Galatea - 10

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come sorbire un uovo fresco. Il degno uomo confessava candidamente di
non aver lavorato mai tanto, nella bellezza dei trentacinque anni
della sua vita ipotecaria. Anch'io, colla cura del concerto musicale,
con quell'altra del prologo, e poi con cento piccole cose dell'alta
direzione, sono stato occupato la parte mia; ed oggi, finalmente, alla
stanchezza intellettuale si è aggiunta la stanchezza fisica, che m'ha
fatto rimanere due ore a tavola, quantunque senza voglia di mangiare o
di bere. Stasera ho ricusato di muovermi da casa, ed ho lasciato andar
solo il mio ospite. Che uomo d'acciaio, quello! Pare, a vederlo, che
sia stato a veder gli altri, mentre ha lavorato anche lui come un
negro.
Consoliamoci, perchè le cose sono andate a quel dio. La sala era
parata benissimo, e il divo Terenzio ha meritati davvero gli elogi di
tutta la colonia villeggiante. I ritratti del re e della regina, tolti
per l'occasione dalla sala dell'Asilo, sono stati appesi nel fondo del
palco improvvisato, sotto un baldacchino di drappelloni rossi (due
tappeti della contessa Quarneri) tra corone di quercia e festoncini di
fiori. E di mazzi di fiori disposti a losanghe si abbellivano le
pareti della sala, che erano tutte inverdite con frasche di castagno.
Dio, quanti chiodi ci son voluti, per fissare tutta quella roba, che
aveva poi da durare una mezza giornata! Non fu così facile, del resto,
dissimulare la bruttezza del pavimento; ma su quello erano tante file
di sedie, che quando la gente ebbe preso posto, l'ammattonato
scomparve per due terzi della sua superficie; un terzo, nel mezzo
della sala, era coperto dal tavolato, messo là per le prove di
scherma.
Si fece porta alle dieci del mattino. Avevamo preparato cinquecento
biglietti d'ingresso, a cinquanta centesimi l'uno; e s'intende che,
salvo i venduti a chi ne faceva richiesta, ce ne spartivamo il grosso
tra noi. Una cinquantina erano già necessarii per noi villeggianti e
per la gente di casa; un centinaio furono presi dai naturali di
Corsenna; il resto fu distribuito da noi, all'ultim'ora, e gratis, per
fare una piena spettacolosa. I Corsennati, che stavano per istrada a
guardare verso l'uscio della filanda, gradirono assai quest'atto di
generosità; forse lo avrebbero gradito, mezz'ora prima, anche quelli
che erano dentro, e che avevano dovuto pagare il biglietto, la più
parte per onor della firma. I Corsennati son gente savia, tanto che si
potrebbero dire più esattamente assennati; e pensano che se i signori
vogliono fare del bene, farebbero anche meglio a farlo intiero.
Nondimeno, e paganti e non paganti si son mostrati soddisfatti ad un
modo, e non ci hanno lesinati gli applausi.
La banda di Dusiana aperse il fuoco, assordandoci con la più rumorosa
delle sue marce guerriere. Fu applaudita a furore, e si gridò viva
Dusiana; il che non è mai male tra popoli contermini, che hanno di
tanto in tanto i loro piccoli screzi e dissapori. Già si voleva il
_bis_; ma il capobanda fece un gesto che voleva dire: "abbiate fede;
ci sentirete anche più del bisogno." Frattanto otteneva silenzio la
contessa Quarneri, apparendo sul palco. Era diventata bianca bianca,
non potendo impallidire del tutto; la rianimarono gli applausi della
colonia e quelli anche più rumorosi, che seguirono, del buon popolo
Corsennate. Incominciò essa allora il suo prologo, tremandole un
pochino la voce ai primi versi. Io tremavo più di lei. Temevo che
intaccasse; e in quella vece tirò via, forse un po' troppo veloce, ma
tanto più sicura del fatto suo, quanto più correva verso la fine.
