Galatea - 01

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GALATEA

ROMANZO
DI
ANTON GIULIO BARRILI

MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO
ROMA
Via del Corso, 383.
NAPOLI
Via Roma (già Toledo), 34.
BOLOGNA: Libreria Fratelli Treves, di P. Virano, Angolo Via Farini.
TRIESTE: presso G. Schubart.
PARIGI: presso Boyveau et Chevillet, 22, rue de la Banque.
LIPSIA, BERLINO e VIENNA: presso F. A. Brockhaus.


OPERE di A. G. BARRILI.
_Capitan Dodero_ (1865). ll.^a ediz....................L.1--
_Santa Cecilia_ (1865). 9.^a ediz........................1--
_Il libro nero_ (1868). 4.^a ediz........................2--
_I Rossi e i Neri_ (1870). 5.^a ediz. (2 vol.)...........2--
_Le confessioni di Fra Gualberto_ (1878). 7.^a ediz......1--
_Val d'Olivi_ (1873). 13.° migliaio......................1--
_Semiramide_, racconto babilonese (1873). 7.^a ediz......1--
_La notte del commendatore_ (1875). 2.^a ediz............4--
_Castel Gavone_ (1875). 8.^a ediz........................1--
_Come un sogno_ (1875). 19.^a ediz.......................1--
_Cuor di ferro e cuor d'oro_ (1877). 14^a ediz. (2 vol.).2--
_Tizio Caio Sempronio_ (1877), 2.^a ediz.................3 50
_L'olmo e l'edera_ (1879) 16.^a ediz.....................1--
_Diana degli Embriaci_ (1877). 2.^a ediz.................3--
_Lutezia_ (1878). 2.^a ediz..............................2--
_La conquista d'Alessandro_ (1879). 2.^a ediz............4--
_Il tesoro di Golconda_ (1879). 8.^a ediz................1--
_Il merlo bianco_ (1879). 2.^a ediz......................3 50
--Edizione illustrata (1890). 5.^a ediz.......................5--
_La donna di picche_ (1880). 4.^a ediz...................1--
_L'undecimo comandamento_ (1881). 9.^a ediz..............1--
_Il ritratto del Diavolo_ (1882). 3.^a ediz..............3--
_Il biancospino_ (1882). 9.^a ediz.......................1--
_L'anello di Salomone_ (1883). 3.^a ediz.................3 50
_O tutto o nulla_ (1883). 2.^a ediz......................3 50
_Fior di Mughetto_ (1883). 4.^a ediz.....................3 50
_Dalla Rupe_ (1884). 2.^a ediz...........................3 50
_Il conte Rosso_ (1884). 3.^a ediz.......................3 50
_Amori alla macchia_ (1884). 3.^a ediz...................3 50
_Monsù Tomé_ (1885). 2.^a ediz...........................3 50
_Il lettore della principessa_ (1885). 3.^a ediz.........4--
--Edizione illustrata (1891)..................................5--
_Victor Hugo, discorso_ (1885)...........................2 50
_Casa Polidori_ (1886). 2.^a ediz........................4--
_La Montanara_ (1886). 5.^a ediz.........................2--
--Edizione illustrata (1893)..................................5--
_Uomini e bestie_ (1886). 2.^a ediz......................3 50
_Arrigo il Savio_ (1886). 2.^a ediz......................3 50
_La spada di fuoco_ (1887). 2.^a ediz....................4--
_Il giudizio di Dio_ (1887)..............................4--
_Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888).............1 20
_Il Dandino_ (1888). 2.^a ediz...........................3 50
_La signora Autari_ (1888). 2.^a ediz....................3 50
_La Sirena_ (1889).......................................2--
_Scudi e corone_ (1890). 2.^a ediz.......................4--
_Amori antichi_ (1890). 2.^a ediz........................4--
_Rosa di Gerico_ (1891). 2.^a ediz.......................3 50
_La bella Graziana_ (1892). 2.^a ediz....................3 50
--Edizione illustrata (1893)..................................3 50
_Le due Beatrici_ (1892) 2.^a ediz.......................3 50
_Terra Vergine_ (1892). 2.^a ediz........................3 50
_I figli del cielo_ (1893)...............................3 50
_La Castellana_ (1894). 2.^a ediz........................3 50
_Fior d'oro_ (1895)......................................3 50
_Con Garibaldi, alle porte di Roma, ricordi_ (1895)......4--
_Il Prato Maledetto_ (1895)..............................3 50
_Galatea_ (1896).........................................3 50

IN PREPARAZIONE:
_Sorrisi di gioventù--Il diamante nero._


GALATEA
ROMANZO
Di
ANTON GIULIO BARRILI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1896.

PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
_Milano.--Tip. Fratelli Treves._


GALATEA


I.
Rinaldo a Filippo.

_Corsenna, 7 luglio 18..._
Notizie mie? Eccole. Son venuto qua, come sai, per dar pace a questi
poveri nervi; e ci lavoro alacremente, chiudendomi nell'inerzia più
fitta. Bada, io non so quanto sia vero che ai giorni nostri i nervi si
sciupino più di prima, nella gran varietà e nella troppa intensità
delle sensazioni: ma è certo che oggi come prima lo strapazzo nuoce ad
ogni organismo, e certissimo poi che il tuo vecchio amico aveva
bisogno di questo riposo; tanto gli pare d'esser tuttavia sfiaccolato.
Pure non faccio nulla, assolutamente nulla; questa lettera, che viene
un po' tardi in risposta al tuo cortese biglietto, è la prima fatica
dopo un mese di quiete. Già, non potrei far nulla, anche volendo. Non
sento più; e se, come dice il filosofo, niente può essere
nell'intelletto che non sia stato prima nel senso, io posso stimarmi
finito, e metter magari l'appigionasi in fronte, come sulla facciata
d'una casa vuota. Che bella cosa, dopo tutto, non sentir nulla; esser
libero e netto d'ogni cura del mondo circostante; udendo senza
commuoversi, vedendo senza partecipare, vivendo la vita dello
specchio, che riflette tranquillamente ogni cosa e sorride! Ma sì, un
po' d'ironia nel fondo ce la dovrebbe avere anche lui; per virtù, non
foss'altro, degl'ingredienti che lo rendono opaco. Quel po' d'ironia
non è finalmente la meno feroce delle nostre vendette? e il genere
umano, salva sempre la immagine del suo creatore, non meriterebbe di
peggio?
"Ama il prossimo tuo come te stesso" è alla fin fine il comando del
principale: ed egli sa bene che io non amo me stesso. Frattanto, come
è vero che quello è il mio prossimo! Io l'ho sempre sentito dal
premere che mi faceva d'attorno, pari ai gomiti di quattro o cinque
vicini nella calca dove ci ha ficcati il nostro mal genio, in un
quarto d'ora di sciocca curiosità. E il mondo è una calca, una
moltitudine, una ressa di forze invisibili, che d'ogni parte lavorano
su te, per prenderti il posto che occupi, per non lasciarti occupare
il posto che desideri, fosse pure un posto d'usciere. Si tira a tutto,
e con la stessa arte da tutti; qualunque sia il grado, o l'educazione,
è sempre guerra sorda di agguati, d'insidie, di tradimenti. Ognuno
l'ha con te: più sei forte, o più ti credono tale, più si affannano a
soverchiarti, a tirarti giù, a darti il gambetto. Gl'interessi che non
hai offesi fischiano da tutti i pruneti, si avventano da tutte le
macchie; nessun briccone è più appostato di te dagli onest'uomini in
caccia. Se tu provassi a morire! oh, allora, lodato il cielo, una
buona rifiatata di mille petti, che si diffonderebbe dalla tua città,
come un soffio di primavera, a tutti i punti del "bello italo regno."
