Galatea - 08

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--Ebbene,--gli dissi, come ci fummo ridotti a casa,--che te ne pare
della nostra colonia?
--Niente, finora; ho appena veduto, cercando di orizzontarmi. La tua
contessa è bellissima. La Berti madre mi pare una donna di buon senso,
che porti con dignità il doppio carico della sua mole matronale e
delle sue tre figliuole, che sono molto graziose. La sindachessa è
un'oca; la segretaria comunale una cingallegra. Non ho infatti potuto
giudicarlo che ai gesti, perchè non hanno parlato quasi mai. La
signora Wilson madre è una fiorentina, m'hai detto? Se è tale, diciamo
pure che è una fiorentina di genere nuovo, perchè parla sempre coi
denti stretti, e poco, per conseguenza, poichè deve durarci fatica.
--Ha sposato un Inglese, rammentalo; ed ha dovuto parlare quasi sempre
inglese, in famiglia.
--Del resto, quel poco che dice è sempre assennato;--riprese
Filippo.--Mi pare un'ottima donna, e molto e giustamente superba della
sua graziosa figliuola. Veniamo agli uomini. Il tuo commendator
Matteini è un rudero.
--Ma ben conservato.
--Intonacato, vuoi dire? Aspettiamolo di giorno chiaro, per vederci le
crepe.
--E i miei tre satelliti?
--Quelli non li ho studiati ancora. Mi ha tanto distratto quel
Terenzio Spazzòli!
--Sì, ho ben veduto che non lo hai molto gradito.
--Di' pure che m'è venuto a traverso, come una lisca di pesce in gola.
Il diavolo se lo porti! ci voleva proprio lui, qui, per dire di avermi
incontrato a Montecarlo e veduto in una gara di pistola.
--Che hai vinta; e ciò ti ha messo in buona vista colle signore.
--Ma in troppa vista coi tuoi tre satelliti; non ci pensi, a questo?
Ora prevedo che bisognerà cambiare di punto in bianco il nostro
giuoco.
--In che modo?
--Lasciami pensare. E prima di tutto lasciami andare a dormire. Sai
che domattina dobbiamo alzarci alle cinque.--
Che diamine ha inteso di dire Filippo, colla necessità di cambiare il
giuoco? Ci ho pensato a lungo, nella notte, prima di prender sonno; ed
anche ieri mattina, appena svegliato. Forse voleva farsi sotto con
astuzia, quatto quatto, senza parere, alla maniera delle tigri. Ma
questo, come poteva sperarlo? Un uomo come lui, anche a non conoscerlo
di prima, si annunzia subito per quello che è, con quel suo piglio
marziale e con quelle sue spalle da Ercole. E in che consisterà il suo
cambiamento di giuoco? Di punto in bianco; dunque smascherando le
batterie, facendo pompa di se! Non è vanaglorioso, e non saprà
millantare. Son curioso di sapere a che partito s'appiglia.
La mattina alle cinque, prima che ci portino il caffè, l'amico Filippo
è già in piedi. Quando entro nella sua camera per dargli il buon dì,
vedo che si è già fatta la barba. Alle sei siamo in piazza, dove sono
arrivate le due giardiniere che dovevano portarci a Dusiana. A due, a
tre, a quattro per volta, arrivano tutti i nostri compagni di
scarrozzata. La contessa Quarneri viene ultima, essendo la più lontana
di alloggiamento; ma non s'è fatta aspettare più di cinque minuti,
rendiamole questa giustizia, ed ha con sè le tre guardie del corpo,
che sembrano aver passata la notte davanti al cancello del Roccolo,
per non perderla d'occhio. Colle signore Wilson è venuto anche Buci,
che ardisce venirmi a scodinzolare davanti e a ridermi, se Dio vuole,
sul muso. Vile schiavo! Dopo che io t'ho sottratto alle bastonate del
tuo primo padrone, comprandoti per venti lire da lui, così mi tratti,
così mi ricompensi della mia dabbenaggine? Lo guardo a squarciasacco,
e faccio ridere la signorina Kathleen, che però si ricompone subito, e
mi fa grinta dura, quando io alzo gli occhi verso di lei.