Trascurò, si capisce, molte sfumature, perdè molti effetti; ma non
dimenticò il suo tuono predicatorio, la sua cantilena, le sue
inflessioni nasali. Niente paura, dopo tutto; si era in Corsenna, e
Corsenna applaudì tutta come un uomo solo. Credo che sia volata anche
qualche spalliera di seggiola. I miei Corsennati, questa volta si
tramutarono in forsennati.
--Che talento!--esclamò la sindachessa, stimando necessario di dar lei
l'intonazione ai giudizi dei suoi amministrati, o di suo marito, che
poi è tutt'uno.--Per il possesso di scena, par proprio un'attrice.
--Pare la Madonna;--diceva più in là una ragazza modestamente
vestita.--Ce ne saran voluti, dei biglietti da cento, per coprirla di
merletti a quel modo!
--Che fior di farina!--gridava anche più in là, nella calca, il
mugnaio del paese.--Di quella roba lì non se ne trova mica a sacchi.
Che cosa ne dite voi, Giacomino?
--State zitto; la mangerei;--rispondeva Giacomino, il panattiere.
Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Tra il talento di attrice
scoperto dalla sindachessa, l'effetto di una ricca abbigliatura che
faceva morir d'invidia le ragazze del paese, e quello d'una bellezza
innegabile che destava istinti d'antropofago perfino nel più
interessato apostolo della nutrizione vegetale, il prologo andò a vele
gonfie. Seguì ancora una suonata della banda, con assòlo di tromba a
pistoni; chetato il quale, si ebbe una mandolinata delle tre Berti,
tanto carine e meritamente applaudite, colla domanda del _bis_:
domanda che fu tosto esaudita, ma variando il pezzo, secondo l'uso dei
concertisti che si rispettano. Da capo, finito il terzetto delle
mandoliniste, volle rumoreggiare la banda, con un centone di pezzi
della _Norma_, dove non mancò la "Casta diva" nè il suo contrapposto
del "Guerra, guerra". Quello era il momento buono per metter mano
all'armi. Discese Filippo Ferri sul tavolato, e lo seguì Enrico Dal
Ciotto. Terenzio Spazzòli, uomo tagliato a tutti i grandi uffici, con
molta dignità prese a tenere la smarra. L'assalto è, per consenso
universale, assai bello; non già perchè i Corsennati siano intendenti
in materia, ma perchè assistono per la prima volta ad uno spettacolo
di quella fatta. Il povero Dal Ciotto ha più audacia che perizia di
schermitore: ha preso una bottonata, due, tre, senza collocarne una
delle sue; quattro, cinque e sei, con eguale risultato. Ma qui Filippo
Ferri si è mosso a compassione; ha un po' rallentato il suo giuoco, e
si è fatto toccare ad un braccio; più di striscio, in verità, che di
punta; ma s'è affrettato ad accusar ricevuta. Pare ad Enrico Dal
Ciotto di potersi rifare; ne busca una settima, e si dà allora per
vinto.
--Son proprio fuori d'esercizio;--conchiude, rivolgendosi alle
signore.--Ma sono felice ad ogni modo di aver fatto brillare il giuoco
del signor Ferri; un giuoco veramente magistrale.--
Bravo satellite! Così mi piaci; senza rancore, con un granellino di
spirito, che non avrei immaginato mai, e che son lieto di riconoscere.
Si domanda il _bis_; ma Enrico Dal Ciotto è stando, e non lo concede.
--Si provi Lei;--mi dice la signorina Wilson, che è seduta ai primi
posti, e che non dubita di rivolgermi il discorso, quando c'è gente.
--Volentieri;--le rispondo;--per farmi battere.--
E m'avanzo sul tavolato, per calzare il guanto o metter la maschera.
--Animo!--mi bisbiglia Filippo, mentre mi aiuta fraternamente
nell'opera.--Qui si parrà la tua nobilitate.--
Lo spero bene. È chiaro come il sole, che ne buscherò parecchie, anzi
molte; ma non farò la figura di Enrico Dal Ciotto, e ne restituirò più
d'una.