Vivo, non avevi scritto altro che birbonate; morto te, erano tutte
maravigile. Ti gabellavano per un asino? eccoti diventato un cigno;
l'ultima tua ode era degna di Pindaro. Prova a morire, e vedrai; ti
faranno un funerale di prima classe, e tutta una cittadinanza "dipinta
di cordoglio" farà spalliera al cortèo, mentre tu, felice grand'uomo,
traballerai nel tuo carro sotto una montagna di corone, che più non
ebbe scudi addosso la vergine Tarpeia, in premio del Campidoglio
aperto ai Sabini. Quanto a me, senti: ho già fatto testamento, e
scritto in chiarissima forma: "Non voglio discorsi, nè marce funebri;
nè bugie, nè stuonature. Voglio andare al mio ripostiglio di
nottetempo; con due amici, se tanti me ne saranno rimasti, i quali si
prenderanno cura di vigilare che le mie ossa vadano proprio al luogo
assegnato, e un altro morto non mi rubi la fossa." Con questo prossimo
benedetto, non si sa mai quel che possa succedere.
Idee nere, dirai. Ma io, se rammenti, le ho sempre avute. A certe cose
bisogna pensarci in tempo, per non esser poi colti alla sprovveduta.
Quella gran diavola della falce è così capricciosa! Già, donna anche
lei; ed io non voglio esser più corbellato. Errori, ne ho commessi
molti, fin troppi, cercando l'introvabile. Povere donne, del resto!
Ossequiate, lusingate, insidiate, ti amano per vanità: molte, se sei
ricco, sentono il bisogno di entrare nella tua casa; nessuna il
desiderio di penetrare nell'anima tua. Ed è strano contrasto; perchè
noi uomini, chi più chi meno, avremmo tutti la curiosità di penetrare
nell'anima loro, anche a costo di non trovarci niente. Così l'amore,
rinunziando al piacere dell'indagine psicologica, si riduce
necessariamente ad uno scherzo, ad un grazioso errore commesso qualche
volta per ardore di temperamento, più spesso per follia d'imitazione.
Ah, il mondo non è più dei sensitivi. Si fanno tante cose per
consuetudine, per vezzo, per moda, non ritrovandoci più il senso
arcano dei loro principii; esempio l'andare in campagna, un piacere
estivo, che si compra senza gustarlo, senza intenderlo, trasformandolo
secondo l'uso della città. Dov'è strada piana, gli uomini portano la
bicicletta; dov'è lago, il sandolino; da per tutto il _lawn-tennis_.
In fin de' conti, meglio così; la campagna è tutta per me. Sono miei i
folti castagni del bosco; miei gli olmi e i salici, i fràssini e gli
ontàni del fiumo; mia la borraccina delle balze, donde si levano gli
argentei pennacchi dei cardi, rilucenti ad una spera di sole.
Questa campagna è bella, quantunque senza carattere. Salvator Rosa ci
perderebbe l'ispirazione tormentata e robusta, Claudio Lorenese la sua
placida e larga vena poetica. Non ci sono dirupi minacciosi, non
classiche aperture d'orizzonti lontani. Così niente fa pensare, tutto
fa vegetare; ottima cosa per me, che non ho più fantasia. Dov'è andata
a finire? Sicuramente, l'ho fatta correr troppo. L'uomo ha le sue
quaranta libbre di sangue e le sue quattr'once d'ideale: se egli sa
farne un uso discreto, bene; se no, addio roba. Io non iscrivo più una
riga. Il mio _Don Giovanni_ dorme. Buon poema, che voleva esprimer la
vita veduta, collegandola coll'invisibile sentito! Non lo intendo più;
ne rigiro per ogni verso la tela, e non ci trovo il vivagno; vedo il
contorno e mi sfugge la linea, l'idea madre, che mi pareva già tanto
chiara, originale e profonda. Sono una rovina, e brutta, che per le
rovine è il peggio. C'è qui, sulla fine di un campo, lungo la strada
maestra, una casupola ad uscio e tetto, ma coll'uscio sfondato e il
tetto crollato. Corse un giorno la voce che là dentro si fosse veduta
la Madonna; e non mancava la ragazzina innocente per dar fede al
miracolo. Ma che vuoi? il miracolo non ha potuto attecchire, come
attecchivano le ortiche, in quel cumulo di macerie così poco
romantiche. Poesia, voleva essere; e qui non c'è poesia.