È bella a quel dio, la birichina, con quel suo vestito alla marinara,
bianco, a risvolte turchine, semplice ed elegante. Elegantissima è la
contessa, che sfoggia per questa occasione un abito azzurro sormontato
d'una cotta bianca a trafori, e porta con bell'audacia sul capo tutto
un verziere, anzi tutto un frutteto. La bellissima signora, ammirata
dagli uomini, acclamata dalle amiche, sequestra per sè la signorina
Kathleen e il mio amico Filippo, prendendo posto con essi nella prima
giardiniera. I tre satelliti, naturalmente, son pronti a ficcarsi
nello scompartimento davanti, donde voltandosi, e mettendo i gomiti
sulla spalliera, potranno tenerla d'occhio quant'è lunga la strada.
Abbandonato da Filippo, dalla signorina Wilson, e perfino da quello
scellerato di Buci, che è saltato in carrozza per accovacciarsi sotto
il sedile di lei, vado a smaltire la mia stizza nella seconda
giardiniera, dov'è la Berti madre colle figliuole. I ragazzi,
sapientissimi, non volendo mangiar polvere, sono andati nella prima,
occupando la panca dietro il vetturino, per godersi la strada. Con noi
è la signora Wilson madre; con noi la segretaria comunale, che ha
lasciato, _honoris causa_, il posto nell'altra vettura alla sua
superiora diretta; con noi il commendator Matteini e Terenzio
Spazzòli. Felicissimo uomo! e pare, a vederlo, che quel posto nel
secondo carrozzone l'abbia scelto lui. Il divo Terenzio non si
scompone mai, non si turba, non si sconcerta di nulla. Se casca,
diciamo pure con lui che voleva scendere.
I due tranvai si muovono, e traversano fragorosamente mezzo il paese,
oggetto d'invidia ai Corsennati, tutta gente mattiniera che deve
accudire alle sue faccende quotidiane. "Come son felici, i signori!"
diranno essi in cuor loro, vedendoci passare. E voi niente, o
Corsennati? A buon conto, voi non avete da discorrere di economia
politica e di scienza di governo col commendator Matteini. Il degno
conservatore a riposo l'ha oggi con me; Dio sa quando mi lascia.
Certo, ha provato i giorni scorsi con Terenzio Spazzòli, e lo ha
trovato indegno di accogliere i tesori della sua molta esperienza.
Il tragitto non si racconta. Per aver qualche cosa che mettesse conto
d'esser qui registrata nel mio memoriale, bisognerebbe essere stati
là, nell'altro carrozzone, a sentire le belle cose che avrà raccontate
il mio dolce amico Filippo, il beniamino, il cucco delle signore.
Triste cosa, in una società, essere antichi! I nuovi venuti han tutte
le preferenze, tutte le graziette, tutte le moine delle signore. È
giusto, infine; e poi, se fan festa al mio Ferri, non debbo esserne
felice io, che l'ho presentato?
A Dusiana, dove siamo arrivati alle otto e mezzo, abbiamo veduto un
paese come tutti gli altri, e degli abitanti su per giù come quei di
Corsenna. Il paese nondimeno è più vasto; tre Corsenne, a dir poco;
una gran piazza con dei portici su tre dei suoi lati, il che deve
essere stato immaginato per far dire alla gente: e perchè non ne hanno
voluto mettere nel quarto? Forse a compenso di questa mancanza di
simmetria, ci sono sulla gran piazza di Dusiana due gelsi smisurati,
giganti bistorti, pieni di nocchi, di gobbe, di cicatrici, coetanei,
credo, dell'introduzione dell'arte della seta in Europa. Mentre si
fanno queste ed altre considerazioni archeologiche, la contessa
Adriana si è avvicinata a me, per dirmi con quella tal vocina
insidiosa:
--Vi abbiamo un po' trascurato, Morelli? Ma non è colpa mia.
