunciati con forza
dal cavaliero, o che questi acciecato dall’ira volesse eseguire ciò che
minacciava; il che riusciva per lui egualmente fatale.
Adoperossi perciò con atti e parole ad acquetarlo; e paventando di
non poterne frenare lo sdegno se palesava tutto ciò che aveva visto
ed udito, determinò in sua mente che bastava a’ suoi fini l’aver
posto Palamede in avvertenza, onde mirando a calmarlo, fingendo di
ritrattarsi, ed addolcendo la voce: «Potrebbe essere (disse) che false
immagini m’abbiano illuso, facendomi veder veleno là dove non eravi
forse che un liquido innocente; ma comunque però sia la cosa, vivete
tranquillo: io tengo disposta una bevanda che ingoiandone poche goccie
al manifestarsi dei sintomi d’attossicamento ne distrugge affatto la
forza. Se per disavventura si avverasse il mio sospetto, io non sarò
mai lontano da voi: chiamatemi, e vi porgerò l’infallibile medicina.»
Queste parole ritornarono più queto il cuore di Palamede. Egli mirò
Enzel attentamente; e vedendone la faccia sconvolta e il guardo vagare
incerto esprimendo interna paura, rammentossi che in quel castello
avea esso corso altre volte pericolo della vita, e pensò che fossero
le sue visioni mosse da panico terrore che il facesse delirare:
onde così rapidamente come avea ricevuta la dolorosa impressione,
accolse quella consolante idea, che la prima cancellava; ma sentendo
nell’istesso tempo pietà dell’aríolo, che credeva trasognante,
affabilmente gli prese una mano, e gli disse: «Ritorna al luogo del
tuo riposo; chiudi pure con placidezza gli occhi al sonno, che io
ho certezza di qui ritrovarmi frammezzo a uomini che non vorranno
attentare alla nostra vita; ne tengo franchigia nei sensi stessi
espressimi da Giovan Galeazzo. Va sicuro; e se funesti pensieri ti
turbano la mente, pensa che domani deve essere per noi tutti un giorno
d’allegrezza. — Un giorno d’allegrezza!... (esclamò l’aríolo con tuono
mesto e solenne, crollando il capo) Lo voglia la Vergine e il glorioso
Sant’Ambrogio!...» Indi serrando la mano a Palamede, e dandogli un
ultimo espressivo sguardo, uscì da quelle stanze.
Il cavaliero seguitollo sino al limitare del cortile. Ivi la densa
oscurità che regnava l’arrestò; da cento diversi moti in seno agitato,
fissò con terrore quelle imponenti tenebre. Appena il profilo delle
mura distinguevasi dal cielo nero; la debole luce d’una lampada della
chiesa che trapelava dalle vetriate, era il solo lume che si scorgesse:
profondo dominava il silenzio, e non udivansi che i passi di Enzel
che s’allontanava, e l’incessante romoreggiare dell’Adda a piè del
castello.
Una paura, un segreto palpito di spavento lo assalì; parvegli scorgere
aggirarsi per l’aere oscuro ombre di morti, ed udire stridule infauste
voci. Si ritrasse velocemente nella propria stanza: ivi si chiuse, e si
piegò innanzi ad un sacro dipinto in fervorosa preghiera. Svanirono a
poco a poco i suoi timori, e l’immagine di Ginevra possedendolo tutta
sola, gli ritornò la gioia nell’anima. Allorchè però si fu coricato,
pensando alle parole, al volto, agli ultimi accenti di Enzel, crudeli
presentimenti lo invasero di nuovo e dolorosamente gli contristarono il
cuore.
Al sorgere del diciannove dicembre, giorno che seguì quello della
venuta di Palamede al castello, Bernabò destossi da un lungo profondo
sonno; e la prima fiata da che era in quelle mura sentissi scendere in
petto un dolce conforto nel pensiero delle vicine nozze della propria
figlia. Levatosi, si recò nella sala maggiore, e volle che tutti i
suoi venissero a fargli corona: essi infatti colà si raccolsero, e con
festosa ilarità molti beni da quel giorno si auguravano.