Tanto meglio per me. Questa vita vegetativa mi conviene benissimo.
Leggo poco; a mala pena giornali, e nei giornali solamente i
telegrammi, per tenermi in comunione di noie con l'Europa. Gli eventi
politici son grigi, come il mio spirito, e mi fanno dormire. Ma che
follia, nel dormire! Sogno ancora qualche volta, vedendo la bella
inglesina. Te ne rammenti, dell'inglesina dei miei sogni
d'adolescente, che soleva ritornare a punti di luna nei miei sogni di
giovinetto? C'era, obbligata in chiave, la strada polverosa, bianca,
abbagliante, sotto la sferza del sol di giugno; la grossa berlina a
tre cavalli, coi bauli dietro e il postiglione alto a cassetta; lei,
l'inglesina, accanto al suo babbo, vecchio muso di cartapecora,
miniato liberalmente di rosso tra due fedinoni grigi, ma sempre mezzo
nascosto nell'ombra, dall altra parte della carrozza, per comodo della
mia prospettiva amorosa; mentre lei, dolce creatura bionda, si vedeva
tutta quanta allo sportello, intesa a ricambiare d'uno sguardo pietoso
il mio gesto e il mio grido di supplicante. Cara inglesina del sogno
ricorrente! Tu raffiguravi il divino ideale, che passa sempre a
galoppo, che se ne va inesorabilmente, dileguandosi nel polverìo della
strada battuta.
Che ideale, poi! Se, col permesso del babbo, l'inglesina ci pigliasse
in parola, e in carrozza, poveri a noi!--_How do you do?--Very well,
Sir; we have never been better.--How do you like Italy?--Very much
indeed: do you like sandwiches, Sir?--I like them very much.--And
roastbeef?--It is delicious, but I should prefer a veal-cutlet.--_
Che orrori!


II.
Sequitur Lamentatio....

_Corsenna, 12 luglio 18..._
Hai un bel canzonarmi, osservando che io porto i miei sopraccapi anche
in villa, e paragonandomi (questa poi è nuovissima) al triste
cavaliere di Orazio, che si trascinava in groppa la più fastidiosa tra
le dame. Ma io non posso farmi diverso da quello che sono: faccio già
molto a scriverti, e tu dovresti essermi grato d'un sacrifizio che
nessun altri ottiene da me. Del resto, canzonami pure; mentre io, per
non disimparare del tutto la vecchia arte di Cadmo, bene o male
continuo a scrivere, facendo per te una specie di giornale; il
giornale di Corsenna, niente di meno! Questo villaggio non ha mai
sognato, nella più felice delle sue notti, un onor così grande. Il
giornale rimarrà inedito, pur troppo: ma i Corsennati avranno
pazienza; l'avranno tanto più volentieri, in quanto che, se il
giornale fosse stampato, essi non si prenderebbero certamente la briga
di leggerlo. Sono un popolo saggio, i Corsennati, di ceppo italico
antico e sincero.
