Galatea - 04

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adatta ad ogni fatica più improba; corre di qua e di là senza posa,
naviga e pesca in ogni acqua, povero vascello a tre ponti, e si scusa
dicendo che fa tutto ciò per ragion di salute.
Se almeno uno dei tre satelliti lasciasse un po' la Quarneri! Ma no,
niente; son fermi al posto, e si direbbe quasi che si facciano la
guardia l'un l'altro. Dove uno va, si cacciano gli altri due. Garbati,
silenziosi, sospettosi, non sanno neanche marciare in fila; vanno
sempre di fronte. Quando uno ha l'ombrellino della signora da tenere,
l'altro porta il ventaglio, e il terzo i guanti. La contessa li tratta
tutti egualmente, con languida benevolenza imperatoria. Con
altrettanta benevolenza ha chiesto dei versi a me, pel suo albo. "Gli
amici miei ci son tutti," mi ha detto, "e non altri che amici." Dio,
quanti ce ne debbono essere! È molto bella, e d'una bellezza che
attrae: carnagione di madreperla, con toni rosei; capelli biondi, ma
d'un biondo strano che tira all'amaranto, con vene e riflessi d'oro di
zecchino; occhi un po' grigi, ma fosforescenti; bellezza luminosa, ho
già detto, e non c'è altro da aggiungere.
Gli arnesi del giuoco sono raccolti nella cesta; raccolta e caricata
la batteria degli impicci, delle provvigioni avanzate, delle
stoviglie, e via discorrendo. Si dà un'occhiata stracca alla gran
scena del mare, che ci aveva tanto commossi all'arrivo, e si riprende
il sentiero della valle. Laggiù, a due terzi di strada, dove si era
notato un luogo assai pittoresco in vicinanza del mulino, si farà una
lunga fermata ed anche una merenda. Così decreta Terenzio Spazzòli. Le
signore protestano che non toccheranno più cibo; ma egli, sicuro del
fatto suo, sentenzia che giunte laggiù sentiranno ancora gli stimoli
dell'appetito, e non vorranno poi lasciar soli a macinare i compagni
del sesso forte, che sentiranno gli strazii della fame. Si ride, si
salta, si canta e si scende.
La signorina Wilson è venuta al mio fianco, a caso, e per non
rimanerci a lungo.
--Di che cosa le parlava con tanto ardore la signora Quarneri?--mi
chiede.
--Di poeti, in genere;--rispondo.--Ma più del Leopardi. Ne va matta.
--Sì?---esclama lei, torcendo le labbra.--Oh cara!--
Qui fa una pausa, e poi parla d'altro; finalmente, disponendosi a
lasciarmi per andar colla Berti, mi scaglia la frecciata del Parto
fuggente.
--Ho osservato che Lei diventerà un discreto giuocatore di
_lawn-tennis_.
--Io? e perchè?
--Perchè si adatta così bene a fare il quarto--
Assassina! Vorrei chiederle conto della sua frase, ritenendola oscura:
ma lei è già lontana, e chiama Buci ad alta voce. Buci arriva, ma a
piccole giornate; non salta più, trova appena il tempo di ridere,
avendo fatta una scorpacciata da vicario foraneo.
Lascio la signorina Kitty al suo Buci. Ed ella non sa che potrei farla
ridere con più gusto e più rumorosamente di Buci. Basterebbe che io le
riferissi un brano di discorso della signora Quarneri.
--Quanto l'amo, quel caro Leopardi! E dica, è sempre laggiù confinato
nella sua Recanati?--


VII.
Rinaldo a Filippo.

_25 luglio 18..._
Che idee ti passano per la testa? Che opinione ti sei formata di me?
che io sia diventato un mulino a vento, da muover le pale ad ogni
soffio? un arcolaio, che quanto è più vecchio e più gira, ai capricci
delle donne gentili che si trastullano a dipanare? un guancialino da
aghi e da spilli, per uso delle ragazze che si addestrano a pungere? e
peggio, poi, un tappeto, una pedana, un posapiedi da contesse?