Ginevra appariva oltre ogni dire bella e ispirante soavi sentimenti: le
si scorgeva in fronte la contentezza, e i suoi azzurri occhi amorosi
si volgevano pieni di contentezza; più ricche e leggiadre portava
le vesti; le bionde chiome con maggior grazia inanellate, ed in più
vaghe treccie sul capo ravvolte. Appressando la madre, attendeva con
ansia Palamede; ed allorquando ivi giunse, da quel desiderato aspetto
inebbriata, d’un roseo colore suffuse le guance, appalesò sul viso il
tripudio del cuore.
La notte fra le agitazioni trascorsa, e il malaugurato sospetto aveva
fatto pallido il volto del cavaliero; ma al primo mirare la sua bella
fidanzata, sparve dal suo spirito come sogno fugace ogni tristezza, e
i suoi pensieri si fecero ridenti. Accolto con un amplesso da Bernabò,
venne poscia ad imprimere, palpitando, sulla destra a Ginevra un bacio
d’amore. Lodovico fraternamente abbracciollo; e fra l’espressione del
reciproco affetto, rammentando la loro passata intimità, ridestarono
mille dolci memorie di Milano e delle loro usate occupazioni, delle
armi, de’ privati tornei e delle corse.
Palamede tenendosi stretto al fianco il giovin figlio di Bernabò:
«Ginevra (disse, mirandola con tenerezza), amaro sommamente riuscir dee
al vostro cuore il disgiungervi da questi cari parenti, abbandonandoli
entro le triste mura d’un castello; ma io ho la ferma speranza, e
ciò sia per voi consolante pensiero, che venuti al cospetto di Giovan
Galeazzo, potremo, colle nostre replicate istanze, cangiare in meglio
la sorte loro.» A Ginevra per questi detti si bagnarono gli occhi di
pianto, e delle braccia cingendo Donnina, ascondendole il volto in
seno: «Madre mia (esclamò), se chi vi tiene qui rinchiusa non ha cuore
di ferro, io tanto da lui e dal cielo invocherò colle lagrime e colla
voce, che voi, e con voi questi altri tutti, verrete liberi nel mio
soggiorno, ed allora potrò chiamarmi compiutamente felice. — Il mio
destino (rispose affettuosamente Donnina additando Bernabò) dipende dal
suo; sposa tu stessa, sentirai fra poco che ogni diletto di moglie sta
nell’essere vicina e nel recar sollievo all’uomo cui si va congiunte.
Per me il mondo più non possiede attrattive; qualunque dimora mi è
egualmente cara, purchè io possa giovare a quello cui ho consacrata
la mia vita. Iddio conosce se mi duole il lasciarti; ma dandoti ad
un prode cavaliero che ti provò sì altamente l’amor suo, io m’affido
in lui che ti avrà ogni tenera cura; e fatta madre de’ suoi figli,
addoppierà per te la stima e l’affetto.»
Palamede, a lei ed a Ginevra rivolto, giurò che morrebbe cento volte
anzi che cessare un istante d’aver cara la sua sposa sovra ogni altro
oggetto; ed espose di volerla tener sempre in quell’elevato grado a cui
i di lei nobili natali l’avevano destinata.
Bernabò da lunga pezza era rimasto in attitudine meditabonda; ma
all’udire questi detti del cavaliero, parve risentirsi; e con certa
lentezza di voce come di chi vaga col pensiero su lontane memorie, e
con sguardo immobile affissato nelle immagini della propria fantasia.
«L’altezza del grado (disse), le ricchezze e il potere sono forse i
più tristi doni della fortuna. Io li possedetti per lunghi anni, or
ne conosco il giusto prezzo. Che mi hanno essi recato di bene? Non mi
sforzarono a mantenere sempre vive atroci guerre, a comandar punizioni,
ed ohimè... a commettere chi sa quanti delitti? Fra il sangue versato
e il terrore dei tradimenti non v’è calma, non v’è pace pel cuore.