Incominciamo ad ogni modo. Articolo di fondo: ho trovato una bella
passeggiata veramente degna di noi. Seguimi, facendoti coraggio
tuttavia, perchè bisogna passare sopra un pancone, anzi su due,
accostati pei lor capi a tocca e non tocca sull'asse d'una piedica,
che vorrebbe parere una pila di ponte. La vedo brutta, quella povera
pila, ai primi rovesci d'autunno; e vedo brutti egualmente i due
panconi sconnessi, con quel tronco di pino che fa da ringhiera, mal
rimondato e peggio assicurato su quattro pali malissimo inchiodati,
per uso dei passeggeri che soffrono di vertigini. Già, i più non ci si
fidano, e passan di sotto. Per tua norma, il fiume è magro anzi che
no, tanto magro che fa pena a vederlo, disteso in quel suo grandissimo
letto. Pozze e pozzanghere non gliene mancano, ma già tirano al verde:
ci ha da una sponda o dall'altra qualche fosserello addormentato sotto
la frasca sporgente dei frassini, e qualche tonfano rannicchiato al
riparo d'un gran masso rugoso; mentre un fil d'acqua viva corre
brillando e sussurrando tra i ciottoli, per collegare e nutrire tutti
quei Nianza e Tanganica, dei quali il più grosso non è largo due
metri.
Di là dal greto, che si vede qua e là screziato e rallegrato da larghi
cesti di romice, da candelabri fogliosi di tasso barbasso, di labbra
d'asino, di denti di leone, d'orecchi di topo e di scarpette di
Venere, si stende una fila nereggiante di ontàni. Un po' radi, gli
ontàni e non alti, perchè i proprietarii di qui non lasciano
invecchiare le piante da taglio, smaniosi di far quattrini, che il
diavolo se li porti! Dietro la scarsa fila degli ontàni, corre un
sentiero campestre, costeggiando la riva; di là dal sentiero, davanti
a me ed al mio ponte di legno, si dilunga verso la montagna una doppia
fila di pioppi, spettacolosi per l'altezza delle vette ed anche per la
grossezza dei tronchi. Ah, sia lodato il cielo; si capisce qui che il
padrone di quei pioppi è un signore per davvero, o che almeno non ha
l'acqua alla gola, e in ogni caso è un poeta, che ama le belle cose e
vuol dare la sua parte anche agli occhi.
Che sarà mai questa piantata di pioppi? Sono un centinaio per parte, e
il largo viale che si stende nel mezzo dovrebbe condurre ad un
castello, ad un palazzo, ad un nobile edifizio, insomma. Cerca cerca,
l'edifizio non c'è; neanche le rovine. Meglio così; le rovine non
avrebbero carattere; un edifizio in piedi, abitato e custodito, mi
costringerebbe a girar largo, per non dar noia o non riceverne dai
suoi possessori. Quel gran viale, bontà sua, ti conduce ad una vasta
prateria, ad una conca, ad un anfiteatro di verdura, più nobile di
qualsivoglia edifizio. Che bellezza! e che pace, compimento di
bellezza! Il dolce piano, leggermente incavato, è tutto un tappeto di
verde tenero, che si ravviva di toni gialli al sorriso del sole;
screziato a capriccio dalle candide rappe delle piantaggini tremolanti
alla brezza sui loro elegantissimi steli, o dai rossi calici
spampanati dei rosolacci in ritardo; rotto a larghi intervalli, o
infoscato sui lembi, da cesti di sermollino, da ciuffi di règamo, da
cespugli di mentastro. In capo alla prateria, che sale via via come il
labbro d'una coppa di malachite, sorge e si spande una siepe di
carpinelle, oltre la quale si leva la costa del poggio, tutta densa di
castagni fino al suo colmo, donde sbuca un campanile aguzzo e trapela
il tetto della chiesuola di Santa Giustina.
Non conosco la santa, e non ho ancora veduto il santuario. È la prima
volta che mi decido a passare il fiume, e che quel campanile m'invita.
Dicono che il fulmine l'abbia già visitato due volte. Certo, il
fulmine è più volenteroso alpinista di me; ed anche più allegro. Lo ha
notato il poeta nella indimenticabile strofa:
Il gentile terremoto
Con l'amabile suo moto
Diroccava le città;
Ed il fulmine giulivo
Che non lascia uomo vivo
Saltellava qua e là.
