Il castello di Trezzo: Novella storica - 11

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seguente sul far della sera sarebbe giunto a Milano: fece per ciò
calcolo che al mezzodì all’incirca dovea giungere al fiume, e corse ad
ammonirne il cavaliere, che ansiosamente ne attendeva l’istante.
Appena comparve l’alba di quel giorno, Palamede abbandonò tacitamente
le piume e il palagio del marchese Azzo Liprando, mentre, per non
cagionare in quella casa agitazioni per lui, avea già mandato lo
scudiero coi cavalli e le armi in una lontana abitazione. Quivi
l’attendeva l’aríolo che si era svisato addossando abiti da taglialegna
e portando una scure, onde mischiarsi, se ne veniva il destro, fra i
ladri, per meglio spiarne i moti senza essere riconosciuto. Palamede
vestì la sola armatura del petto, chè non stimava degno di prode
guerriero l’armarsi a tutto punto per combattere assassini; ricoperse
il capo con una celata lombarda senza cimiero, e con visiera e fori
traversali; prese una lunga spada, non volle nè scudo nè lancia;
e salito in arcione, seguito dallo scudiero, armato esso pure, e
dall’aríolo, prese via ver Porta Vercellina.
Lasciate le mura della città, Enzel si pose di buon passo a camminare
a fianco del cavaliero. Indurata dal gelo era la strada, gli alberi
e il terreno biancheggiavano per le brine; sorgeva il sole come
un rosso disco, ravvolto nelle nebbie, dietro le torri di Milano.
L’aríolo, per distrarre Palamede dai tristi pensieri che la melanconica
vista dell’invernale squallore e il languire della natura gli andava
aumentando, si fece a narrare varii racconti tratti da storie, vere
in parte ed in parte con fino artificio da lui adattate alla di lui
situazione di animo; e frammezzando queste narrazioni col dispiegare il
modo a cui dovea egli attenersi nell’eseguire l’impresa alla quale si
era accinto, manteneva nel di lui cuore un entusiasmo che lo spirito
d’avventure dei tempi e il desiderio di vendetta facevano ancor più
vivo.
Passata a guado l’Olona, povera d’acque nella stagion delle nevi,
incontrando qualche rustico casolare e villaggio di distanza in
distanza, pervennero presso Magenta. Enzel consigliò il cavaliero
di non passare per quel borgo, onde non dar sospetto di ciò a cui
intendevano; ma ponendosi per un sentiero che correva fra i campi
ne andasse oltre al di fuori: «Io (disse) che con questi abiti sarò
sconusciuto, entrerò nel borgo e andrò nella casa dell’oste, per
osservare se vi si trovino persone le quali sappiano quanto sta per
accadere; e ci porrei il capo che alcuno della squadra d’Aldobrado
vi sta in sentinella per correre a recar avviso a compagni se mai
apparissero sgherri o soldati.»
Il cavaliero seguì il consiglio di Enzel; ed attraversando collo
scudiero, rasente una siepe di piante, alcuni campicelli, riprese al di
là dell’abitato la strada principale; soffermò il cavallo attendendo
l’aríolo, il quale dopo alquanti minuti il raggiunse a frettolosi
passi; ed appressatosi gli disse: «Due spioni dei ladri, travestiti
da miserabili storpi, stanno appostati alle estremità del borgo; e
fingendo chiedere l’elemosina, si accostano alle persone che vi entrano
od escono, e le esaminano attentamente: io li ho ravvisati sotto i loro
cenci, ma essi non conobbero me al certo. Nell’osteria, ho chiesto
carne di cervo all’oste; ed egli mi rispose che già da qualche tempo
più non ne cuoceva, a causa che occupando gli assassini i boschi e
le vallate d’intorno, nessuno oramai s’arrischia girne alla caccia;
e soggiunse che i signori del contado ed i villici, che talvolta
sono da loro molestati nelle proprie case, hanno fatta determinazione
d’armarsi in massa e sterminarli. — Troncherò io la testa del serpente
(disse il cavaliero, che la vicinanza del cimento rendeva più ardente
d’incontrarlo): presto, o aríolo, mi guida sulla traccia di queste
vipere; saprò io rintuzzarne le velenose loro lingue.» Indi, alzando
gli occhi al cielo, con voce solenne: «Siccome (disse) i più nobili
cavalieri non isdegnarono mettere le loro spade nel sangue degli
scellerati per liberare innocenti vittime dalle oppressioni, così io
voto il capo del traditore Aldobrado al glorioso Sant’Ambrogio ed alla
mia Ginevra.» Ciò detto, ripresero cammino alla volta de’ boschi.
