Dal primo piano alla soffitta - 13

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--Tu pure me lo domandi?... Si ricordi dei suoi avi che affrontarono
cento volte la morte per la patria; brandisca un fucile, vada, corra
dove si combatte contro gli Austriaci;... un giorno solo, un'ora, un
minuto di eroismo può sanar molte colpe.... Non rispondi?
--Andar soldato!--mormorava Fortunata, tenendo gli occhi bassi,--Ma egli
non è robusto, non è avvezzo alle fatiche... e pur troppo in questi
ultimi tempi....
--I vizi l'hanno indebolito di più.... Me lo immagino.... Non
importa.... Ne son partiti degli altri, viziosi, scioperati al pari di
lui; hanno capito, hanno sentito che quest'era l'unica via di
salute....
--Ma egli, ne son sicura, non resisterebbe alla prova.
--E se fosse?--proruppe Gasparo con impeto.--Non c'è dubbio; andando
alla guerra egli può soccombere alle fatiche, può morire, beato lui! con
una palla in fronte; ma qui, non muore a oncia a oncia? E tu
preferiresti di vederlo finire sulle panche d'un'osteria, forse nel
canto d'una strada?
--Gasparo, Gasparo, che pronostici fai!--esclamò Fortunata atterrita
coprendosi il viso con le mani.
--Io non pronostico nulla d'inverosimile--egli le rispose. E vedendo che
le sue parole l'avevano scossa se non persuasa, continuò:--Invece chi
sa? Nei sani travagli del campo egli può trovare una vigorìa ignota, e
sfuggendo ai pericoli può tornar rifatto di corpo e di spirito.... E
allora, siane certa, egli benedirebbe chi gli avesse dato il consiglio
di prender l'armi.
Che Gasparo credesse proprio al miracolo, questo non oseremmo
affermarlo; tuttavia egli parlava con l'accento d'uomo convinto; e forse
era convinto realmente che se v'era per Leonardo un mezzo di redenzione
possibile, era quello da lui indicato.
Fortunata era in una strana perplessità. Col suo carattere timido, col
suo sgomento della guerra, ella non sapeva neanche figurarsi di dover
dare lei stessa al marito un suggerimento di quella specie; anzi non
sapeva figurarsi che quel suggerimento non le destasse addirittura una
ripugnanza invincibile. Eppure una voce interna le ripeteva che Gasparo
aveva ragione e la sua mente si fermava volentieri su quella frase:
_egli può tornar rifatto di corpo e di spirito_.... Se fosse vero?
--Gasparo--ella cominciò peritosa--se gli parlassi tu?
--Io?... No... non voglio vederlo... adesso.... Quando si sarà deciso a
compiere il suo dovere di cittadino, allora, allora soltanto venga da
me.... Io l'accoglierò dimenticando il passato, io farò tutto quello che
sarà in mio potere per ispianargli la via.... Ma eh' egli non mi capiti
dinanzi se non è ben risoluto.... Hai inteso?
Visto che suo fratello era irremovibile, Fortunata mise un sospiro e
disse:
--Gli parlerò io, proverò.
E il colloquio fu terminato così.


XXIII.

È un fatto che Leonardo Bollati, un giorno in cui egli era d'umor più
trattabile, aveva detto alla moglie che, in fin dei conti, se gli
offrissero un buon impiego, egli avrebbe forse la degnazione di
accettarlo. Una simile idea può parere strana in un uomo di quella
tempra e di quella vita, ma la si spiega benissimo ove si consideri che
il 22 marzo aveva portato uno sconvolgimento profondo nelle abitudini
dei Veneziani. In condizioni ordinarie non c'è popolazione più metodica
di questa; la gente si reca ogni giorno alla stessa ora agli stessi
ritrovi; alla distanza di dieci anni voi vedete dietro le vetriate dei
soliti caffè i soliti visi con qualche ruga e qualche capello bianco di
più; quelli che mancano, mettete il vostro cuore in pace, molto
probabilmente son morti. Entrate, e sentirete, non dico gl'identici
discorsi, ma l'identico modo di discorrere, di sparlare del prossimo,
di spropositar di politica, di gridar la croce addosso agli
amministratori del Comune. Ciò che vale pei caffè, vale pei teatri, per
le conversazioni, per le osterie, per le passeggiate: ciò che vale per
un ceto di persone vale per tutti. Gli amici si vedono, si lasciano, si
rivedono tre o quattro volte nel corso di ventiquattr'ore. Che amici! si
dirà. Adagio un poco. Certo di amici veri ce ne sono anche qui, ma chi
si lasciasse illudere dalle apparenze dell'intrinsichezza andrebbe
incontro a terribili disinganni. L'amicizia, a Venezia, è più che altro
una malattia cutanea; prende le forme d'un'eruzione di cordialità; i
visceri ne sono illesi. Tizio, Caio, Marco, Sempronio passano insieme
mezza giornata, supponiamo, al Florian, si danno del _tu_, scherzano
insieme, fanno il tresette, sembrano quattro corpi e un'anima. Una
mattina Sempronio non si lascia vedere. Tizio, Caio, Marco sono
inquieti, ma si consolano dicendo:
--Verrà alle cinque.