Facciamoci avanti. Tra la siepe delle carpinelle e le falde del monte,
serrata ai fianchi dal margine naturale del terreno e da quello di un
rialto artificiale tutto vestito di zolle verdeggianti, corre un'acqua
profonda, limpida e cristallina. Ah, capisco finalmente perchè il
fiume abbia sete. Gli han fatto una pescaia molto più in su, e l'acqua
se ne viene da un lato, per il suo canaletto, mormorando il suo saluto
alle felci e ai capelveneri, cheta cheta immollando il terreno senza
corroderlo. Quante erbe ci vivono, in quella grazia di Dio.
succhiandola con mille e mille radici! quanti fiori ci pendon sopra,
come se volessero covarla con gli occhi innamorati! Fiorellini,
fiorellini, oserò dir io i vostri nomi, nella barbara lingua dotta che
voi non sapete? Nella lingua del paese non li so io, e non ho tempo da
perdere, volendo piuttosto ammirarvi. Il vostro nome è bellezza; e
questo in tutte le lingue del mondo. Uno di essi è bianco di latte, e
la sua corolla piccina, fatta di quattro petali spanti, pesa ancor
molto sulla lunga asticciuola filiforme. Dev'esser zuccherino, il suo
calice, perchè troppo volentieri gl'insetti vanno ad immergere il muso
là dentro. Un altro ha il gambo più grosso, almeno quanto un
cordoncino di tre fili di refe; e porta in capo un tubetto rigonfio
alla base, più stretto al collo, donde salgono arrovesciandosi quattro
eleganti lacinie, per mezzo alle quali guardando s'intravvede nel
fondo un giro di grumoletti d'oro, sospesi su tenui stami d'argento,
come perle o gemme sulle punte d'una corona. A chi è destinato il
tesoro? Qual genio minuscolo, della figliuolanza di Oberone e Titania,
cingerà il grazioso diadema custodito in quell'urna di zaffiro? Non
indaghiamo, non facciamo almanacchi. Vegetiamo, sia la parola d'ordine
per me, come a Pertinace il suo "_Militemus_" come il suo
"_Laboremus_" a Settimio Severo.
"Qui freno al corso," come dice David nella prima scena del _Saul_;
qui siedo e me ne sto un paio d'ore al rezzo, contemplando i moscerini
che volano nell'aria cupa, non trattenendo i pensieri che passano
liberamente per l'anima, senza lasciarci una traccia. È in questo
recesso ombroso una quiete, una calma tiepida, attraversata a quando a
quando da soavissimi aliti di frescura, onde hai tutte le sensazioni
del supremo benessere. Non so come sia che un miliardo e mezzo di
creature, tra ragionanti, e sragionanti, sparse sulla faccia della
terra, non l'abbiano ancora sentito. Capisco che per molti è questione
di vivere, e i bisogni urgenti non danno agio a pensare: capisco
ancora che la felicità suprema dell'estasi inerte richiede un alto
grado di perfezione intellettuale. Ma tutti quelli che l'hanno
raggiunto, quel grado, perchè si vengono moltiplicando senza ragione i
bisogni? perchè vanno attorno cercando i malanni col lumicino? perchè
ficcano la mano nel vaso di Pandora, rovistando nel fondo, se per caso
ci fosse rimasto ancora un fastidio? A buon conto, io non mi prenderò
quello di salire a Santa Giustina. Si sta qui tanto bene, mezzo
appoggiati e mezzo seduti sulla spalla dell'argine! Passano a coppie
le farfalle, pieridi e vanesse dorate, rincorrendosi tra le piante,
apparendo e disparendo senza posa, contente di agitarsi e di vivere;
vengono folgorando nell'aria, quasi radendo il pelo dell'acqua, le
damigelle e i cavalocchi dalle diafane ali iridate, dai corpicini
sottili, tutti a colori metallici, per andare a librarsi un tratto
sulle rappe fiorite, donde guizzano e scintillano senza posa, come
pennini di gioie tremolanti sul capo di una bella donna a teatro.