Quanto però s’era aumentato l’ardore del combattimento nell’animo del
cavaliero, altrettanto se n’era scemato il desiderio nell’aríolo;
pensava egli che trovandosi senza elmo e corazza, la punta d’una
squarcina o d’uno spuntone gli potevano entrare nel corpo agevolmente;
giacchè se i ladri erano in gran numero, Palamede avrebbe trovato
molte faccende alla spada per proprio conto, senza vegliare alla di
lui difesa; ed Enzel teneva assai poca fidanza nella bravura dello
scudiero. Tali riflessioni agitavano la mente dell’aríolo, e stava
avvisando ai modi di scansare il periglio, allorchè guatandosi dintorno
vide che i coltivati campi andavano terminando, e la strada s’inoltrava
fra un’alta selva. Un tremito di paura l’invase tutto; ma mirando al
cavaliero che ancor teneva la visiera alzata, vedendone il contegno
fiero e sicuro, e temendone le rampogne se mostrasse viltà, riprese
coraggio, e nello scaltro spirito fece calcolo dei mezzi di porsi in
salvo senza guastar l’impresa; s’accostò quindi a Palamede, e disse:
«Non è convenienza il rimanere su questa strada, poichè io so che poco
lungi deve ritrovarsi Can-di-monte, posto a guardia per dar segnale ai
ladri, che saranno appiattati in vicinanza della strada del momento
in cui passeranno i viaggiatori Francesi; se esso ci scorge, darà
loro qualche segnale; ed essi rientreranno nel bosco, e il colpo ci
va fallito: meglio si è che cerchiamo di guadagnare la sommità della
valle di Ticino; tenendoci così alle loro spalle, noi potremo vedere
l’avvicinarsi di questi signori di Francia, e appena verranno assaliti,
accorrere improvvisi al luogo della zuffa.» Sebbene il cavaliero fosse
impaziente d’adoperare la spada, ed avendo in costume di combattere il
nemico di fronte in campo aperto, stesse qualche istante in forse che
quel prendere nascoste vie non offendesse le leggi del valore; pure,
persuadendosi che tale si era l’unico modo di venirne a capo, piegossi
alla proposta dell’aríolo, e pose il cavallo nella selva. Gli alberi
spogli di fronde, le boscaglie e gli spineti disseccati e rotti non
frapponevano che lieve ostacolo al loro passaggio; essi si diressero
alquanto all’interno: indi ripresero via in direzione della maggior
strada, e dopo non lungo andare pervennero al margine superiore della
gran valle, nel mezzo della quale scorre il Ticino.
L’aríolo, fattosi innanzi, trovò un luogo eminente nel terreno; ed ivi
chiamò il cavaliero, e glielo additò siccome opportuno ad arrestatisi.
Libera da quel sito scorrea la vista sovra la sottoposta valle, che
più estesa che erta s’allarga d’alcun miglio; i contorni occidentali
di essa si disegnavano sul lontano giogo delle alpi candide di neve,
che il sol meriggio irradiava. Selvaggi come natura li giva creando,
s’appresentavano per l’inclinato piano immensi boschi; le elci e pochi
altri alberi, che il verno non spoglia, porgeano all’occhio qua e là
le loro verdi foglie tra le altre infinite piante che i nudi rami
intrecciavano. Nel fondo della valle scorgevansi per varii tratti
le azzurre acque del fiume di cui i boschi impedivano di vedere la
continuità.