— I trionfi — le feste — l’oro profuso non giovano — no — a far paga
l’inquietudine profonda che agita lo spirito e lo tormenta. Nei palagi,
nei castelli, fra i cortigiani e le armi ebbi io mai tranquillità e
contento? — O miei boschi di Marignano! Per le vostre ombre camminando
solingo, io mi sentiva più sicuro che cinto da bastite e da spade —
là scorrevano per me placide ore — quante volte fra l’alte piante,
sui bei pendii del Lambro, guidando lento il destriero, mi sorprese
la notte — allora — allora soltanto svaniva il peso che mi gravava il
seno, nè temeva pugnali, nè agognava vendette. — Chi vi dava, o acque,
nel vostro solitario corso un suono soave? — Chi porgeva un’armonia al
vento della sera che agitava sul mio capo le frondi? — Io trovai nelle
selve i diletti che non rinvenni più mai nelle mie corti. — E tu, o
contadino, che mi fosti guida in una notte oscura ad uscir dal bosco,
tu, la cui miseria ti toglieva il dividere il pane co’ tuoi figliuoli,
non ti vid’io più lieto del dono di poche monete, di quello ch’io nol
fossi stato giammai per le più grandi vittorie? Ancor mi rammento le
tue parole: Tu mi chiedevi qualche cosa per amor di Dio, perchè avevano
usurpati i tuoi campi. Ah! perchè non t’ho io dato le mie città, i
miei tesori, e non ho cangiato i miei palazzi colla tua capanna! — Or
qui non sarei... (ma abbandonando ad un tratto questo pensiero che
gli chiamava sul volto la tristezza e lo sdegno, e cangiando corso
all’immaginare, converso a Palamede, proseguì) — Io spero che il conte
di Virtù non avrà estesa la sua mano rapace anche sui beni ch’io donai
nei giorni della mia prosperità: se la cosa è così, tu avrai ventimila
fiorini d’oro che io costituii in dote a Ginevra sul marchesato della
Martesana, da me regalati a sua madre; quel danaro si trova ora in
custodia di Rinaldo de Porri suo zio; da lui ti reca, ed egli te lo
sborserà.»
Palamede lo accertò che ancorchè il conte di Virtù avesse privato di
quella dote Ginevra, il che non credeva fosse avvenuto, egli possedeva
bastevoli mezzi per farla andar pari alle più doviziose dame di Milano.
Era tra questi ragionamenti venuta l’ora del pranzo, e due paggi
entrarono ad annunziare che la mensa stava disposta. Per ordine di
Iacopo del Verme fu la tavola preparata in una delle più adorne sale,
e fregiata cogli utensili più ricchi che ivi si ritrovassero. Smaltati
a diversi colori vedeansi i vasi di cristallo che capivano i vini, i
bicchieri avevano gli orli d’oro, d’argento erano i tondi, con vaghi
contorni, e le saliere di belle forme stavano con simmetria sul desco
disposte. In mezzo della mensa vedeasi entro gran piatto la testa d’un
grosso cignale con arte rivestita degli irti peli, ed a cui risortivano
dalla bocca candide le zanne; le facevano cerchio lepri, fagiani ed
altro selvagiume.
Tutti vi si assisero intorno: Bernabò stette a capo di essa, e gli
si sedette d’appresso Palamede. La squisitezza dei vini ed i gustosi
cibi posero da loro in bando ogni men lieto pensiero, e dettarono
sollazzevoli motti.
Dato termine al primo servito, mentre alcuni donzelli portavano le
zuppiere colle minestre per gli altri commensali, un paggio s’avanzò
recando sovra una sottocoppa d’oro una scodella coverta, e venne a
deporla innanzi a Bernabò: conteneva essa fagiuoli, suoi favoriti
legumi[16]. Scoperchiata la scodella, ne esalarono densi vapori:
Bernabò si diede a ghiottamente mangiarli; ma allorchè n’ebbe la
maggior parte consunti, arrestossi d’un colpo, e disse: «Qual infernale
sapore m’ha offeso il palato! io non ho mai inghiottita più disgustosa
vivanda; toglietemela davanti.» I servi obbedirono.
Passò a tali parole un lampo funesto per la mente di Palamede, che
impallidì; ma vedendo che Bernabò, accostatosi altro cibo, ne mangiava
con cupidigia, nessuno sgomento dimostrando, ritornò tranquillo. Il
pranzo lietamente procedea: molte vivande erano state successivamente
recate, quando a Bernabò, che gettò da se lontano il cibo tralasciando
tutto ad un tratto di mangiare, manifestossi in volto un eccessivo
pallore; portò le mani al petto, come forzandosi di contenersi, ma
involontariamente fece dolorosi contorcimenti.