E dove lascio gli uccellini? Ce ne sono di tutte le specie, che
attendono ai fatti loro senza curarsi di me; cincie, pettirossi,
cardellini, scriccioli; pigolanti, strillanti, zirlanti nella macchia,
ch'è un piacere a sentirli. Le stonature non mancano. Laggiù, dagli
olmi del gran viale, si sente un gracchio che non mi va niente a
sangue.
--È il rosignuolo;--mi dice un contadino che passa e che mi ha dato il
buon giorno.
--Il rosignuolo, quello?--esclamo io.--Avrei detto un corvo,
piuttosto, o una gazza, sua parente.
--Nossignore, gli è proprio il rosignuolo. Da mezzo giugno in poi,
canta così. È nel nido.
--In famiglia, non è vero?
--Eh sì, come vuole Vossignoria. La casa del rosignuolo è il suo nido,
e la rosignuola è sua moglie.--
Ho capito, e ne sono tutto confuso. Dunque la storia è questa?
Appaiato e contento, il rosignuolo non canta più così bene come quando
faceva all'amore; anzi, non canta più affatto, dà fuori un grido rauco
d'animale accidioso e brontolone. Ah, figlio d'un.... rosignuolo anche
tu! Dopo le dolci pene del desiderio, la fiaccona del possesso; e
addio le ventiquattro arie diverse, non tenendo conto delle
variazioni, dei passaggi, delle rifiorite che nel tuo canto ha notate
con diligenza tedesca il Bechstein. Ma sono uomini, dunque, i
rosignuoli? uomini anch'essi? Ahi, triste cosa!


III.
All'Acqua Ascosa.

_Corsenna, 15 luglio 18..._
Ci sono molti villeggianti a Corsenna. Li chiama la bontà dell'aria, a
quattrocentosessanta metri soltanto sul livello del mare; li chiama il
fresco di queste convalli, e finalmente lo spirito d'imitazione, che
l'uomo ha comune con tanti altri animali. Uno ha provato, e s'è
ritrovato bene; lo ha detto, e lo hanno seguito due altri; quei due a
lor volta.... Ma no, non voglio rifarti l'enumerazione degli atti; mi
basta di dirti che quest'anno tutti i villini dei dintorni sono
occupati, ed anche molti quartierini in paese; dove per altro bisogna
adattarsi. Ma si è in campagna, e non si guarda nel sottile; tanto più
che la gente, venuta per goder l'aria, sta in casa il meno che può. La
vita villereccia è gaia: fanno scarrozzate ai paesi vicini; non
disdegnano la vecchia invenzione degli omnibus, rinfrescata col nuovo
nome di tranvai, che permette di andare qua e là per pochi soldi, in
dodici o quattordici persone. Fanno concerti, la sera, con gran
giubilo e maraviglia di questi naturali; ballano anche, mi si dice,
dove col pianoforte, dove coll'organino di Barberia, e dove
coll'_herofon_, un nuovo strumento macinatore di musica; necessario,
in verità, perchè di simili arnesi non ce n'era abbastanza.
Te ne parlo per sentita dire, non andando io in nessun luogo. Vedo le
brigate, passando; cappellini e cappelloni, gonne e casacche,
guarnelli e vestaglie, roste, sciarpe, ombrellini, tutto un rigoglio
di colori sgargianti, tutto un miscuglio di cose; ma per lo più da
lontano. M'imbatto nella gente quando vado alla posta, per ritirare i
miei giornali, le poche lettere che mi vengon da casa o dai pochissimi
amici che vogliono ricordarsi di me. Conosco appena tre o quattro
famiglie di questi ospiti estivi; saluto, baratto alcune frasi di
convenienza, e non mi accompagno mai. L'orso di Corsenna, mi chiamano.