Alle cinque Sempronio non compare.
--Oh bella!--esclamano gl'indivisibili.--Dove s'è cacciato oggi colui?
--Non importa. Stasera per la partita non manca sicuramente.
Viene la sera e di Sempronio nessuna nuova.
--Diavolo! Questa poi è grossa.... Bisogna dire che sia malato. Chi fa
il quarto invece di lui?
Il quarto si trova facilmente, e si comincia a giocare.
Sul più bello capita qualcheduno con aria contrita.
--Lo sapete? Sempronio è morto!
--Diavolo, diavolo!--dice Tizio.--Come mai? Se ieri era sano come un
pesce?
--Ma! L'apoplessia lo ha colto questa mattina e alle tre era spirato.
--Corpo di bacco!... Mi dispiace assai,--soggiunge Caio.
Anche Marco manda un sospiro al perduto amico:
--Povero Sempronio! È proprio una disgrazia.... Accuso tre assi senza
denari.... E dove stava di casa?
Ebbene, si capisce senza difficoltà come ogni fatto pubblico il quale
alteri l'andamento normale della vita cittadina debba sciogliere queste
relazioni così superficiali quantunque così espansive. Figuriamoci poi
un fatto dell'importanza della rivoluzione del 1848. Chi fu sbalestrato
di qua, chi di là: fu come se un cataclisma gettasse tutti gli astri
fuori della loro orbita. Non c'è dubbio che dal nuovo caos uscirebbe una
nuova armonia e i corpi celesti prenderebbero un altro cammino regolare;
è probabile però che qualche astricino più tardo a disciplinarsi
andrebbe alquanto vagando alla ventura per cascar poi a guisa di bolide
Dio sa in che luogo. Nel 1848 gli uomini ch'entrarono nel movimento
politico, che si posero sul serio al servizio del paese trovarono presto
un nuovo equilibrio: quelli, che, senza curarsi dei tempi mutati,
vollero continuar le abitudini frivole di prima, si aggirarono come
fantasimi smarriti in un mondo che non li intendeva e ch'essi non
intendevano più.
Eccoci dunque, per una strada un poco lunga, tornati al nostro Leonardo.
La sua compagnia di farabutti e viziosi s'era, dopo il 22 marzo,
dispersa; alcuni, cosa strana a dirsi, erano partiti pel campo, altri
s'erano rintanati brontolando. Nella bettola ov'egli consumava metà
della notte e ove l'ostiere fino al 22 marzo serbava a lui e alla sua
brigata una tavola a parte, ora gli toccava sedere in mezzo a
sconosciuti che parlavano della guerra, di Manin, di Carlo Alberto, di
Pio IX, urlando come ossessi e minacciando talvolta, nel calore della
discussione, di rompersi i bicchieri in faccia. È vero che per lo più le
dispute ci calmavano, le voci irose si raddolcivano e si fondevano in un
inno patriottico. Ma Leonardo Bollati non ci si divertiva punto; lì
solo, dimenticato in un angolo, egli non ci trovava più gusto nemmeno a
ubbriacarsi. E anche le donne gli parevano cambiate, perfino quelle che,
ordinariamente, non hanno opinioni e non si curano delle opinioni
altrui. Nossignori, adesso anche loro avevano l'aria di guardarlo d'alto
in basso, di rimproverargli la sua inerzia; lasciando stare poi le
preferenze ch'esse accordavano ai militari, agli elmi, ai grandi
mantelli bianchi, ai pennacchi e ai lustrini....
Sotto l'influenza di quest'uggia che gli si era cacciata nell'ossa,
Leonardo Bollati tenne alla moglie il discorso ch'ella aveva timidamente
riferito al fratello. Leonardo vedeva della gentuccia salita ai primi
onori; possibile che non ci avesse a essere un buon posto per lui che
aveva un nome inscritto nel Libro d'oro della Repubblica di San Marco?