Poco al di sotto dell’elevato luogo ove trovavasi Palamede, la strada
per Novara scendeva verso il Ticino, e se ne seguiva coll’occhio lunga
pezza il giro: indi essa perdevasi, e ricompariva al di là del fiume
salendo l’opposto lato della valle; ma la distanza e le folte selve ne
la celavano tosto interamente.
«Vedete voi là (disse l’aríolo al cavaliero) quell’uomo con nera
giubba e cappuccio che stando sulla strada taglia lentamente colla
falce i rami sporgenti degli alberi, quello è Can-di-monte che attende
i passeggieri per avvertirne la masnada d’Aldobrado che certamente
sta in agguato poco lontano da lui, e forse tra quella massa d’alti
alberi. — Il veggo (rispose Palamede, cui scorgeasi in volto che gli
era penoso il più oltre frenarsi); ma dimmi, Enzel, or che sappiamo
dove Aldobrado si trova, perchè mi trattieni dal ritrovarlo anzi che
giungano questi passeggieri? Essi incontreranno più facile cammino
quando il ribaldo sarà ucciso.» L’aríolo, al compimento de’ cui disegni
ed alle precauzioni per la propria sicurezza premeva l’intervento dei
nobili francesi, con tutta la propria facondia si fece a dissuadere
il cavaliero da quella richiesta, e guardando il sole: «Già da un’ora
(disse) è passato il mezzodì; d’assai non ponno stare a pervenire in
questi luoghi.... Ma.... non m’inganno.... eccoli.... eccoli.... li
vedete voi?.... là.... dicontro a noi.... tre.... quattro.... cinque
uomini a cavallo.... discendono verso il fiume. Che c’è dietro a
loro?... Una _paraverèda_... donne.... dame sicuramente, e poi tre
cavalli con altre some.... È il duca Lodovico senz’altro. Che bottino
per Aldobrado se potesse riuscire a porvi le mani! Presto scendiamo:
entrate in questo letto di torrente, esso giunge vicino alla strada:
quivi attenderemo il giusto momento per uscir loro addosso. Se ci
scoprissero, perdiamo tutto il frutto della nostra fatica.»
Veduti i viaggiatori da lungi ed udite queste parole, Palamede mosse
il cavallo: lo scudiero il seguì, e l’aríolo si tenne dietro a loro:
per greppi e ciottoli discesero sin dove aveva indicato Enzel, e quivi
si fermarono cheti. Pochi istanti erano scorsi, quando uditosi uno
appressarsi di cavalli e di ruote, s’intese un fischio; un rumore gli
successe di genti accorrenti, ed un gridare improvviso, e percuotersi
di armi. Palamede diè di sprone al cavallo, calò la visiera, sguainò
la spada, e in pochi slanci fu sulla strada; il seguitava lo scudiero,
ma l’aríolo era scomparso. Di rapido galoppo il cavaliero fu in mezzo
alla zuffa. Presso un cavallo atterrato, stava facendo forza per
rialzarsi uno de’ passeggieri giovane e riccamente abbigliato; ma
un ladro, tenendolo a terra, gli misurava al cuore una pugnalata: il
cavaliero con un fendente spaccò a questi il capo e lo stese al suolo.