--Che dite, signora? Ma era giusto che il nuovo venuto fosse il più
festeggiato. Quanto a me, sono riconoscentissimo di tutte le cortesie
che si fanno al mio amico Filippo.
--Le merita, sapete, ed anche merita la vostra amicizia così generosa.
Egli ha detto lungo il viaggio un gran bene di voi.
--Ah sì? Filippo Ferri ha il difetto di volermi bene.
--Come! è un difetto? Con questo modo di ragionare leverete il
coraggio a tutti coloro che fossero per imitarlo.--
Sorrido al complimento, e tanto più volentieri, poichè vedo la cera
brusca di Enrico Dal Ciotto, che si era avvicinato allora allora,
precedendo di due passi i colleghi satelliti. Quanto a te, caro, ti
tengo. "Ah sì?" E strascica pure i tuoi, monosillabi. Alla seconda di
cambio, ti voglio; e vedrai che bel giuoco.
Si dovrebbe per intanto vedere questa famosa abbazia di Dusiana, della
quale in Corsenna si son raccontate tante maraviglie, di marmi, di
capitelli, di colonnini, di lapidi, d'iscrizioni antiche, e via
discorrendo. Ma prevale l'idea di far colazione; poichè i frati
agostiniani dell'abbazia son tutti morti da un pezzo, e saremmo
trattati là dentro come all'osteria della Luna, che chi n'ha ne mangia
e chi non n'ha digiuna.
Diamo un'occhiata in giro, e vediamo un'insegna. Il titolo "Albergo
della Posta" prometterebbe la prima locanda del paese; ma le piccole
finestre e la povera apparenza dello stabile, non ci lasciano sperar
bene. Scovo più in là un "Albergo Roma", e chiamo da quella parte le
signore. La casa è più bassa e più nuova di fabbrica; dovrebb'essere
più pulito l'interno. Mi arrisico dentro, e vedo due sale abbastanza
capaci: mobili pochi e lucenti. È il fatto nostro. Il padrone e la
padrona, giovani ancora, hanno aria di gente per bene; non avvezze per
altro a ricevere tanta gente in un tratto.
--Il nome della eterna città vuole che diamo la preferenza al suo
albergo, padrona; ma non vorrà mica essere eterno il cuoco? Siamo
quindici; c'è chi porta appetito e chi fame. C'è modo d'intenderci?--
Questo breve discorso strappa ai due coniugi un risolino di buon
augurio.
--Se si contentano...--attacca il padrone.
--Pensando che non siamo in una città...--sottentra a cànone la
padrona.
In breve siamo d'accordo; e ci apparecchiano la gran tavola della
seconda stanza, le cui finestre non guardano sulla strada, nè bevono
il suo polverìo, ma ci aprono la veduta ampia dei monti, d'una valle
pittoresca e di un fiume; il quale, a differenza del suo collega di
Corsenna, è presente, disteso nel suo letto, ed occupandone una parte
notevole. In capo a dieci minuti, che noi abbiamo spesi a guardarci
dattorno, tutte le sedie dell'albergo di Roma son collocate intorno
alla tavola, o, per dire più esattamente, alle due tavole accostate.
Vengono i bicchieri, le bocce dell'acqua, le saliere, le pepaiuole, e
molte bottiglie di vino, che alle signore paiono troppe davvero. E
vengono i principii, tanto cari a Filippo Ferri, che ammira la
bellezza dei sedani strappati freschi freschi nell'orto, le olive, i
peperoni, i cetriolini e i capperi sotto l'aceto, ma più un pan di
burro che arriva, per far buona compagnia a quattro scatole di
lamiera, saviamente munite della loro chiavetta, che girando trarrà
via la lista metallica stagnata torno torno, permettendo di
scoperchiare quattro ipogèi di sardelle sott'olio. Si attacca
allegramente tutto ciò che è in tavola; ogni aggiunta è salutata da un
nuovo grido di gioia. Le signore si divertono qui, come facevano nella
faggeta del San Donato, e più ancora, perchè si trovano meglio sedute,
e meno sparpagliate. Non c'è la possibilità di un _lawn-tennis_; ma ci
vorrà pazienza; non bisognerà chieder troppo alla bontà divina.