Anche dei giovani patrizi, di nobiltà meno antica della sua, erano
entrati negli uffici pubblici, dispensavano grazie e protezioni; ed egli
riteneva d'aver il diritto d'esser messo al livello di costoro. In
quanto al genere dell'impiego, Leonardo non aveva precisato nulla; gli
bastava un impiego decoroso. E non aveva escluso a priori neppur gli
impieghi militari; poichè egli non amava la guerra, ma ci avrebbe
pensato su prima di rifiutare una carica di generale o di colonnello con
residenza a Venezia.
Il lettore si sarà accorto che fra le idee di Sua Eccellenza Leonardo
Bollati e quelle del cognato Gasparo Rialdi c'era un dissidio bastevole
a mettere a repentaglio il buon successo delle negoziazioni aperte da
Fortunata. E infatti quelle negoziazioni fallirono. La proposta di andar
a rischiar la pelle come soldato semplice parve a Leonardo un'ingiuria
atroce e si sfogò con la moglie a dir corna di Gasparo e di tutti i
Rialdi, ch'eran vissuti di carità alla sua tavola e che adesso eran
montati in superbia perchè avevano il vento in poppa. Sciocco lui a
fidar sul loro aiuto; doveva pur ricordarsene che i Rialdi erano stati
una delle piaghe della sua famiglia! Non voleva veder più nessuno di
quella brutta gente, neppur lei che già valeva quanto gli altri e non
sapeva far di meglio che venirgli a piagnucolare davanti. Ell'aveva
fatto benone a tornar presso i suoi genitori; ci stesse e non lo
importunasse con le sue visite.
Leonardo non pensò più ad avere un impiego; bensì, riordinandosi allora
la guardia civica, egli prese l'eroica risoluzione d'iscrivervisi, e,
perchè il nome della sua casa non aveva ancora perduto ogni autorità nel
circondario, riuscì a farsi elegger tenente della sua compagnia.
Veramente egli aspirava al grado di capitano, ma questo fu conferito ad
un pizzicagnolo ch'era stato militare sotto l'Austria. Per un altro uomo
che fosse stato soltanto disoccupato ed inerte, quella nomina avrebbe
potuto considerarsi una fortuna, chè, o poco o molto, c'era anche nella
guardia civica qualche cosa da fare e qualche pericolo da correre. Per
Leonardo Bollati fu una nuova disgrazia. Voleva svergognar i superiori,
confonder gli uguali, accattivarsi l'animo dei militi, e per ottener
quest'intento gli occorreva scialar da gran signore e pagar da bere alla
compagnia, nè potendogli bastare all'uopo il suo magro assegno
aggiungeva debiti a debiti. Come poi un oberato trovasse dei gonzi che
gli prestavan danaro, quest'è uno dei tanti misteri dinanzi a cui
gl'ingenui devono chinar la fronte in silenzio. Un povero galantuomo che
una volta in vent'anni chieda al sarto un mese di respiro per saldargli
il conto, sentirà rispondersi con mali modi; un fallito che abbia
mangiato un milione del proprio e due milioni di quello degli altri
potrà ancora imbattersi in uno strozzino di buona volontà che gli dia
qualche migliaio di lire.
Insomma Leonardo, alquanto rimpannucciato in quella sua divisa di
tenente, tornò ad aver quattro soldi in tasca, ciò che gli permetteva,
quand'era di servizio, di far portare in corpo di guardia dei boccali di
vino e dei polli arrosto che rinfocolavano il patriottismo dei
sott'ufficiali e dei gregari.
Di giorno il quartier generale del nostro tenente era l'osteria _Alla
Venezia risorta, condotta da Oreste Meolo_, gran ritrovo dei politicanti
di Cannaregio. Là si sapevano tutte le novità, si dibattevano tutte le
opinioni, si giudicavano tutti gli uomini, e le dispute si facevano
tanto più calde e romorose quanto più gli affari accennavano a
intorbidarsi; nè ci voleva meno che la calma olimpica e l'imperturbabile
ottimismo del signor Oreste per quetar gli spiriti degli avventori.
In mezzo alle loro grida, alle accuse di tradimento ch'essi scagliavano
oggi al Papa, domani a Carlo Alberto, o al Borbone, o al Durando che non
correva in aiuto dei volontari, il signor Oreste con la sua faccia
serena, con la sua voce melliflua sorgeva a dire:
--Mi lasciano esporre il mio debole parere?
E il suo debole parere era questo. Le cose non si dovevano guardar nei
loro particolari, ma nell'insieme. E dall'insieme risultava chiaro come
il sole che si camminava a gran passi verso una compiuta vittoria. Se lo
lasciavano dire, ne darebbe la prova.
--Sì, sì,--interrompeva qualcheduno,--bel principio. Intanto gli
Austriaci vengono avanti.