Tre altri viaggiatori assaliti ciascuno da più assassini, tratte le
spade, s’andavano difendendo; e un quarto più vecchio, già disarmato,
veniva violentemente strascinato da cavallo; altri ladri s’erano posti
intorno alla _paraveréda_, e ne discendevano le donne; ed alcuni,
scaricate le some, scioglievano i forzieri. Palamede, slanciatosi
fra loro, menando colpi maestri con vigoroso braccio, quanti colpiva,
tanti poneva a terra. Gli assassini, sopraffatti da questo inatteso
assalto, avevano abbandonati i passeggieri; e già ritraevansi al bosco,
quando l’un d’essi coperto da una pelle di lupo che vestivagli le
spalle, il petto e la testa, alzando furiosamente una mazza di ferro,
con voce orrenda gridò: «Giuro per l’inferno di fracassare il cranio
a chi non mi segue: stringiamoci insieme; uccidiamo.» Tutti a queste
parole corsero dintorno a lui; e in tal modo congiunti, scagliatisi con
estrema forza contro il più prossimo de’ passeggieri, lo rovesciarono a
terra in un fascio col cavallo. Palamede, udendo quelle voci, e vedendo
l’inferocito capo degli assassini, «Ti conosco (esclamò), ribaldo
traditore; ora tu stesso non potrai sottrarti alla mia vendetta.» Così
dicendo, verso di lui precipitando il destriero, mirògli colla punta
alla gola. Aldobrado iscansò il colpo, che venne a ferire un altro di
sua schiera, ed «atterriamolo, atterriamolo» gridava disperatamente.
Tutti gli assassini furono colle armi addosso al cavaliero, che
roteando la spada rapidamente d’ambo i lati, ribattè una tempesta di
colpi; e cogliendo il destro, e pungendo a due sproni il cavallo,
drizzò al volto d’Aldobrado sì giusto l’acciaro, che coltolo alla
guancia, lo traforò, facendoglielo uscire per la nuca; e così trafitto
il trascinò per la violenza della spinta più passi lontano; ove
cadendo, gli si scopersero i rossi capelli del capo, ed il feroce viso
apparve deforme e insanguinato.
I passeggieri, vedendo gli assalitori tutti dintorno al cavaliero, si
slanciarono essi pure alla lor volta contro di loro. Questi mirando
ucciso il condottiero, e sentendosi da forti spade incalzati, si
diedero alla fuga, cacciandosi verso i boschi; ma a toglier loro tale
scampo, sbucarono fuor della selva improvvisamente molti taglialegna,
che atterrando i fuggenti a colpi di scuri, li presero presso che
tutti, e con forti lacci gli uni agli altri avvinsero, onde non
potessero più sottrarsi al destino che li attendeva. Primo fra loro fu
Enzel Petraccio, che innanzi a tutti uscì dal bosco gridando: «Vivano
i prodi cavalieri! Viva Palamede!» il che gli altri ripeterono con alto
frastuono.
All’aríolo era dovuta la presa dei ladri: egli mentre faceva via pei
boschi, udendo un lontano succedersi di botte per la selva, persuaso
che fossero villici intenti ad atterrar piante, aveva formato il
progetto di condurli alla zuffa, onde prestar soccorso se per avventura
Palamede perigliasse. Infatti mentre questi discendeva dall’alto
della valle pel letto del torrente alla strada, s’allontanò da lui; e
dirigendosi verso il luogo d’onde partiva quel martellare di scuri, vi
trovò molti taglialegna. Ansante e premuroso, come chi rechi notizia
di grande avvenimento, a loro narrò che quella banda di ladri tanto
in que’ boschi terribile era stata da valorosi guerrieri sorpresa, e
posta in ispavento e fuga; che oramai gli assassini non potevano aver
salvezza che ritraendosi pei boschi, e che essi accorrendo avrebbero
loro tolto questo rifugio, e sarebbonsi liberati da sì funesti vicini.
Con tali detti destò in quei lavoratori gran curiosità e coraggio, e
li guidò correndo in truppa giù pei burroni al sito dell’assalto, ove
giunse al momento che il successo aveva fatte verificare le sue parole.