Incominciamo guardinghi, studiandoci l'un l'altro, facendo di passata
un po' di fioriture accademiche. Filippo Ferri ama i principii a
tavola; li ama ancora sul tavolato. S'impegna un giuoco serrato di
finte, di parate, di attacchi e di contrattacchi, d'intrecci e di
sparizioni, che diverte un mondo, come al giuoco del pallone una lunga
sequela di colpi senza lasciar ruzzolare il pallone per terra. Quella
prima messa in guardia è senza bottonate; la folla degli spettatori va
tutta in visibilio. "Come fanno a non toccarsi mai?" gridano di qua e
di là; "come fanno?" E si applaude furiosamente al prodigio.
Ma eccoci da capo impegnati. Filippo è un gran cavaliere; mi lascia
l'onore della prima bottonata, e ne accusa ricevuta colla solita
cortesia. Ma non vuol neanche parer troppo generoso, e finge di essere
in collera con sè medesimo; ripiglia, attacca vigoroso, mi obbliga a
fare un salto indietro; m'invita fieramente col piede, e appena son
ritornato in misura, mi sferra in pieno petto la sua botta diritta. È
allora un furore d'applausi. Evidentemente io sono simpatico ai
Corsennati; ma la passione del maggior numero è in questo momento per
lui. Non me ne dolgo; mi basta di aver sostenuto quel primo assalto
così lungo, tenendogli testa senza esser colpito, scherzando,
giuocherellando col ferro quanto lui; m'è più che bastante l'onore
della prima bottonata, che egli mi ha tanto cortesemente lasciato. E
vorrei, dopo la prima sua, lasciarmene dare una seconda e una terza,
che mi parrebbe sempre di aver fatto una buona figura. Ma egli non è
del mio parere; mi batte la campagna, non approfitta del suo
vantaggio; seguita a descrivere, a distanza di otto centimetri dal mio
costato, i suoi elegantissimi otto, in piedi o coricati, come gli
pare, senza toccarmi mai. Va bene che molte io ne paro, e potrà anche
sembrare agli astanti che io le pari tutte; ma dentro di me sento che
egli potrebbe entrare più d'una volta. Perchè non lo fa? Mi scaldo al
giuoco, rompo uno di quegli elegantissimi otto, ed entro io con una
seconda bottonata. Egli accenna del capo, e sembra volermi dire sotto
la maschera: "finalmente! è mezz'ora che l'aspetto." Poi me ne dà una
a sua volta, un'altra se ne lascia dare; e così via, un po' per uno,
giungiamo al punto che io ne ho date sei, quante lui, nè più nè meno.
Facciamo la bella? Facciamola. E la dà lui, dopo un maraviglioso
sfoggio di finte e di attacchi; la dà lui, imperiosa, gloriosa,
solenne. Ed è piena giustizia, che mi rende felice, mentre egli, tra
uno scroscio di applausi, è dichiarato il campione della spada.
--Signori,--dice modestamente il mio avversario agli astanti di prima
fila, dopo avermi dato, a maschere levate, un abbraccio fraterno,--il
nostro poeta è di prima forza; non lo sapevano? Bisognerebbe ancora
vederlo alla sciabola.
--Sì, sì, un assalto di sciabola;--si grida.
--Non già con me;--risponde Filippo Ferri.--Io sono ora un po'
stanco.--
Si fa invito coi gesti; ma nessuno dei sedenti risponde. Terenzio
Spazzòli è un fior di cortesia; si offre lui, cede la smarra a
Filippo, mette la maschera e il guantone, impugna la sciabola, e in
guardia. Son largo con lui, come Filippo è stato largo con me, e mi
lascio far volontieri il solito manichino di controtaglio, e di primo
appetito; poi, serrandolo al mio giuoco, gli dò una puntata, guizzando
subito fuori e rimettendomi in guardia. Seguono gli assalti, e non mi
lascio toccar più; un altro suo tentativo di manichino è rotto da un
guadagno di lama, seguito a volo da un colpo alla faccia.