Tutti si alzarono sorpresi, e raccerchiarono chiedendo che avesse:
tacque egli un istante ancora, ma poscia dovette palesare che sentivasi
acuti dolori allo stomaco. Una mano gelata piombò sul cuore di
Palamede: senz’altro dire abbandonò quella sala, e precipitoso corse a
ricercare dell’aríolo. Frugò le stanze, i cortili, le stalle, per tutto
il chiamò e richiamò, senza che quello mai gli rispondesse; ne chiese
replicatamente agli uni, agli altri: tutti asserivano di non averlo in
quel giorno veduto; affannato recossi presso la porta del parco; ivi
addomandando un milite che incontrò, udì dirsi che Enzel era entrato
sul far del giorno nel parco, ma che non s’era più veduto uscirne.
Palamede entrò quivi rapido; e vedendo la neve da molte orme segnata,
le seguì e giunse dove eravi uno spazio di terreno scoperto; ma quivi
presso non stava alcuno, se non che vide di là cominciare una striscia
di sangue, ch’egli seguendo atterrito, il condusse alla torre nera
di Barbarossa, entro cui quella sanguigna traccia finiva, ma ivi pure
non eravi persona vivente. Gridò forsennato, chiamando Enzel; ma non
gli rispose che l’eco di quelle diroccate mura con un cupo rimbombo;
ricalcò desolato quella via, rientrò nel cortile; e fatte invano nuove
ricerche, risalì disperato nelle sale del principe prigioniero.
Bernabò, cui s’erano aumentati dolorosi sintomi, tolto da quella sala,
era stato portato sul proprio letto: ivi giaceva col viso squallido,
le chiome scomposte, e rigettate dal seno le coltri, irrequieto si
dibatteva anelando. Donnina, le figlie, frate Leonardo, dalla più
grande costernazione compresi, s’adoperavano intorno a lui per recargli
sollievo. I suoi dolori si facevano di momento in momento più acerbi;
un calore abbruciante gli si sparse per le membra, e venne assalito da
una ardentissima sete. Gli fu tosto recata fresca acqua, che avidamente
bevette, e pel consiglio di Donnina prese tiepidi brodi. Ma poco stette
che da fieri sussulti il suo petto sconvolto rigettò quelle bevande
e parte dei cibi che aveva inghiottiti. Ciò parve giovargli, poichè
dopo quel rigurgito d’alimenti i suoi dolori si alleviarono, il calore
si fece meno ardente, e la sete si mitigò. Riconsolati a tal vista
pendevano tutti dal suo aspetto colla speranza che avesse termine quel
suo terribile sconvolgimento.
Ma i dolori gli si ridestarono più forti, tutte corrodendogli le
viscere; un’arsione feroce gli investì le carni, e la violenza del
tormento portò alla sua anima una mania; gli si fece lo sguardo deliro,
tentò rialzarsi; e rabbiosamente strappandosi i lini dal seno, mandava
disperati lamenti; tremende visioni in quella demenza gli assalirono
lo spirito; con ansia faticosa profonda, con voci aspre e tronche: «Tu
(gridava) mi fai porre su queste brage.... e non vuoi perdonarmi?..
Cessate... allontanate quei tizzoni... io sono Bernabò... Incatenate
i cani; essi mi lacerano il corpo... Io solo ho fatto voi tutti
tormentare ed uccidere, ma io era vostro signore, voi non mi avete
obbedito... è troppo atroce la vostra vendetta... E tu, Matteo...
fratello... non io... Galeazzo... Galeazzo ti ha dato il veleno. —
Oh Dio!... quali pene!... i santi, la Vergine non mi ascolteranno?...
Sarà così eternamente?...» Una sincope lo oppresse. Palamede, Donnina,
le figlie, pallide, tremanti, lacerate da un’indicibile angoscia,
credettero fosse morto; ma egli destossi dal breve letargo, e tramandò
per le fauci un vomito nero. Un livido contorno gli si dipinse alle
pupille, e un sudor freddo gli coprì le membra. Il delirio della mente
cessò, volse intorno gli occhi incassati e semispenti, e fermògli sul
Crocifisso che frate Leonardo gli teneva con una mano levato innanzi al
volto.