Grandissima, come è da credere, fu la sorpresa e la maraviglia de’
nobili viaggiatori francesi per questo evento. Il repentino assalto da
tanti uomini contro di loro eseguito, lo sconosciuto guerriero che con
stupende prove di valore li rese salvi da sì grave periglio, avevano
ad essi recata l’impressione che far sogliono i più straordinarii
avvenimenti; e la comparsa in quel momento quasi magica di molti
villici la fece loro ancor più sorprendente. Allorquando di quella
schiera di ribaldi molti furono uccisi, e il dar delle armi cessato
per la presa degli altri, essi si fecero intorno a Palamede, e in
lingua di Francia gli porsero, colle lodi per sua bravura, le più
grandi attestazioni di riconoscenza, ed il pregarono a render loro
manifesto come fosse sì singolare accidente accaduto: quegli però le
cui parole appalesevano maggior gratitudine, e che colle più affettuose
espressioni dicevasi al cavaliero debitore della vita, si era il
più giovane fra loro, e lo stesso che stava sotto il pugnale d’un
assassino quando primamente sovraggiunse Palamede. Non difficile fu
l’accorgersi ch’egli era il duca Lodovico, poichè gli altri, vedendolo
a terra, erano tutti discesi da cavallo, a gara ciascuno offrendo a lui
il proprio, e gli stavano a fianco con atti di rispetto e premurosa
attenzione: istantemente questi chiese a Palamede che alzasse la
visiera e si desse loro a conoscere. Palamede, il quale era istruito
della lingua provenzale, poichè le amorose e cavalleresche canzoni che
si cantavano per le corti d’Italia erano pel maggior numero in tale
idioma, intese il loro parlare; e levando la visiera dal volto, loro
rispose, con simil favella, ch’era dovere d’ogni cortese cavaliero il
distruggere gli uomini infesti, e ch’egli così operando s’era vendicato
d’un traditore; poscia, rivolgendo da se il discorso, disse ch’era
d’uopo per l’istante dar opera a rincorare le dame da quel trambusto
agitate, ed assettare gli equipaggi, onde riprendere cammino per
abbandonare il luogo di così orribile scena.
A queste parole i nobili Francesi, cui quel solo sommo dovere della
riconoscenza aveva fatto per un momento dimenticare la galanteria, si
volsero frettolosi alla _paraveréda_; ma le dame in numero di due, con
due damigelle, erano di già discese da quel cocchio, e stavano intente
a soccorrere il viaggiatore più vecchio giacente al suolo, poichè la
furia de’ ladri nell’istrapparlo da sella lo aveva in più parti offeso.
A tal vista fattisi tutti a lui vicini: «O mio Montaigu (disse
con grave cordoglio il giovane duca Lodovico), sei tu ferito? — No
(egli rispose con una serenità che nel di lui animo, sempre lieto
e inalterabile, non valeva quel lieve disastro a turbare): io sono
smontato da cavallo un po’ sgarbatamente; ma starei ritto e franco
sulla persona come sta qui avanti a me il cavaliere di Beaumanoir,
che ebbe pochi momenti sono la mia stessa sorte, se non mi tenessero a
terra gli anni, doppii de’ suoi.»
Mentre i Francesi ragionando intorno al conte di Montaigu davansi
mano a recarlo nella _paraveréda_, e le dame lo interrogavano delle
circostanze di quel fatto e dello sconosciuto loro difensore, Palamede
ordinava all’aríolo ed allo scudiero di fare da alcuno di que’
contadini ricaricare le some sui cavalli de’ viaggiatori, e spogliare
dai ricchi arnesi l’ucciso destriero del duca, riponendoli fra gli
altri loro oggetti. Di que’ taglialegna, varii infatti si fecero a
raccogliere gli sparsi forzieri e rinchiuderli; altri ricercavano le
armi dai masnadieri perdute, e frugavano loro ne’ panni per levar ad
essi i denari o gli oggetti preziosi che possedevano. Alcuni stavano
a guardia di quelli presi e legati, ed andavano con poca umanità
ingiuriandoli, rinfacciando ad essi i commessi delitti, e minacciandoli
di prossimo patibolo; alcuni altri finalmente, levando sulle spalle gli
uccisi, gli appendevano ai rami delle piante di lato alla strada; ed un
di loro arrampicandosi ad alta quercia, trasse per una corda a quella
sommità il cadavere d’Aldobrado, e lasciollo quivi legato pendere
penzoloni.