I principii tirano in lungo, e non lasciano pensare all'indugio della
minestra, che finalmente arriva ed è trovata eccellente. Segue un gran
piatto, una catasta, un monte di costolette. _Cutlets_, signor Buci;
queste dovrebbero piacere a voi, più che la pelle degli otto o nove
cani di Dusiana, dai quali vi siete fatto conoscere e rispettare. Non
so se vi saranno piaciuti egualmente certi funghi rossi sulla
gratella, che alle signore parvero una squisitissima cosa; certo ne
avete avuto un assaggio, perchè di tutte le pietanze che vennero in
tavola una bella mano vi passava sempre mezza la parte sua. Un servito
di caciuole delicatissime, con aggiunta di frutte, chiuse il nostro
pasto mattutino. Se non fosse stata una colazione, si sarebbe potuta
chiamare senz'altro una cena luculliana.
M'incaricai io del conto. Quella brava coppia di sposi furono più che
discreti; non ci fecero pagare che due lire a testa. Abbondai per
compenso nella mancia. Ma pare che non sia costume di darne, a Dusiana,
o che fosse troppo forte la mia; perchè cinque minuti dopo venne il
padrone a pregarmi di accettare per la staffa quattro bottiglie di vin
buono. Buono, soggiungeva egli, perchè dolce e gentile, che di quello ne
potevano ber le signore. E le signore, che avevano bevuto acqua pazza,
fecero onore alla cortesia dell'albergatore garbato.
Sarebbe tempo, oramai, di andare a visitar l'abbazia. Per questo
eravamo venuti a Dusiana, e non per dimenticarci a tavola. Si prende
lingua, e si va: ma guai a lei, se non è stupenda; non siamo disposti
a tollerar cose mediocri. Da lontano, l'edifizio si presenta bene, con
una fronte severa; un po' brulla, per verità, poco ravvivata da certe
feritoie che non riescono a parer finestre: ma infine quello è lo
stile longobardico, bisogna striderci; vedremo poi dentro. Ah sì,
dentro, si è più fuori che mai; il tetto è crollato, gli archi in
pezzi, i fianchi sfondati, tutto un mucchio di pietre e di calcinacci.
O le colonnine a fascio? i capitelli lavorati? gli archetti, i
peducci, le mensole, i costoloni, i rosoni, di cui si fa sempre un
gran parlare per tutto il circondario?... Ah, quelli, a detta di certi
contadini che hanno la loro abitazione lì accanto, quelli sono stati
levati da un pezzo, chi sa? da cinquant'anni, o da cento, e
trasportati e messi in opera nella chiesa parrocchiale di Dusiana. Non
tutti, per altro; una buona parte, ch'erano avanzati sul posto, li ha
avuti per niente, o quasi niente, un famoso avvocato, che n'ha
decorata la sua "_Discordia civium, concordia lapidum_", voglio dire
la sua residenza autunnale. E non c'era altro? lapidi? iscrizioni
antiche? un pozzo col suo bel puteale baccellato di marmo bianco, che
si attribuisce all'epoca romana, e di cui si dicono maraviglie?
Quello? chi sa? forse colle lapidi, e con tanti altri rottami,
dall'avvocato. Essi, per altro, i contadini, non potrebbero giurarlo;
non sanno niente di certo; son qui da due anni, ed han trovato tutto
così. Dunque, buona notte alle lapidi, e buona notte al puteale. Ma il
chiostro, almeno? Oh quello c'è; vedano, signori, i pilastri e gli
archi del porticato, trasparire dall'intonaco renoso, per tutta la
fronte della casa colonica. E sia; ma è un lato solo. E gli altri tre
porticati?