--Ho il mio conto;--dice Terenzio, levandosi la maschera ed asciugando
il sudore.--E questa poi me la son meritata, col mio ritorno al
controtaglio. Piuttosto mi par duro essermi lasciato colpire di punta.
--E a me ne duole moltissimo;--rispondo.--È un vizio di metodo. Anche
colla sciabola faccio, senza volerlo, il giuoco della spada;
rischiando poi, se non mi vien bene il colpo, di farmi affettare una
spalla.
--Non temo che ciò le succeda, se ha tanto sicuro l'atto di portare il
taglio in su, e così veloce l'attacco. Quanto al vizio di metodo,
glielo invidio. L'ho sempre detto io, che il giuoco di sciabola va
fatto più serrato, sì, più serrato, come quel della spada in certi
casi; e in tutti gli altri, non troppo distante di lì.--
La dottrina e l'asseveranza compensano nel divo Terenzio il difetto di
pratica; ed egli rimane agli occhi di tutti un gran cavaliere. La mia
gloria, nondimeno, è al colmo. La contessa Adriana, nel farmi le sue
vivissime congratulazioni, mi offre perfino dei fiori. Oh Dio! e
Galatea, che vede, che cosa penserà del fatto? che cosa dei
ringraziamenti, che son pur costretto a fare? Cerco di rimediare,
rivolgendomi alle altre signore, alle Berti, da principio.
--Non avrò i loro fiori, signorine?--
Le tre fanciulle son ben liete di appagare il mio desiderio; mi danno
tre bei garofani dei loro mazzolini. Anche le mamme mi fioriscono alla
lor volta; e così posso chiedere il suo fiore alla signorina Wilson.
--Ne ha già troppi;--mi risponde.--Ed io, del resto, non ne ho....
devo averli smarriti.--
O lasciati cadere, birichina; lasciati cadere a bella posta dietro la
sedia, a mala pena mi hai veduto in giro, col manifesto proposito di
finire da te.
La banda di Dusiana rumoreggia da capo, con un centone di motivi
dell'_Attila_. Sarà mediocre, la banda di Dusiana; ma non è certamente
peggiore di tante e tante altre. Poi, viva la faccia dei popoli
campestri, che amano la musica, e preferiscono questo passatempo a
quello della morra e della politica d'osteria. Finalmente, la banda di
Dusiana suona una musica che mi piace per tante ragioni, non ultima
quella del gran bene che ha fatto ai suoi tempi. Ancor caldo delle mie
sciabolate, canticchio in cadenza coi suonatori il "Cara patria, già
madre e reina" e l'"Empia lama, or l'indovina", non dispiacendo
neanche al trombone, a cui è affidata la frase melodica in discorso.
Ma una voce più graziosa, sopra tutto più intonata della mia, rallegra
l'uditorio. È la voce della signorina Virginia Berti, che arpeggiando
sulla sua mandòla canta due belle canzoncine spagnuole. Anche a lei,
molti applausi: i Corsennati, sicuramente, dal continuo picchiare,
hanno già le bollicine alle mani. E ancora non abbiamo finito; ecco il
bello che viene, con una fila di bambini, tutti vestiti ad un modo,
che si schierano sul tavolato e cantano una strofetta di
ringraziamento. Il bello, ho detto: ma a me non piace, essendomi
sempre parso un rompere il turibolo sul naso ai così detti
benefattori, e un profanare la onesta dignità dei così detti
beneficati, il far cantare una filza di complimenti smaccati, da
quelle care bocche innocenti. Non piace a me, ripeto; piace nondimeno
agli altri, e perfino ai parenti di quelle tenere vite; passi dunque
il ringraziamento cantato. C'è poi una bella tombolina che si presenta
sul palco, e recita un paio d'ottave: non si capisce niente di ciò
ch'ella balbetta; ma la tombolina balbetta con tanta grazia, che ne
son tutti inteneriti, e la levano di lassù a braccia tese, le fanno
carezze, la divorano coi baci. Il concerto è finito; si dispongono le
mense pei bambini, ai quali è dedicata la festa. La banda di Dusiana
intuona la marcia reale, e questo mi piace; ma che dico, mi piace? È
una vera trovata. Non sono quei bambini i re dell'avvenire? Godete,
bambini, il vostro primo giorno di regno; e non vi manchi corte
bandita a tutti gli altri che seguiranno. Noi vi lasciamo alla vostra
dolce occupazione, per prendere una boccata d'aria, ed anche uno
spuntino, che la cortesia di Terenzio Spazzòli ha fatto servire a noi
in un'altra sala della filanda. Finito lo spuntino degli "artisti" e
il desinare dei fanciulli, si va nel cortile ad aprire il tiro al
bersaglio; tiro di pistola, s'intende. Lo inauguro io, con un centro
tanto fatto.