Allorchè furono le cose rimesse in ordine, e i viaggiatori risaliti in
sella, tutti presero insieme cammino, salendo la vallata. Precedevano
i taglialegna conducendo i malfattori annodati; seguivano a qualche
distanza i nobili Francesi, frammezzo ai quali stava Palamede;
indi venivano le dame nella _paraveréda_, e dietro più lentamente
seguitavano i caricati cavalli.
Enzel Petraccio camminava presso allo scudiero, restando il più che
gli era possibile inosservato: poichè essendo il di lui piano riuscito
felicemente, temeva che venendo egli veduto colà da alcuno degli aríoli
che erano stati in quella notturna adunanza presso l’Olona, avesse
a segnarlo qual traditore, che aveva tratto profitto d’una notizia
quivi palesata per far distruggere quella masnada d’assassini fra cui
ve ne erano molti stretti con essi in amicizia; e paventava, se ciò
avvenisse, di essere vittima d’una loro secreta vendetta.
In un tratto essendosi sparsa la voce di ciò ch’era avvenuto, tutte
le genti del contado si recavano in folla sulla strada ad incontrare
quella comitiva, e numerose voci applaudivano ai cavalieri, ed
obbrobriavano i ladri. Gli abitanti del borgo di Magenta rimasero
stupiti che uomini stranieri avessero così prestamente ed a loro
insaputa eseguita un’impresa ch’eglino stessi stavano con gran
sollecitudine disponendo: andavan essi chiedendo come fosse avvenuto
quel fatto, e sebbene ne fosse la storia di già travisata in mille
guise, pure una voce generale ne indicava Palamede come autor
principale: onde tutti si affollavano ad ammirarlo, e facevan le
maraviglie per la sua prodezza. Egli però, poco ambizioso di que’
popolari applausi, giva sollecitando i Francesi ad affrettare i
cavalli, poichè essendo il giorno avanzato assai, necessitava far
veloce cammino per giungere pria che fosse notte alle mura di Milano.
I Francesi infatti seguirono il di lui consiglio, e di buon trotto
tutti si tolsero alla vista di que’ terrazzani, i precipui fra i
quali stavano divisando di festeggiarli; ma non potendo ciò eseguire,
occuparono il rimanente di quella giornata all’orribile spettacolo di
vedere innanzi alla casa del comune torturare ed uccidere gli assassini
stati presi.


CAPITOLO X.
Qui sono le famose e sacre soglie
Di Giovan Galeazzo primo duce
Che è de’ Visconti ancor splendida luce,
Unde ogni esemplo di virtù si toglie.
BERNARDO BELLINZONE, _Sonet._

Gastone conte d’Armagnac, che era stato spedito da Carlo re di
Francia a Milano per trattare le nozze del di lui fratello Lodovico
colla figlia di Giovan Galeazzo, abitava in una magnifica casa di
questa città. Egli aveva avuto secreto avviso che il giovane duca
sarebbe giunto a Milano all’insaputa del Visconte, a cui voleva,
coll’improvviso suo comparire, recare grata sorpresa; ma ignorava
però il giorno in cui doveva pervenirvi, imperocchè la malagevolezza
delle vie non permetteva di formar calcolo esatto del tempo ch’era
d’uopo impiegare nel viaggio. Fu questa la causa per cui non si recò
ad incontrarlo, e che col maggior contento lo accolse coi cavalieri e
le dame che ne formavano il seguito, allorchè giunsero a sera avanzata
nella di lui abitazione.
Palamede aveva accompagnato il duca sino alla casa del conte
d’Armagnac, e quivi preso da lui congedo ritirossi nel proprio palazzo.