--Ah!--grida Filippo.--Son forse quelli che abbiamo veduti sulla
piazza di Dusiana. Li avran trasportati là, per ripararsi dalla
pioggia, nell'autunno, e dalla neve nell'inverno. Ci vuol pazienza,
del resto; le rovine son tutte così; per goderle bene bisogna
osservarle di notte, e senza luna.
--Se vogliono vedere i sotterranei...--dice il capo della famiglia.
Le signore rabbrividiscono di piacevol terrore. Son pazze di
sotterranei; tanto la fantasia lavora. Si entra in una stanzetta buia;
si scende per una scaletta anche più buia; alla prima voltata c'è un
fil di luce, che viene da un finestrino di fianco, e lascia vedere là
in fondo, tra due corte e tozze colorine d'arenaria, un gran torchio,
colla sua madrevite inoperosa sulla gabbia vuota, e tutto intorno il
bottame della fattoria, che manda un forte odor di vinacce
dell'altr'anno. Giusto cielo! si scappa, senza aver posto il piede
sull'ultimo gradino, e si porta il nostro disinganno all'aperto.
E nessuna leggenda? nessun racconto di paure, da rimettere in corpo
qualcheduno di quei dolci brividi che la vista di una tinaia aveva
fatti cessare? Sì, qualche cosa, stuzzicando, aiutando, grattando il
corpo alla cicala, si ottiene. Il vecchio ha inteso a dire d'un tempo
che c'erano gli spiriti. Ma poi l'ala del fabbricato donde si
sentivano i lamenti era stata atterrata, e gli spiriti, trovandosi
all'aperto, col terreno dissodato e posto a vigna, erano scomparsi.
Aveva anche sentito dire d'un viaggiatore, che era capitato di sera al
convento, e gli avevano dato alloggio per la notte, non essendo a'
quei tempi sicure le strade; cosa naturalissima in paese di confine.
Il viaggiatore, non potendo chiuder occhio, era uscito dalla
foresteria, passeggiando poi corridoi a lume di luna; trovato aperto
un uscio che metteva su d'un terrazzo, era andato da quella parte a
prendere il fresco; ma di là aveva potuto assistere ad una scena che
lo fece sudar freddo e scappare, più contento di cascare in mano ai
ladri, che di rimanere al sicuro tra i frati. Figurarsi! nel fondo
dell'orto, con gran solennità di processione e di preghiere latine,
avevano seppellito vivo un povero fraticello, legato di funi e
piangente come una vite tagliata. E perchè lo seppellivano vivo?
Perchè aveva fatto la spia, rivelando al governo del duca che i monaci
dell'abbazia frodavano la gabella; donde poi ne era venuto un
processo, e i frati erano stati cacciati di là. Povera poesia del
frate sepolto vivo! La storiella, incominciata così bene, da
accapponar la pelle a tutte le nostre signore, finiva male, troppo
male, in una question di gabella.
--Ma non è così;--gridai io.--La gabella ducale non c'entra per
niente, oppure è molto più tarda. Il fraticello aveva fatto ben altro,
da meritare quell'orribile sentenza. Se le signore permettono, la
racconterò io, questa patetica istoria, che ricordo benissimo.
--Da bravo, raccontatela;--gridò la contessa Adriana, giubilando e
battendo le palme.