Tu vuoi aver l'aria di saper molto addentro dei fatti di Corsenna; e
non sai niente, lasciatelo dire, niente di niente. Se sai, perchè ti
lagni che non ti scrivo io? Ma infine, è vero, non ti ho più scritto
da dieci giorni, magari da quindici. Ho la malattia degli scrittori,
mio caro; quella specie d'intermittenza, ch'essi hanno comune con
certe fontane. Sono periodi d'inerzia. Quando non riesco ad azzeccare
un'idea, ed ho nondimeno il prurito nelle mani, scrivo lettere; è
giusto allora che io scriva al miglior degli amici. Ma poi le idee mi
ritornano, o mi pare; e allora son tutto al lavoro. Guai se non fosse
così.
Quanto al "giornale di Corsenna", checchè tu ne pensi, non si poteva
tirare avanti; era vuoto di cose, ed io non potevo tesserlo tutto di
ciance. Altro che articoli di fondo, come li vuoi chiamar tu, sognando
ad occhi aperti. Vedo qualche volta, saluto, e da lontano, se posso:
quando non posso da lontano, adempio gli obblighi di società,
tirandomi fuori alla svelta, e mi rifaccio al poema. Sicuro, al poema,
mio tormento e mia gloria. Rivedo più chiara l'idea madre; anzi, ti
dirò che mi è cresciuta fra mani. Don Giovanni è l'uomo, nella sua
bramosia insaziata d'ideale, dell'ideale che cerca da per tutto, che
crede ad ogni istante di afferrare, e che da ogni parte gli sfugge. Mi
dirai che questo è poi Faust, quello della seconda, e più ancora della
terza parte. Vero; ma quello è veduto un po' tardi, ed espresso anche
timidamente, sarei per dire fiaccamente, con ingegno sempre sveglio,
ma con mano senile, del tempo triste in cui ride ancora al poeta
l'immagine, ma incomincia a mancare la fantasia ordinatrice. Nè io
voglio dirti che farò meglio del Goethe; mi basta assicurarti che farò
diversamente da lui.
La signorina.... di cui mi parli, fu un'apparizione momentanea, ed
anche, se ti degnerai di rileggermi, capitata in mal punto a romper la
quiete del mio rifugio nel verde. Sei tanto curioso di lei? Perchè non
mi domandi ancora del cane? Quello, per esempio, è interessante
davvero; e vive oramai con me. Il padrone, dopo un'assenza un po'
lunga, l'ha castigato chiudendolo in casa. Quell'altro è scappato
dalla finestra; ha fatto un'assenza anche più lunga, tanto lunga che
non ha più voluto ritornare. Il contadino l'ha cercato da per tutto in
paese; finalmente l'ha ritrovato da me. Ma la povera bestia, che ride
così volentieri, s'è messa a guaire, anche prima di ricevere il più
piccolo colpo. Ne ho fatta una delle mie; ho proposto al contadino di
comperargli il suo cane. A quello non parve neppur vero di buscarsi
venti lire per un povero cane da pastori, non più di primo pelo, e
sviato oramai, che non gli avrebbe più fatto niente di buono. Buci, a
farla grossa, non val dieci lire, come cane; come amico vale un Perù.
È felicissimo del trapasso. Non mi lascia un minuto; dorme accanto al
mio letto sopra una sedia che fa ballar tutta la notte, dandosi poco
riguardosamente alle pulci; ringhia a tutti, per via; mangia quando
gli fa comodo, e mi obbedisce quando gli piace; a fartela breve, aveva
un padrone, lo ha lasciato, e si è procacciato un servitore.
Ti ho date così, e non brevemente, tutte le mie notizie. In ricambio,
dovresti farmi un piacere; mandarmi tre libri, che ti sarà facile
ritrovare da ogni libraio: un Teocrito, un Virgilio, un Orazio, per
far certi confronti che mi son necessarii. Edizioni del Teubner, mi
raccomando, che hanno le varianti di tutti i codici. Il Teocrito mi
pare sia quello che porta le note del Fritzche. Dell'Orazio son sicuro
che ha le note del Mueller, e del Virgilio son parimente sicuro che ha
quelle del Kappes.