Il valore di lui, e forse più di questo la dolcezza congiunta alla
nobiltà della persona e dei modi, si erano sì addentro impressi
nell’animo di Lodovico, che spiacevole sommamente gli sarebbe stato il
distacco del cavaliero, se non avesse questi data parola di venire nel
seguente giorno a visitarlo.
Il dì appresso infatti Palamede recossi alla dimora di Gastone, ove
il duca e gli altri cavalieri e le dame di Francia lo ricevettero con
somma cortesia, presentandolo al conte siccome quel prode cavaliero che
era stato loro liberatore nel tremendo periglio che avevano corso nel
viaggio, e di cui, appena giunti, fecero ad essolui minuta narrazione.
Il conte rese esso pure le più vive grazie a Palamede per sì segnalato
favore fatto al fratello del suo re, e mostrò molta meraviglia per non
aver mai veduto alla corte di Giovan Galeazzo un cavaliero lombardo
di tanto valore. Lodovico, nel cui animo la giovanile età e l’affetto
che gli si era destato per Palamede, producevano un entusiasmo di
riconoscenza, dichiarò che se un sì degno cavaliero non veniva dal
Visconte onorato, egli lo avrebbe condotto seco a Parigi, ove sarebbe
stato ricevuto fra i più distinti baroni della corte di re Carlo.
Palamede, protestandosi a Lodovico gratissimo, rispose che egli non
ambiva distinzioni dai principi, poichè la sua spada e il suo braccio
erano i soli mezzi a cui affidava la propria gloria; ma, soggiunse,
che Giovan Galeazzo, ben lungi dal porgergli segni d’onore, era ver lui
crudelissimo, offendendolo nel più vivo del cuore.
A questi detti, tutti mostraronsi compresi da sdegno e da dolore, e
Lodovico istantemente pregò il cavaliero a palesare per qual causa il
conte di Virtù fosse a lui nemico, e qual modo tenesse nell’essergli
tiranno. Con quella veemenza ed espressione che il risentimento
d’un’offesa congiunto all’idea della propria forza accendono in un
animo vigoroso ed ardente, Palamede, svelando il proprio lignaggio,
narrò la storia dell’amor suo per Ginevra, e rammentando il rovescio
della fortuna di Bernabò, disse come Giovan Galeazzo tenesse con
irremovibile ferocia quella sua fidanzata rinchiusa in un castello
per null’altra cagione che per farla languire disperatamente, onde
accrescere per tal barbaro modo il dolore ed accelerare la morte del
padre di lei, di cui si voleva spenta nella mente di tutti la memoria.
Tale racconto, che l’espressive sembianze di Palamede, dipingendosi
nel dirlo a varii affetti, rendevano più vero ed interessante, penetrò
d’un senso di tenerezza e pietà i cuori di que’ nobili Francesi, e
quello del giovane duca più d’ogn’altro, che, commosso, esclamò: «Falsa
era dunque, o Gastone, la rinomanza che del conte di Virtù suonava
in Francia, come di generoso e saggio signore!... Il Re mio fratello
venne tratto in inganno, poichè egli non vuol certo congiungermi alla
figlia d’uno sleale oppressore, ed io abborro il farmi suocero un
principe che calpesta così empiamente i nodi del sangue.» Il conte
d’Armagnac, cui doleva l’ira impetuosa del duca, lo assicurò con molte
parole, che Giovan Galeazzo dimostravasi coi soggetti d’animo giusto
ed umano, di che faceva prova l’amore a lui dai vassalli attestato con
molteplici omaggi; ed accertò Palamede che il rifiuto fattogli della
prigioniera di Trezzo non poteva derivare che da cautele di dominio, e
non da tirannia; ed egli stesso lo accertava che assumendosi il duca
Lodovico l’impegno di ottenerla, il principe non gli avrebbe fatta
negativa, nè sarebbero scorsi lunghi giorni che egli potrebbe condurre
libera la sua fidanzata al giuro nuziale innanzi agli altari. A queste
parole Lodovico esclamò che non avrebbe giammai dato mano di sposa alla
figlia di Giovan Galeazzo, se questi pria non porgeva sacra promessa di
concedere Ginevra al cavaliero.