--Padre Anacleto era giovane,--cominciai,--troppo giovane, aveva
troppo ingegno, troppe fantasie per la testa, e troppo buon sangue
nelle vene. Entrato nella vita monastica con pura e fervida fede, non
ne aveva trovata altrettanta ne' suoi compagni di clausura. Si
biascicavano intorno a lui molte preghiere, a tutte le ore del giorno,
ma senza pensarci, senza fermarsi ad intenderne il significato
profondo, sonnecchiandoci su a mattutino, a vespro, a compieta, e non
vegliando bene che in refettorio. Padre Anacleto si era rifugiato
nello studio, nascondendo il suo intimo pensiero, dissimulando la sua
nausea. Dotto di patristica, forte di sacra eloquenza, aveva anche
veduto che tutta la dottrina era già concentrata nei quattro
Evangelii, negli atti e nelle Epistole di san Paolo; nè più altro
aveva voluto sapere, nè più d'altro fuoco scaldava le sue prediche. La
religione di Cristo era per lui la religione del Verbo, e il Verbo era
l'Amore. Ciò era nuovo, e a tutta prima pareva anche bello; la gente
accorreva a sentire; mai si era veduta così piena di popolo la chiesa
dell'abbazia; e ciò pareva anche buono. Ma presto incominciò a non
parer tanto vero. Fratello, gli dicevano i più semplici e i più
amorevoli del convento, fratello, temperate il vostro zelo; tanto
ardore vi condurrà in perdizione. Ma il padre Anacleto non voleva
sentir ragioni di quella fatta, infervorato com'era dal fuoco divino.
Il popolo incominciava a venerarlo come un santo; gli uomini
s'inchinavano, per baciare i lembi della sua tonaca; le donne dicevano
che era l'arcangelo Gabriele, tanto somigliava al benedetto messaggero
celeste. Padre Anacleto non s'invaniva già di quel culto ingenuo, che
ben sapeva non rivolto a sè, ma al Dio che egli serviva, di cui
dispensava la dolce parola alle turbe. La potenza dell'ingegno si
rinvigoriva nella semplicità del suo cuore, traendo tutte le logiche
conseguenze dalla formola intravveduta nell'anima sua: Dio è il Verbo,
e il Verbo è l'Amore. Dunque, diceva egli, siate fratelli in Dio, e
portate lietamente la sua croce; ognuno di voi voglia la sua parte del
peso, e questo vi parrà soavissimo; amandovi tra voi, non vivendo che
d'amore, il regno di Dio scenderà sulla terra.
--Parlava bene, povero frate!--esclamò la contessa.
--Sì, ma sapeva un pochettino di eretico;--ripigliai.--Per consenso
dei dottori, il regno di Dio non può scendere in terra, che agli
ultimi giorni. Del resto, il regno di Dio non è di questo mondo, non
essendo questo mondo che il luogo di prova; nè si potrebbe mai
confondere la Gerusalemme celeste con la Gerusalemme terrestre. Dunque
il padre Anacleto era caduto nell'eresia, per eccesso di ardore. Lo
tolleravano ancora, ma esortandolo a temperarsi, pregandolo di meditar
meglio la vera dottrina dei libri, raccomandandogli di flagellarsi a
sangue, per cacciar via quell'orgoglio, certamente soffiato dal
maligno nel suo intelletto, per non lasciargli vedere il serpe
appiattato tra i fiori della sua eloquenza. Ed egli si flagellava; ma
più si flagellava, più sentiva che il Verbo è l'Amore. È anche
l'Intelligenza, il Verbo, poichè il Verbo è Dio; ma l'intelligenza, se
mai, non abitava più nel convento di Dusiana. E non pensò egli forse
ad alta voce qualche cosa di simile, quando gli scappò detto dal
pergamo ai fedeli, che diffidassero dei lupi rapaci in veste di
pastori? quando soggiunse, non bastandogli quel poco, che taluni i
quali ostentavano umiltà, dottrina e santità, erano sentine di vizi,
pozzi d'iniquità, armamentarii di frode? Si cominciò a sussurrare di
un attacco che padre Anacleto avesse voluto muovere al priore. Lo
scandalo era grave; bisognava punirlo, e punirlo soffocandolo. Si fece
un processo, nella clausura del chiostro. Il reo, più infervorato che
mai, non volle disdir le sue massime fondamentali, che troppo
somigliavano a quelle ond'erano venuti tanti scismi pericolosi alla
Chiesa militante. Sarebbe dunque scaturito un nuovo Ario, un altro
Eutiche, un altro Donato, un altro Socino, e dall'abbazia di Dusiana?