Son venuto qua senza libri, non contando l'Orazio del Murray, un
gingillo, non un libro di studio, e non contando il mio Dante, il
babbo di tutti, e non se l'abbia a male nessuno. C'è tutto in lui,
come nella Bibbia; ed è sempre nuovo. Dio di misericordia, non si
potrà dunque far meglio? Consoliamoci, per altro; l'insuperabile è
nostro italiano, e quelli che di tanto in tanto gli voglion mettere a
paro possono farlo colla voglia; non hanno descritto nè contenuto un
mondo come il suo, così pieno, così vario, così mirabilmente fuso, del
reale e dell'ideale; perciò non reggono alla prova, cadono
irreparabilmente con quella moda medesima che li aveva fatti sorgere
alla gloria degli altari.
Mi raccomando, adunque: Teocrito, Virgilio, Orazio, e del Teubner, per
veder tutte le varianti in quei passi che mi preme di confrontare, e
fors'anche mi verrà voglia di tradurre. Non ti puoi immaginare come
giovi il tradurre, come rifaccia la mano. Ci andiamo sbrandellando,
sfilacciando, sbriciolando, nella facilità della nostra lingua
corrente, che porta a dir tutto, anche l'inutile; e Dante ci richiama
alla sobrietà efficace. Ma Dante è l'esempio: occorre l'esercizio.
Allora si traduce dal latino o dal greco, si combatte a corpo a corpo
coll'idea e colla espressione che le è propria, si acquista
precisione, si consegue agilità, si ottiene fermezza.
Vedi bene che non ho il capo alle donne. Che idee ti passano per la
testa?

_30 luglio 18..._
Troppo breve! Ti lagni ancora. Troppo breve! Ma che cosa dovevo io
dirti di più, per allungare l'epistola? Leggi quelle di Cicerone, e
vedrai che il grand'uomo ne ha scritte d'ogni misura, anche da Roma,
capo del mondo, e conoscendone tutti i segreti. Da Cuma, poi, o da
altro dei suoi luoghi di villeggiatura, non scriveva più lettere, ma
biglietti, _pagillares_, come dicevano allora, da stare nel pugno; e
guai a stringere, non se ne spremeva una goccia di sugo. Che cosa
dovrò raccontarti io da Corsenna?
La contessa Quarneri, mi dici; e vedo che ti sta molto a cuore. Caro
mio, prega il marito di morire alle sue acque di San Pellegrino;
passa, da quel terribile spadaccino che sei, sopra i cadaveri fumanti
della sua guardia.... del corpo, e sposala; per me, te la rinunzio. Mi
ha chiesto dei versi per il suo albo, dove non scrivono che amici. Che
piena! Affrèttati anche tu, perchè ci sono a mala pena due pagine
bianche. Io mi sono contentato di un angolo, dove ho ricopiato per la
ottantesima volta il mio famoso sonetto del cigno. Dicono che è
classico; lei lo ha trovato stupendo; ma tu, che sai la storia di
queste repliche, qual prova più convincente vorresti della mia
innocenza e della mia indifferenza?
È bella, sì, Dio mio, fin troppo bella; è una di quelle donne che
dicono alla gente: guardatemi, contemplatemi, adoratemi. In una città
sono istituzioni, monumenti, musei; si va a visitarle, e si segna nel
taccuino: l'ho veduta. Compiango per altro il custode di quel museo;
povero custode, che ha perdute le chiavi, e deve lasciare aperto a
tutti i curiosi! Non capisco veramente come sia venuta quest'anno a
Corsenna, dove non ha modo di brillare.... a suo modo. Che il marito
l'abbia mandata qui in punizione? o per cautela? Certo, non sarebbe
stato bello che mentre egli era a curar gli acciacchi a San
Pellegrino, la signora fosse a Rimini, a Livorno, a Viareggio. Si,
dev'essere per questo.