--Ma voi siete un mago!--mi grida la contessa Adriana.--Chi vi
potrebbe resistere?
--Oh povero me! per un po' di fortuna!--rispondo umilmente.--Certo, mi
sono sempre esercitato, per avere un colpo abbastanza sicuro contro
chi mi vuol male.--
Spara a sua volta Filippo, e non fa che centri, puntando a mala pena.
Spara anche il divo Terenzio, discretamente bene, cogliendo sempre il
bersaglio in vicinanza del centro. Enrico Dal Ciotto, invitato a
sparare, si scusa col braccio stanco; del resto, è un po' fuori
d'esercizio. Meno geloso dell'arte sua, si prova il Cerinelli, e
qualcuna ne indovina. Quanto al Martorana, è una sbercia senz'altro,
ed ha il buon gusto di convenirne. Tastato anche quello, e risponde
picche. Insomma, sconfitti tutti e tre, i miei fieri satelliti faranno
molto a potersi ritirare in disordine.
Enrico Dal Ciotto si rifà un pochettino alla ruota di fortuna,
guadagnando al primo numero un servizio da tavola per venticinque
persone. È la solita canzonatura di tutte le lotterie; un mazzo di
venticinque stecchini. Questo dei premi umoristici, è il caval di
battaglia del divo Terenzio, che fa stupendamente da segretario alle
signore venditrici. La ruota gira, rigira, senza fermarsi mai, ma non
fruttando che premi di pochissimo conto. Delle cose migliori si fanno
lotterie particolari, a mezza lira, a una lira al numero. A quella e a
queste, poco alla volta, tutta Corsenna si scalda; e mentre qualche
bel capo, qualche utile arnese è portato via, i ragazzi del paese
fanno bottino di trombette, di zufoli, di tutte le piccole carabattole
che i grandi hanno guadagnate, ma regalano loro, non sapendo che
farsene.
A me, tra le risate universali, tocca un bavaglino; e dopo una diecina
di polizzini bianchi, un altro arnese da bimbi, una cuffina. Son
destinato; me lo dicono tutti, ridendo alle mie spalle: ma io non mi
spavento per così poco, e inalbero arditamente i miei piccoli trofei.
Enrico Dal Ciotto riesce finalmente a vendicarsi della mala fortuna,
guadagnando una sveglia, niente di meno. Beato lui! gli servirà per
destarsi di buon mattino, il giorno che dovrà far le valigie, che
Iddio l'accompagni.