Ah no, per sant'Agostino! Disdicesse il reo le sue massime, facesse
ammenda di tutto. E lui, peggio che mai. Non voleva neanche sentir
parlare di coperti attacchi al priore, a nessuno dei suoi superiori o
compagni. Parlava la parola di Dio; si rallegrassero i sani,
rimediassero alle lor piaghe gì'infermi. Guardavano essi alla terra,
ed egli aveva gli occhi fissati nel cielo.--
Mi sentivo la gola asciutta; non ne potevo più, e avrei bevuto
volentieri un bicchier d'acqua. Ma il mio uditorio era troppo attento,
aspettando la mie; non volli guastarmi l'effetto, e pigliai la
rincorsa.
--Ma allora, vedendo tanta pervicacia nell'errore, e il reo farsi
accusatore sotto quella ipocrita forma, scattarono le rivolte del
consesso giudicante, e vennero le rappresaglie feroci. Lui con gli
occhi al cielo, lui! Non aveva ragionato più a lungo del bisogno,
sulla pubblica via, con le Maddalene del vicinato? Non lo avevano
veduto al pozzo intrattenersi con le donne di Samaria? Sì, era la
verità; ma per parlare di Dio ad anime assetate di rugiade celesti, ma
per ricondurre le povere anime al culto della virtù, come aveva fatto
santamente il Figlio dell'Uomo. E la fanciulla invasata di tanta
passione per lui, da seguitarlo per via, da far giornate intiere di
cammino a piedi, per andarlo a sentire quando predicava nei paesi
vicini? Era impazzita, la poveretta, e avevano dovuto esorcizzarla.
Non aveva egli gettato un fascino su lei? Un fascino! povero padre
Anacleto! Ci divenne furioso, e parve ossesso egli medesimo, in quel
punto fatale. Certamente il demonio era penetrato in lui, per la via
dell'orgoglio, ed oramai spadroneggiava in quella povera testa, che si
era creduta così forte. E poichè perfidiava nel non voler riconoscere
la impossibilità di vedere in terra la Gerusalemme celeste, poichè si
ostinava a sostenere che la religione non fosse altro che un misterio
d'amore tra Dio e la sua creatura, e peggio, delle creature tra loro,
il padre Anacleto fu condannato alla massima pena, all'unica che
togliesse per sempre lo scandalo, soffocandolo nell'_in pace_. Era
necessario. Non si arrogava egli perfino la personalità divina? non lo
avevano sentito dire una volta, nel fervore delle sue improvvisazioni:
Ecco, io sono la verità e la via?--
Qui poi avevo finito, e mi fermai per sentirne l'effetto. Le
ascoltatrici erano commosse; ma più di loro il vecchio contadino.
--Lei la sa meglio di me, la storia del fraticello;--diss'egli nella
sua grande semplicità, sotto cui forse s'appiattava un po'
d'ironia.--Peccato che io non saprò raccontarla così, agli altri
signori che verranno.--
Risero le mie ascoltatrici, risero i miei ascoltatori; fu una risata
generale, che mi guastò tutto l'effetto della patetica storia. Io non
guardai le signore, che avevano il diritto di ridere; non guardai
quelli tra gli uomini a cui lo concedevo di buon grado; mi volsi in
quella vece a squadrare i miei tre satelliti, e primo il signor Enrico
Dal Ciotto. Quello era serio e composto; si capiva che non aveva riso,
perchè non aveva potuto ridere, tanto era rimasto seccato dalla mia
parlantina. Ma poichè egli aveva le labbra chiuse, dovetti pure
contentarmi. Rideva in sua vece il Cerinelli; oh, come rideva di
gusto! Approfittai della ilarità generale, e avendo l'aria di
sottrarmi alla gloria del trionfo, andai diritto sul Cerinelli, per
dirgli a mezza voce, ma con piglio risoluto:
--Di che cosa ride, Lei?