Appena il frate lo vide in tal attitudine: «Bernabò (disse
pietosamente), a Questo, a Questo innalzate il pensiero, e sperate
nella sua immensa misericordia, invocate pentito l’onnipossente sua
destra, ed egli la stenderà su di voi, e vi darà forza di sostenere
i patimenti che vi tormentano, onde vi aprano la via al celeste
soggiorno, ergete l’anima al trono d’Iddio: questi brevi mali della
carne possono valervi l’eterna salute; egli vi chiama per una difficile
strada a compire la mortale carriera; voi benedite la mano del
Signore.»
Bernabò, le cui forze erano ormai estenuate, raccolte le braccia, e
incrocicchiatele al petto, tenendo sempre fisso lo sguardo, bagnato
di lagrime, nell’immagine di Cristo: «Mio sommo Dio (pronunciò), voi
che non colpiste mai colla tremenda ira vostra un cuor contrito che vi
si rivolse con umile preghiera, non isdegnate questi estremi accenti
d’un misero peccatore affranto dalle pene. Perdonate a me i miei gravi
e numerosi delitti, come io perdono a Giovan Galeazzo tutte le sue
offese, e questa tormentosa morte, che ben m’accorgo che da lui mi
viene; degnatevi, nel giudizio che mi attende, ricevere le preci de’
miei santi protettori, ed accogliere il mio spirito nel vostro seno.»
Indi dopo alcuni momenti di silenzio allungò la mano; e presa quella
di Donnina, che stava a fianco al letto quasi tramortita d’affanno, e
serrandogliela con quella potenza che gli rimaneva: «Perdona (disse),
o la più diletta compagna de’ miei giorni, i molti mali che per
me soffristi. Tu dividendo meco, volontaria, questo carcere, me lo
rendesti meno grave: io non ho accenti per render grazie a te ed al
Cielo che mi ti diede e mi accorda di morirti vicino.»
Scorgendo poscia Palamede mirarlo lagrimante, e Ginevra per celare la
propria desolazione coprire colle palme il volto: «Sembrommi (proseguì)
che questo dì fosse sorto per me felicemente: io gioiva nel pensare
ai vostri contenti; ma nel convito di nozze mi versarono in seno la
morte. Ciò non vi sia infausto presagio. Io era la meta dell’odio
degli uomini e dei celesti castighi; l’ultimo colpo fu scagliato: io
scendo nella tomba. D’ora innanzi voi vivrete sicuri. Rammentatevi di
pregarmi pace dal Signore: presso la pietra del mio sepolcro invocatelo
per me con lunghe orazioni — ivi insegnate ai vostri figli il mio
nome e le mie disgrazie — io — non posso — che benedirvi....» Tutti
caddero genuflessi al suolo; ed egli, alzata la destra tremante, fe’
il segno di croce. Proruppe uno scoppio di pianto e un sospirare invano
represso.
Bernabò tentò parlare ancora; ma la sua lingua e la bocca inaridite
non emisero che rauchi suoni indistinti — Gli sopravvenne un mortale
singhiozzo; crebbe l’ansia del petto — gli si manifestò un convulso
palpitare delle fibre — gli occhi si intorbidarono — il singhiozzare
addoppiò — stirò le membra gelate, le distese irrigidite — e spirò.
Un raggio occidentale trapelando per rotte nubi, illuminava nel
castello di Trezzo quella funerea scena.
Dietro l’altare maggiore di San Giovanni in Conca sorgeva un mausoleo,
sostenuto da sei colonne, sovra cui stava in bianco marmo scolpito un
destriero di naturale grandezza, il quale recava sul dorso un cavaliero
armato, che era l’effigie di Bernabò. In tale mausoleo, da lui stesso
fatto innalzare, venne per ordine di Giovan Galeazzo deposto con
magnifica pompa il suo cadavere, e celebratene in quella chiesa le
solenni esequie con isfarzo regale.
Lodovico fu condotto nel forte di San Colombano col fratello Rodolfo.
Ginevra e Palamede seguirono Donnina, che si condusse con Damigella al
suo castello della Martesana; ivi furono compite le nozze: nè essi più
apparvero alla corte del Visconte.

FINE.
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  • Il castello di Trezzo: Novella storica - 14
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