Sono andato tre giorni fa a visitarla. Non tremare, facevo il quarto.
Per una visita sola, può andare; ma non ci cascherei la seconda volta.
Nè quarto, nè terzo, nè secondo. Cesare aveva ragione. Arrivato
l'ultimo nel salotto della contessa Quarneri, ci son pure rimasto
un'ora buona, per non parerle desideroso di fuggirla, o seccato dalla
compagnia importuna: e nondimeno ho dovuto partirmene per il primo,
tanto quei tre Anabattisti tenevano duro.
Grazie dei libri, che ho ricevuti ieri. Ho già incominciato a
servirmene, traducendo una saffica di Orazio. Te ne manderò un
assaggio a suo tempo, se pure sarò contento dei fatti miei.
E tu non vai in nessun luogo? Rammento la tua massima: quando tutti se
ne vanno in campagna, l'uomo sapiente villeggia al largo in città. È
un'idea; voglio provare un altr'anno ancor io.

_4 agosto 18..._
E neanche la Wilsoncina, no, niente nientissimo. Che uomo sei tu, che
non ti basta neanche la parola? Fai anche le tue supposizioni sul
fatto che io non la nomino. Sei troppo sospettoso. A buon conto, non
son io che te ne ho scritto? Se non t'accennavo io il suo nome, un
mese fa, non ne sapresti forse l'esistenza; certo, ne ignoreresti la
presenza in Corsenna.
Del resto, sappi che la signorina non è il mio genere. Sono un uomo
tranquillo, io, amico della pace, e quella è un argento vivo. Mi pare
una giovane Baccante; ed io vorrei Diana, se mai, la tacita dea delle
selve. Correre, divertirsi, giuocare, far chiasso, è il suo gusto. Ti
par fatta per piacere ad un letterato, sia pure un letterato
dilettante, come il tuo divotissimo servo?
Senti questa, dopo tutto, e finisci di persuaderti. L'altra sera,
passando per istrada, incontrai tutta la comitiva delle signore e dei
cavalieri, che tornavano dal loro eterno lavorar di racchette.
Costretto a rimanere qualche minuto con loro, non mi lasciai fuggir
l'occasione di dire del _lawn-tennis_ (garbatamente, per altro) tutto
ciò che ne penso. E la graziosa Wilsoncina, cinque minuti dopo, trovò
il modo di dire, non so più bene a chi, ma in guisa che io potessi
sentirla:
--Ho osservato che il _lawn-tennis_ non piace ai grassi, e che la
caccia non piace ai miopi.--
Applica, filosofo. Ella sa benissimo che non amo la caccia. Così m'ha
dato ad un punto del grasso e del miope; m'ha fatto due offese che
sarebbero mortali, se io non fossi corazzato da un pezzo contro i
motteggi delle fanciulle audaci, come contro i vezzi delle signore
cascanti.
Sei persuaso? Dammi pace, e lasciami tradurre da Orazio.


VIII.
Si torna al memoriale.

_4 agosto 18..._
Quel diavolo del Ferri! Non ne passa una. Ma già, per la Quarneri, si
sa da tutti che è venuta in Corsenna. È uno di quei corpi luminosi che
hanno tanto di strascico, e lasciano il solco dovunque trascorrano:
quando non si vede più niente di loro nello spazio, si sente che
mancano, e si vuol sapere ad ogni costo dove siano andati a parare;
gli astronomi del marciapiede ne studiano il corso, ne determinano
l'orbita, come si fa delle comete. Della Wilson, poi, ho scritto io.
Che sciocco imprudente! Potevo dire: "una giovane villeggiante", e ce
n'era d'avanzo. Non bisogna mai scriver nomi di donne; neanche agli
amici più intimi. Quello ora s'immagina che io ne sia innamorato.