La fiera di beneficenza ci porta via tre ore buone. Oramai non ne
possiamo più. Siamo in moto dalle nove del mattino; sentiamo il
bisogno di sedere, e non per pochi minuti. Inoltre, lo spuntino del
mezzodì non ha fatto altro che aguzzar l'appetito. Gli "artisti"
lasciano il teatro delle loro glorie alla vigilanza del segretario
comunale, e vanno a desinare all'osteria, piuttosto male, ma non senza
buon condimento d'allegrezza. Poi, tant'è, vogliono dare un'ultima
occhiata alla fiera, contendersi gli ultimi doni, sentire le ultime
suonate della banda di Dusiana. Tutto è venduto, portato via alla
fortuna del polizzino; restano i banchi vuoti e la cassa piena. Si son
fatte seicento novanta lire; paion poche, e si arrotonda la cifra,
quotandoci in parecchi per aggiungerne dieci. S'intende che sono
settecento lire nette, da consegnare alla direzione dell'Asilo. Le
spese le abbiamo fatte noi villeggianti, così per la banda di Dusiana,
come per l'arredamento dello stabile e per l'ordinamento della fiera.
Dei doni per la lotteria, i due terzi sono stati regalati dalla
contessa Quarneri. Sia detto a sua lode; non diventerà mai una grande
attrice; resterà sempre una cortese signora.
Tutti han lavorato quest'oggi; ma un po' meno la signorina Wilson, che
non ha voluto assumersi nessuna parte nell'accademia. Si è per contro
occupata assai della fiera, in compagnia del commendator Matteini e di
Terenzio Spazzòli. Buci ha partecipato largamente a tutto il
trattenimento; sempre in moto per la sala del concerto, in quella
dello spuntino, alla fiera, all'osteria, poi da capo alla fiera. Sul
finir della festa è diventato quasi un personaggio importante. Non ha
voluto riconoscere il suo antico padrone, che voleva fargli una
carezza, vedendolo così lustro di pelo. Per compenso, non ha nemmeno
guardato il suo padrone odierno, e legittimo per virtù di regolare
contratto. Due o tre volte, passandomi egli a tiro, m'è tornata la
voglia di assestargli una pedata. Ingratissimo cane!
La festa è finita, almeno per quanto riguarda gli "artisti". Ultimi
fanno ancora qualche cosa i filarmonici di Dusiana, rumoreggiando per
quanto è lungo il paese, e accettando ancora un bicchiere ad ogni
frasca, ad ogni bottega, fino a tanto che non giungono davanti alla
giardiniera che deve trasportarli a casa loro, madidi di sudore e di
vino, ma più d'amore fraterno per i loro buoni vicini di Corsenna, a
cui, dopo la loro partenza, non rimangono che le fisarmoniche locali
per continuar la gazzarra e ballar sulla piazza. A memoria d'uomini
non si è mai visto tanto tripudio in Corsenna. Beneficenza, son questi
i tuoi miracoli. E quando poi ti si è fatto onore senza secondi fini,
come nel caso presente, per solo amore del nostro simile, con un
accordo perfetto tra i promotori, che non ne fu mai tanto tra i
suonatori di Dusiana, bisogna proprio andar superbi di noi medesimi, e
conchiudere che il mondo non è brutto quanto si dipinge.
Sono le undici, e suonano al cancello. È l'amico Filippo, il buon
fratello che arriva, che torna da godersi il resto della serata, nella
graziosa compagnia della contessa Adriana. Smettiamo; voglio andarlo a
ringraziare di tutto quello che ha fatto per me....
_PS._ Ma bene, benissimo! Filippo ha lavorato anche lui per la gloria.
Ecco le sue parole:
--Rammenterai quel che ti ho detto due giorni dopo il mio arrivo.
Bisogna mutar registro. Scoperto l'uomo d'armi, e forse indovinato il
violino di spalla, era necessario non aspettare i nostri satelliti, ma
andar loro incontro con qualche dimostrazione di forze. Questo si è
fatto, più presto e meglio che non ci fosse dato sperare. Anche tu, in
una settimana d'esercizio, hai fatto prodigi, e la giornata d'oggi è
stata un trionfo per te.
--Sì, ma come mi hai validamente aiutato!--risposi.--E come mi hai
cacciato avanti... contro il merito mio!