--Del contadino, che è così buffo. La sua storia mi è piaciuta
moltissimo, signor Morelli. Non si poteva con più garbo....--
Lo lasciai solo a finir la sua frase. Ero cascato male; proprio sul
più debole dei tre. Ma non è stata colpa mia, se quello era il più
vicino ad Enrico Dal Ciotto, e se per il secondo mi è venuto
sott'occhio. Per lui, frattanto, ho perduta l'occasione di guardar la
faccia del Martorana.
La contessa Quarneri volle rimetterci tutti in carreggiata, facendomi
le sue congratulazioni.
--Sapete ora,--soggiunse, dopo avermi lodato,--che cosa vogliamo da
voi, Morelli?
--Comandate, signora.
--Un'ode,--ripigliò,--un'ode sul povero fraticello. Sì, dico, un
componimento poetico a vostra scelta. Mi pare che il soggetto si
presti.--
Le signorine Berti si associano, ed anche le mamme, colla sindachessa
e la segretaria comunale. Unica, la signorina Kathleen sta zitta.
Galatea è classica, non c'è che dire, e non ama queste romanticherie.
Ci siamo messi in moto, per ritornare al paese. Io trovo il modo
d'avvicinarmi a lei, che non mi vede, chinata com'è a coglier
ramoscelli di menta lungo la proda di un campo.
--Dunque,--le dico,--scriverò i versi sul frate?--
Si volta, mi guarda, abbassa gli occhi e risponde:
--Faranno piacere ad Adriana; li scriva pure.
--Non scriverò niente, allora;--ribatto io, punto sul vivo.
--_As you like it_;--dice ella di rimando.
--Che significa ciò?
--Come vi piace; è il titolo di una commedia di Shakespeare. Ha già
disimparato l'inglese?--
Mi dice queste cose con un tono che mi leva la voglia di proseguire la
conversazione. Ho un diavolo per occhio, e sto per assestare una
pedata a Buci, che viene a strisciarmi contro una gamba. Debbo
calmarmi, tuttavia, perchè le Berti son vicine e mi chiamano. Si
rientra indi a poco nell'abitato di Dusiana, e si delibera sull'ora
del ritorno. Ma qui il commendator Matteini ha un'idea luminosa, e la
sottopone ai lumi della luminosa contessa. Si è stati così bene per la
colazione all'Albergo di Roma, che in verità si potrebbe rimanere a
pranzo, e in Corsenna non si ritornerebbe che per l'ora
dell'arlecchino. Piace l'idea, e si comunica all'albergatore, che la
trova degna di noi. E mentre egli si metterà in quattro per servirci,
desideroso di farci anche assaggiare le trote del fiume, noi andiamo a
visitar la chiesa parrocchiale, l'oratorio e tutte le antichità del
luogo, non perdonando nemmeno ad una di quelle croci di Baldassarre,
che si vedono piantate lungo la via maestra in tanti paesi campestri,
con tutti gli emblemi della Passione, e che prendono il nome dal
povero vagabondo, fattosi, un cinquanta o sessanta anni fa, impresario
di simili devozioni per le terre d'Italia. Avanzandoci ancora del
tempo, si gira Dusiana per tutti i versi; i tre porticati della piazza
ci trattengono un'ora buona, mentre le signore entrano qua e là nelle
botteghe, spogliando le vetrine di cento cose inutili, rimaste
invendute dall'ultima fiera. Finalmente è l'ora del pranzo, e si va a
fargli onore, onorati anche noi alle frutta da un concerto musicale,
venuto a rallegrarci delle sue "scelte armonie" davanti all'ingresso
dell'albergo. Le signore sono piacevolmente commosse da questa
delicata attenzione; vogliono far entrare i musicanti, per offrir loro
il bicchiere della riconoscenza, e dànno l'incarico a me di fare il
complimento. Me la cavo alla meno peggio, conchiudendo in questa
forma:
--Sapevamo, o signori, che Dusiana era una nobilissima terra, abitata
da un popolo civile, intelligente al sommo, forte per industrie,
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