Le speranze di Palamede, già tante volte deluse, rinacquero a tali
detti; ed ebbe convincimento che la dignità del duca e la solennità
del momento in cui chiederebbe per lui quel favore, avrebbero di
certo costretto Giovan Galeazzo ad accordarlo: sicchè più non dubitò
che verrebbe al fine l’istante che sua sarebbe colei per possedere la
quale, se gli fosse stata ancora contrastata, era ormai per appigliarsi
alle più violente e disperate risoluzioni.
Il contento che tale pensiero gli infondea nel cuore si manifestò
nel suo volto, e, fattosi lieto, stette lunga pezza fra que’ nobili
Francesi intrattenendosi de’ gioviali colloquii che vennero posti in
campo dal conte di Montaigu, che, pienamente risanato della caduta,
facea scopo di allegro racconto quel disastroso avvenimento che lo
aveva posto in necessità di percorrere la strada dal Ticino a Milano
chiuso colle dame nella _paraveréda_. Dopo molti altri ragionamenti
Gastone fece al giovane duca un quadro della corte di Giovan Galeazzo,
descrivendo i personaggi più distinti che v’intervenivano, ed ogni
elogio prodigalizzando alla bellezza, alle grazie ed all’ingegno di
Valentina, dandogli fede che non era dessa in ogni pregio inferiore
ad Isabella di Baviera, di cui a Parigi s’eran celebrate da poco tempo
le nozze con re Carlo, la quale aveva vinte tutte le dame francesi sì
per l’avvenenza della persona, come per la novità e l’eleganza degli
abbigliamenti. La fantasia di Lodovico, già per indole focosa, fu
più che mai accesa da queste narrative, e voleva recarsi incontanente
alla corte del principe per vedere Valentina, ed ottenere Ginevra a
Palamede.
Ma Gastone fece a lui presente ch’era d’uopo a tal fine attendere la
sera, tempo in cui Giovan Galeazzo soleva adunar la corte a festoso
convegno, al quale intervenivano Caterina di lui moglie, con Valentina
e le più nobili dame; poichè in altri momenti chiudevasi in appartate
stanze, nè alcuno ammetteva alla propria presenza se non fosse stato
dapprima minutamente istruito del chi si fosse, e che chiedesse,
e sarebbesi in tal modo svanito l’effetto della gentile sorpresa
che aveva meditata venendo celatamente a Milano. Accettando questo
consiglio, in cui tutti come ottimo convennero, Lodovico prefisse la
sera di quel giorno istesso per recarsi alla corte, e diè comando si
disponessero le più ricche vesti che avea recate di Francia, e che
erano al suo nobile grado convenienti.
Quando la signoria di Milano venne divisa tra i due fratelli Galeazzo
e Bernabò, s’avevano essi scelta per loro dimora l’uno il castello
di Porta Giovia, e l’altro quello di Porta Romana, abbandonando
entrambi il magnifico palazzo che Azzone Visconti, essendo solo signore
della città, aveva fatto costruire circa l’anno 1335 nel luogo detto
del Broletto vecchio. Giovan Galeazzo, allorchè s’ebbe sbarazzato
dello zio, fattosi così unico padrone dello stato, amando il fasto
principesco, ed aspirando alle grandezze d’un più esteso potere, volle
per luogo di sua corte il palazzo di Azzone, e lo fece più riccamente
addobbare che ai tempi d’Azzone stesso non fosse. Quell’edificio
innalzavasi presso che sull’area stessa, ove trovasi ai nostri giorni
il reale palazzo, se non che stava più al lato destro di questo,
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