--No, sai, o ben poco. Ammettiamo pure che non mi avresti dato la
prima; quanto al resto, hai fatto il tuo potere, come io facevo il
mio. Sei diventato fortissimo, e te ne faccio i miei complimenti. Già,
quando si è avuta una buona scuola, non si dimentica più. Sono
contento di te, quanto ne saranno scontenti i satelliti della contessa
Adriana. Scommetto che se ne vanno entro i sette giorni. Felice
mortale, a te.
--Ti ridico per la ventesima volta, che non ne sono innamorato.
Sciolta la mia questione d'amor proprio con quei là, penso a lei come
al gran cane dei Tartari.
--E allora tanto meglio, o tanto peggio. Avrai tempo e libertà per
ardere i classici incensi ad un'altra.
--Ma che! a nessuna, mio caro. Sai pure che il mio poema mi assorbe.
--E dalli col tuo poema;--gridò Filippo, con accento di comica
stizza.--Io, vedi, se avessi un poema da finire, e sperassi con
fondamento di trovare un editore, lo butterei dalla finestra, il
poema, solo per un sorriso della signorina Wilson.
--Che! come?--balbettai.
--Ma tu, fradicio di letteratura, non capisci più niente di
niente;--continuò Filippo, infervorato nel suo ragionamento.--Ebbene,
tanto meglio; sei uno di meno in giostra. Amo quella ragazza; e se mi
riesce, la sposo.
--Ah sì?
--Certamente. Ma ecco,--soggiunge Filippo, rìdendo,--senza volerlo, si
casca a ripetere il tuo dialoghetto col signor Enrico Dal Ciotto.
Eccoti dunque, mio caro Rinaldo, eccoti dunque il segreto dell'anima
mia. Per una volta tanto, sono innamorato morto. E poichè tu vuoi
avere tanta gratitudine per me, che non ho fatto niente o ben poco in
tuo favore, e perchè, finalmente, una mano lava l'altra, mi farai la
grazia di aiutarmi un po' tu, con qualche buon discorsetto preliminare
alla mamma.--


XVI.
Mattina e sera.

_28 agosto 18.._ (mattina).
Sono rimasto male, molto male, tanto male, che non ho saputo
rispondere quello che andava risposto. "Si vedrà", gli ho detto; ed
egli se n'è contentato. Si vedrà.... si vedrà.... Vivaddio, non si
vedrà niente, me vivo.
Ma che cosa c'è di vero? che cosa c'è di serio, nell'idea del signor
Ferri? com'è nata? come ha potuto formarsi in una testa cavalieresca,
sì, ma così poco romantica come la sua? Per amar così forte la
signorina Wilson, bisogna che speri di esserne riamato. Per nutrire
una speranza simile, è necessario che abbia avuto qualche occasione,
qualche appiglio favorevole. Ma quale? in che modo l'ha trovato? Oh
bella! come si trovano gli appigli, come si trovano le occasioni. Non
avrebbe trovato niente, se fosse rimasto a casa sua; meglio ancora,
non si sarebbe neanche avveduto della esistenza di una signorina
Wilson sotto la cappa del cielo.
Sciocco io, sciocco io, a farlo capitare in Corsenna. Doveva essere un
pericolo, quell'uomo, un pericolo da per tutto e per tutti, con quella
sua grand'aria di cavaliere antico. Le donne amano i forti. Quello è
un corazziere, all'aspetto, con occhi d'aquila e una bocca di
fanciulla. E sono i temibili, questi; non si sfugge all'immagine della
forza, quando è accoppiata alla bellezza, alla bontà, alla grazia. È
in natura. Ah sciocco, sciocco, tre volte sciocco! Non potevo condurla
da me, quella stupida impresa? Senza contare che la mia matta fantasia
aveva lavorato sopra una falsa supposizione. Erano tre ragazzacci, e
niente più; con una certa voglia di parere impertinenti, ma senza il
coraggio di giungere agli estremi.