Innamorato io! io, legno stagionato, navigato, provato ad ogni vento,
passato per tutte le acque. Quanti pericoli non ho affrontati, quante
Cicladi, quante Sirti, e Sirene cantanti, e Scille latranti e Cariddi
voraci! Forse, come il Don Giovanni del Campoamor, sono passato
accanto alla felicità senza avvedermene, ed ho lasciato intatto il
suggello al dolce bigliettino in cui mi era promessa.
Innamorato io! ma che? mi sento libero il cuore, calmo, tranquillo,
sereno lo spirito, senza alcuno di quei turbamenti che accompagnano il
nascere d'una passione. Studiamoci su, analizziamo, che è sempre il
miglior modo d'intendere; la sintesi è troppo spesso una confusione.
Certo, considerando il primo principio della mia conoscenza colla
signorina Wilson, o, per dire più esattamente, del mio pensare a lei,
un carattere dell'amore si potrebbe rinvenire; ed è il modo strano del
nostro avvicinamento, la prontezza quasi fulminea, certo senza
passaggi, senza gradazioni, di quella certa intimità, che ci ha
condotti ridendo a dirci ogni cosa più amena. Ma già, molti giorni
prima, avevo conosciuta la signorina Wilson, l'avevo riverita insieme
colle altre villeggianti di qui, e non m'aveva fatto un senso
particolare; tanto che trovavo carine le Berti, e di lei non avevo
pensato nulla; tanto che trovavo bellissima la Quarneri, anzi
pericolosissima, e per la Wilsoncina non m'era venuto in mente il più
modesto superlativo, neanche un "gentilissima" che si prodiga a tutte.
Osservo che il suo genere di bellezza non è tale da colpire, e forse
bisogna vederla a lungo per esserne presi. È sana, forte e fresca; ha
la grazia della donna nascente, sotto la scorza della fanciullona
matta. Così avviene della camelia; si annunzia male, sotto quella
embriciata di ruvide brattee giallognole che ne inviluppano il calice,
mentre il bocciuolo della rosa s'invermiglia delicato e piacente alla
prima vista tra i sèpali verdi, che lo proteggono senza volerlo
nascondere. Cerchiamo un altro paragone, e non tra i fiori; la
signorina Wilson ricorda la ingenuità rusticana che tiene ancora un
pochino della corteccia dei tronchi, donde gli antichi hanno fatto
sbocciar le Amadriadi; le quali, poi, dispiccate dalle fibre del legno
nel dolce silenzio d'una notte di primavera, frementi di gioventù,
fosforescenti di bellezza, corrono per l'ombra dei boschi, escono
nelle radure, danzando lietamente al queto lume della luna, timidi
sussurri, intime fragranze, occhi amorosi della natura, che si
rivolgono al cielo. E d'una ninfa ha la persona, snella ad un tempo e
robusta; d'una ninfa il portamento altero e i movimenti non senza
eleganza impetuosi; d'una ninfa la carne tra vermiglia e dorata,
l'indocile capigliatura corvina, l'occhio curioso nella sua bella
semplicità di nuova venuta ai misteri della vita, la bocca fiorente,
umida e viva, che il piacere non ha ancora dischiusa, nè ancor
suggellata il dolore.
Sì, tutto questo andrà bene, se pure non è un tantino arbitrario, come
tutte le osservazioni personali: ma una cosa è fuori di dubbio, che la
strana forma del nostro primo incontro è quella che mi ha colpito, e
non altra ragione, non altra. Questo è senza fallo uno dei caratteri
dell'amore; ma non basta, e d'un solo fiore non si può tesser
ghirlanda. Sento, o piuttosto riconosco, che la signorina Wilson
sarebbe una buona compagna di passeggiate. Vado con lei di qua e di
là; tutte le volte che c'incontriamo si riesce a fare insieme un'ora
di cammino per forre o per balze, con Buci in avanguardia. Ride
volentieri, ed ha il riso piacevole, comunicativo in sommo grado. Ha
poi delle scappate che mi rallegrano, come raggi di sole che splendano
d'improvviso sull'erba, passando tra il fogliame d'un bosco. Dice
qualche volta, confessiamolo pure, delle cose che non rallegrano
affatto, e a cui bisogna far bocca da ridere per non aver aria di
gente permalosa. Ma ella stessa si affretta a spiegarle. "Ho detto per
celia; che uomo è Lei, che va in collera?"