È questa la notizia che mi ha dato un diavolo di ragazzino, nella sua
terribile ingenuità, che ha fatta arrossire la sua mamma dalla radice
del collo fino a quella dei capelli. Ebbene, sia, l'orso di Corsenna,
e d'ogni luogo dove mi piaccia di andare. Non si viene egli al verde
per goder libertà? Soddisfatto l'obbligo della leva, pagate le tasse,
quante sono o vorranno essere in processo di tempo, faccia ognuno quel
che gli pare.
Io, poi, vestito ordinariamente di tela, con un cappellaccio di sparto
che ha la falda rialzata sulla nuca e tirata giù sul naso, con una
mazza di nocciuolo, tagliata da me, e più lunga di quelle che usavano
i Babilonesi (qui è utilissima per tener distanti i buoi e per mettere
in fuga le serpi), non sono un figurino da far bella mostra in
società. Lascio agli altri la strada maestra, l'abitato e i dintorni
dell'abitato; passo il ponte di legno e mi ritrovo sul mio. Per altro,
non ci corro; m'indugio di qua e di là per i campi, aspettando a
passare quando sono ben certo che nessuno mi veda. Se, Dio guardi,
avessero a scoprire il mio regno, mi potrei tappare in casa; tanto la
riva destra del fiume è invasa e corsa e ricorsa da questo gaio sciame
"d'infanti, di femmine e di viri". Alla riva sinistra, almeno in
questo tratto per circa due miglia, non ci s'arrischia nessuno, perchè
non mette a nessun luogo; mentre alla chiesuola di Santa Giustina, che
è meta di scampagnate, si va più comodamente da un'altra via, per un
ponte vero e sicuro, gittato all'estremità del paese. Così, dopo avere
imitati nella mazza lunga i Babilonesi, ho imitati nella sottile
accortezza i Fenicii, quando ebbero scoperta oltre le colonne d'Ercole
la via delle isole Esperidi; faccio quanto posso per tener celata la
mia direzione, e a buon conto non metto nessun sull'orma. Così il gran
viale dei pioppi è mio; mio il grande tappeto verde, mia l'acqua
ascosa, che dietro la fila delle carpinelle va cercando il mulino, per
ritrovarlo un mezzo chilometro più in giù.
Ho preso Orazio in compagnia; Orazio, per far la corte a te, che me lo
hai citato; nella edizione civettuola del Murray, per far piacere a
me, che amo tanto veder belli i libri buoni. Quel caro Orazio è il più
vario di tutti i poeti del mondo: ha tutte le corde della lira; c'è
Pindaro, in lui, ed Anacreonte, Saffo, Simonide, Alceo, e chi sa
quanti altri smarriti della greca antichità, i quali ci si faranno
ritrovare un giorno (voglio sperarlo, almeno) nelle fasce di qualche
mummia egiziana del periodo alessandrino. Come li ha tutti condensati,
il Venosino, esprimendoli tutti con quel sentimento della misura ch'è
la vera dote del genio! come li ha tutti rivissuti in sè stesso, non
già intarsiator diligente ed accorto, ma fonditore balioso e geniale,
rendendoli come guizzi dell'anima sua, da tanti spiragli di sincerità,
con tanti lumi di vero! Senza vantarmi, credo d'essere un po' come
lui; non nell'arte, intendiamoci, ma nel modo di pensare e d'intender
la vita. Egli amò la campagna per le sue intime bellezze naturali,
dopo aver goduta la città nei suoi eleganti artifizi. Non odiava gli
uomini, conoscendoli, e sapendone ridere; aveva in pregio gli amici, e
amava qualche delicatezza nel vivere. Perchè rinunzieremmo alle
grazie? Può mai dimenticarle, chi le ha conosciute e praticate una
volta?
Amo Orazio, e mi godo qualche sua ode, centellinando, assaporando le
strofe, in mezzo a quei fregi, ornati, bozzetti di scene romane e
pompeiane, onde il Murray ha accompagnato il testo, come di cose che
gli appartengono. Più volentieri mi fermo ai passi dov'è fatta
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