Ed ora, che si fa? Ho passato una notte d'inferno, dormendo male, e
sognando che il corazziere la conduceva all'altare, tutta bianca nella
sua nube di merletti e di veli, colla corona di fior d'arancio sul
capo. Io ero testimonio; naturalmente, nella mia condizione
d'amico.... e di sciocco. Bizzarro episodio di quella cerimonia: prima
di rispondere il fatale monosillabo, si è voltata a mezzo dalla parte
mia, mi ha gittato un'occhiata birichina attraverso il lembo del suo
velo, più tenue, più diafano che mai, ed anche colle sue belle labbra
vermiglie mi ha fatto boccuccia. Che ardire! e non pensava che
potevano vederla? Il prete, a buon conto, ha notato il suo atto, e
levando gli occhi si è volto a guardar me, pensando, intravvedendo in
un baleno Dio sa quante cose. Ma lei si era già voltata dalla parte
buona, e proferiva il suo sì, un sì tanto acuto, che ne tremò tutta la
chiesa, ed io mi sono svegliato coi sudori freddi alle tempia.
Mi sento male, questa mattina, e non parlo di alzarmi. Filippo è
venuto in camera mia, ed approva la mia risoluzione di stare in
riposo.
--È la grande stanchezza di ieri;--dice egli.--Avrai anche la testa
pesante; vedo che hai gli occhi un po' rossi. Ti consiglierei di
metterti in corpo un'oncia e mezzo di magnesia effervescente. È la mia
cura, quando non mi sento bene. Vedrai che ti passa ogni cosa.--
Non mi passerà niente, colla tua magnesia. Ritira piuttosto,
rimangiati quel che mi hai detto iersera, assassino; e vedrai che
salti faccio sul letto! Ma è stata un'infamia! Innamorarsi della
signorina Wilson! di Kathleen! di Galatea! Per tutti i settemila!...
Di tutte le disgrazie che mi potevano capitare, questa è la più
grossa; è andato proprio a cercarla nel mazzo.
E quanta cavalleria, per domandarmi, per voler sapere ad ogni costo,
se fossi invaghito della contessa! Era perfino diventato noioso, col
suo non volersi persuadere. Ora capisco il suo giuoco; mi ci voleva
inchiodare, al Roccolo; magari facendomi ingelosire un pochino di sè,
per aver poi il merito di ritirarsi davanti a me, di lasciarmi il
passo franco. Sì, è così, non altrimenti. Egli non aveva avuto da lei
nessuna di quelle lusinghe che mi voleva far credere. Infatti, a chi
ha dato ieri il premio di un fiore, la signora contessa? Oh, quel
fiore, quel fiore! ci voleva proprio quel fiore del malanno, per
meritarmi un altro sgarbo di Galatea.
Galatea, Galatea! Penso che voi abbiate fisso il chiodo di farmi
impazzire. Per una passeggiata innocente, per un incontro non potuto
prevedere, non potuto evitare, e del quale non avete nemmeno certezza,
trattarmi così male, via, è un po' forte. Rizzarmi muso, sfuggir tutte
le occasioni di ritrovarvi presso di me, di barattar due parole con
me, non vi pare una crudeltà senza esempio? Da che tigre arcana siete
voi nata, sia detto col massimo ossequio per la vostra signora madre i
Dopo tante belle cose che abbiamo fatte insieme sui monti, dopo tante
graziose birichinate per pigliarvi spasso di me, dovevate mutarvi di
punto in bianco a quel modo? Si andava così bene d'accordo nelle
ragazzate! mi sentivo ritornar così giovane, accanto a voi! La vita
con voi sarebbe stata così bella! tanto bella, che per un momento ne
ho avuto il capogiro, e mi sono sforzato di scacciarne l'idea. Ah sì,
gran sapiente che sono stato! Ero uscito un tratto fuori dalla soglia
del mio paradiso, e m'han chiuso l'uscio dietro le spalle.
Che c'è? Una lettera, e larga tanto, col bollo comunale di Corsenna. È
il sindaco che scrive, per ringraziarmi. Non han voluto perder tempo.
Settecento lire di sussidio all'Asilo, meritavano questa
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