"Io, signorina? No davvero, non sono andato in collera affatto;
quantunque, esser chiamato grasso e miope tutto d'un colpo"... "Ah,
vede? Ne aveva avuto noia. Ed è grasso, sì; almeno non può prender
posto tra i magri. Ma corre, si arrampica, resiste ad ogni fatica, e
questo non è da grassi. Quanto all'esser miope, l'ho creduto, sa? ma
ora non ne sono più tanto persuasa, e dubito che lo faccia a posta,
per ingannare la gente." "Eccone un'altra; che cosa intenderebbe di
dire con questa?" "Niente, niente; ho fatto per celia." E ride, ride,
e non c'è verso di cavarne più altro.
E così, come niente la trattiene, niente la spaventa, niente le pare
impossibile o inammissibile, neanche l'andare attorno con un uomo che
non è suo fratello, nè suo zio, e neppure suo cugino, quel buon cugino
che fa tanto comodo alle altre italiane. Ma in fondo in fondo, non è
italiana, lei, essendo inglese dal babbo, e tenendo assai di quelle
donne inglesi, che erano già di doppia indole fin dai principii della
stirpe, vaporose e pensose come Sassoni, forti e imperterrite come
Angliche e Danesi; donne che ornano singolarmente la casa, e corrono
così volentieri le strade maestre; donne che fanno il tè, che hanno
inventata la celeste mistura delle acciughe e del burro, che hanno
accolta a festa l'invenzione delle patate e ritrovato che tra i cento
modi di servirle in tavola il migliore è ancora il più semplice,
d'imbandirle a lesso per contorno alla carne; donne che sanno
distillare il rosolio di gooseberry, come la moglie del vicario di
Wakefield, e galoppare pel mondo, come lady Stanhope; terribili come
Anna Radcliffe, appassionate come Carolina Lamb, calze azzurre come
lady Wortley Montaigue e come la contessa di Blessington, qualche
volta con un granellino di pazzia, sempre con due o tre di piacente
originalità; donne soprattutto da mandar sempre uniti i pregi più
disparati del loro doppio carattere, da portare in ogni luogo più
inospite le confortevoli usanze della casa, da prepararvi un tè sulla
piramide di Cheope o in riva al lago Tanganika, sulle sponde
dell'Eufrate o sulle rovine di Tello. Ah, forse bisognerebbe che una
buona e veramente efficace alleanza anglo-italiana stabilisse in due
articoli il suo patto fondamentale; articolo primo: "Dal 1901 in giù,
per la durata di cinquantanni, gl'Inglesi non isposeranno che donne
Italiane, e gl'Italiani non isposeranno che donne Inglesi"; articolo
secondo: "In capo ai cinquantanni si vedrà se sia o non sia il caso di
continuare." Ma che matto son io! Io che non amo il tè, starei fresco.
Kathleen (già non la chiamerò più Kitty; ciò la rende troppo
minuscola) Kathleen ha molto di Galatea. Ma di quale? della Oraziana,
della Virgiliana, o della Teocritèa? La Oraziana, a ben guardare, non
consiste che in due versi, quelli che son caduti, per istrana
combinazione, sotto gli occhi della signorina Wilson:
"Sii pur felice ovunque andar ti piaccia,
"E di noi, Galatea, memore vivi."
Il resto è tutto un ripieno; il poeta ha messi quei due versi con quel
_noi_ tutto suo, tra tanta enumerazione d'animali di buono e di
cattivo augurio, e una diffusa descrizione del ratto d'Europa; il qual
_noi_ è come una tenerezza nascosta, da lasciarci pensare due cose:
che Lelia Galla piaceva ad Orazio, e che per piacere in quel modo ad
un uomo di buon naso come lui, bisognava essere un fior di donna,
possedere il _quid arcanum_; una cosa che a noi sfugge, poichè egli
non ha stimato prudente di dircela. Tradurrò certamente tutta l'ode, e
resterà una memoria dell'Acqua Ascosa, come tante e tante altre che
dormono nel cassetto dei ricordi: poveri ricordi, che qualche volta
(inorridisco a dirlo) non mi ricordan più nulla.
È forse la Galatea Virgiliana? Appare anch'essa in due versi di
Dameta, che fa agli strambotti con Menalca, come due capri farebbero
a' cozzi in un prato. Ricordando la scena del San Donato, si potrebbe
tradurre così:
"Un pomo in su la testa
"Matta fanciulla, Galatea m'assesta;
"E se ne fugge via
"Fra i salci, ed ama esser veduta in pria."
Gran birichina, quella Galatea di Dameta! ma anche piena d'ingegno e
di grazia nel suo discorso. Infatti il daino continua:
"Oh dolci parolette
"Che tante volte Galatea mi ha dette!
"Vorrei che un saggio il vento
"Ne portasse agii dei del firmamento."
Sì, questa è la Galatea che mi piace. Ma la mia non potrebbe esser
quella di Teocrito? Amata pazzamente da Polifemo, è invaghita del
giovane Aci. Sventuratissimo Polifemo! Quanti caldi sospiri, quante
ardenti proteste, quante vane querele, che Ovidio ha raccolte, e non
paion troppe al bisogno, in quella stemperata fuga d'esametri delle
sue _Metamorfosi_! Che farci? Egli è la scarmigliata vecchiaia, ed Aci
è la florida gioventù. Inoltre, il disgraziato Polifemo ha un occhio
solo, quasi a significare la sua vita dimezzata. "Nel mezzo del cammin
di nostra vita!" Non ci sono ancor io, Dante da strapazzo, ancor io?
Galatea è invaghita di Aci; non può essere altrimenti. Se un Aci non è
ancora capitato, mettiamo pure che non sia molto lontano.
Per fortuna, non amo Galatea. Quattro chiacchiere, più garbate e più
amene che mi vengano fatte, ora e sempre; ma niente di più. Vediamo
intanto; quest'Aci non potrebb'essere.... Terenzio Spazzòli! Non è
bello, e ci corre. Oh Dio, e che significa ciò? È la mia opinione,
dopo tutto; e si è sempre visto piacere alle donne quello che a noi
pareva un becco di cutrettola, un muso di pecora, un ceffo di cane.
Già, le donne badano molto al figurino; anche quelle che non lo
vogliono ammettere, e quelle che non lo confessano neppure a sè
stesse. Terenzio è sempre all'ultima moda; in ogni cosa, dal capo alle
piante, sia fuori o in casa, in piedi o a letto, un prodigio. E poi,
vecchi e giovani, per piacere, bisogna sapersi mettere a pari con quei
che piacciono. Io mi lascio andar troppo giù; la mia semplicità
potrebbe passare, ma a patto che non paresse negligenza. Per fortuna,
ripeto, non amo Galatea; e non soffro niente a pensare che ci ha avuto
un segreto in comune con Terenzio Spazzòli, anzi due segreti: il
canestro del caffè e la cesta del _lawn-tennis_. Ah, respiro! Questa
analisi mi ha fatto bene: posso andarmene a letto tranquillo.


IX.
Il castello dei burattini.

_6 agosto 18..._
--Perchè non è venuto ai burattini, iersera?
--Ah, perbacco!--esclamai, battendomi la fronte.
--Se n'era dimenticato? Belle cose!
--Dimenticato io, dei burattini? Come si vede che non mi conosce! Ma
non sa che li adoro? Sì, è il verbo adatto, e Lei dica pure ch'è
un'iperbole mia. Delizia della mia infanzia, sorriso della mia
giovinezza, memore dilettazione della mia... maturità, i burattini
hanno sempre avuto un fascino strano su me. Cari fantocci di cenci,
con la testa di legno, che da ragazzo mi parevano uomini, e più mi
paiono uomini quanto più m'inoltro nell'esperienza del mondo; sempre
quelli, sempre maneggiati da un burattinaio invisibile dietro la
tenda, per dire e per fare mai sempre le medesime cose, con quelle
loro smorfie intagliate, fissate, irrigidite nella sorda materia! E
noti, signorina; quelle smorfie sono le loro qualità e le loro virtù,
i loro difetti e i loro vizi, un po' contraffatti, ma per eccesso di
significazione, che è pur necessario, a darci da lontano l'apparenza
del vero. E riescono tanto evidenti, così! Non c'è modo di scambiar
gli uni per gli altri, nè da crederli diversi da noi. La nostra
sciocchezza e la nostra viltà, le nostre astuzie e le nostre
piccinerie, tutto ciò che siamo e tutto ciò che sentiamo, hanno la
loro espressione chiara, sicura, efficace, in quelle facce di legno.
Tutto il teatro, e per conseguenza tutta la vita, è là dentro, e non
c'è più nulla da aggiungere. Com'è giunto l'uomo, per qual arte
divinatoria, per qual lampo d'ingegno, a immaginare il burattino? Ed è
così antico, oramai! Ma nessuna maraviglia di ciò; è pure antica
L'_Iliade_. C'è stato un tempo, molto lontano da noi, che l'uomo ha
veduto, inteso e potuto esprimere artisticamente sè stesso. Quello è
stato il gran punto; in quel giorno tutto è stato creato, nella
filosofia, nella morale e nell'arte; tutto, capisce? tutto, tranne la
polvere da cannone, la stampa, la strada ferrata e il telegrafo;
quattro arnesi di utilità, ne convengo, e non sarò venuto al mondo io
per dirne male. Voglio dire piuttosto che son cose piccine; mentre
tutte le cose alte e grandi, che per via della rappresentazione hanno
raggiunta l'intelligenza della vita, avevano già da duemil'anni, forse
da tremila, la loro estrinsecazione miracolosa, il loro svolgimento
felice, il loro ufficio rinnovatore nel mondo.--
La signorina Wilson mi lasciava dire. Ero in vena, ed ella non voleva
trattenermi. Forse ha imparato a conoscermi, ed ha presa l'abitudine
di lasciarmi sfogare. Il che, dopo tutto, mi fa piacere, e vuol essere
una delle ragioni che me la rendono simpatica. L'uomo che ciancia,
bisogna lasciarlo cianciare; egli si persuade di piacervi, e piacete
tanto più a lui quanto più state a sentirlo. Ma non bisogna distrarsi,
quando egli ha sciolto Giordano. Povero a voi, se egli si ferma per
domandarvi approvazione, e voi siete col capo ad altro. Io, per
esempio, quando mi fanno un discorso troppo lungo, penso volentieri ai
fatti miei; ma uso l'avvertenza di collocare ad ogni tanto un "già" un
"sicuro" un "è proprio così" che mi vengono naturalissimi,
facilissimi, senza bisogno di studiarci. Guardatevi per altro dalle
interruzioni che escano dai generali. A me accadde un giorno di
collocare un "e lui?" che fece rimaner male l'amico.
--Ma che lui!--mi gridò egli stizzito.--Ti parlavo di lei.
--Ah sì, è vero;--rimediai alla meglio. È stato un _lapsus linguae_.--
Torniamo alla signorina Wilson, che mi aveva lasciato dire a mia
posta, e poi soggiunse, con accento malinconico:
--Il burattinaio ha fatto capolino tre volte dalla sua tenda, cercando
con gli occhi in giro nel suo uditorio. Pareva il patriarca Noè,
quando mise il capo fuori dal finestrino dell'Arca, per vedere se il
corvo fosse ancora tornato. Ma il corvo non c'era.
--Ah, me ne dispiace, creda, me ne dispiace.
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