--Meglio,--diceva il signor Oreste,--così si piglieranno tutti in una
volta.
--Uhm! E Durando che non si muove mai?
--E il Papa che volta casacca?
--E Carlo Alberto che sta a guardare i Tedeschi sul Mincio?
--E Ferdinando che richiama i suoi soldati?
--Fidarsi dei Re!... Tutti traditori, tutti bricconi.
--La ghigliottina ci vuole, ecco il rimedio.
--Sangue, sangue....
Pare impossibile la quantità di sangue che domandano agli altri quelli
che non sono disposti a spargerne una goccia del proprio!
Il signor Oreste non aveva ancora potuto svolgere il suo concetto, ma,
presto o tardi, trovava il modo di farsi sentire.
--M'ingannerò, ma per me queste ritirate, questi voltafaccia non sono
che finte, tranelli per adescare il nemico. Perchè, signori, se l'Italia
non dovesse pensare che a sè direi anch'io: S'è sbagliata strada.
Bisognava gettarsi subito sui pochi Austriaci ch'erano rimasti nel
Lombardo-Veneto e impedire che ne venissero giù dei nuovi dall'Alpi e
dall'Isonzo. Ma l'Italia, signori, ha degli obblighi, dei grandi
obblighi. Si tratta di distruggere l'Austria, si tratta. Ora mettiamo
che i Piemontesi, i Papalini, i Napoletani, fossero tutti marciati
subito verso la frontiera, è evidente che quelli di Vienna non avrebbero
avuto coraggio di spedir altre truppe in Italia. Noi avremmo fatto
prigioniero Radetzky e i suoi reggimenti, ma il grosso dell'esercito
sarebbe rimasto sano e salvo a casa propria. Invece, lasciando sguarniti
i confini, vengono ad uno ad uno a cader nell'agguato, Nugent, Welden,
d'Aspre e tanti nomacci simili che il diavolo se li porti. E un bel
giorno, quando tutte le forze austriache si son calate quaggiù, i
Piemontesi da una parte, i Romagnoli e i volontari dall'altra, te li
prendono in mezzo e fanno una frittata. Non ce ne deve tornare di là dai
monti uno solo. Questo è il mio debole parere. Che ne dice il nostro
tenente?
Il _nostro_ tenente, ch'era il N. H. Leonardo Bollati, arricciava il
naso a sentirsi trattar con questa confidenza dal suo antico cuoco, ma
eran tempi democratici e conveniva adattarvisi. Del resto il _nostro_
tenente non aveva opinioni ben determinate circa all'andamento probabile
della guerra, ed era disposto ad accettar le opinioni del signor Oreste.
Qualcheduno domanderà se la clientela della _Venezia risorta_ fosse
composta d'idioti o di sonnambuli a cui si potesse spacciar queste
fanfaluche; il fatto si è che _il debole parere_ del signor Oreste era
nel 1848 anche quello di persone intelligenti, le quali, nel loro santo
entusiasmo per la causa dell'indipendenza, avevano finito collo smarrire
ogni lume di critica. Ciò non vuol dire che tutti gli avventori
s'acquetassero allo sentenze spropositate dell'oste, ma i più gli
porgevano ascolto benevolo, ed egli, con la sua tattica, mostrava
d'intuire due grandi verità: che gli uomini credono sempre volentieri a
quello che desiderano, e che a conciliarsene l'animo non c'è mezzo più
efficace che accarezzar le loro illusioni.
In quanto a lui, dell'indipendenza non gliene importava nè punto nè
poco; solo vedeva con piacere per le vicende della guerra la guarnigione
crescer ogni giorno, e molti dal di fuori rifugiarsi a Venezia. E per
mettersi, come si dice, a livello delle circostanze, il signor Oreste
ingrandiva la sua trattoria, si provvedeva di vini napoletani che
richiamassero alla _Venezia risorta_ i prodi seguaci di Guglielmo Pepe,
migliorava il servizio, e dava impiego a due nostre vecchie conoscenze,
esuli dalla provincia, la bella caffettiera d'Oriago e il relativo
marito. Sì, la Rosetta e Menico, all'avvicinarsi degli Austriaci avevano
stimato opportuno di chiudere il caffè e di fuggir gli invasori.
Veramente Menico, sulle prime, non capiva perchè i Tedeschi, tornando,
dovessero prendersela direttamente con lui; ma sua moglie, la quale
correva dietro a un sott'ufficiale della legione romana, tanto disse e
fece per provare al consorte ch'egli s'era compromesso in un modo tale
da rischiar la vita ove fosse rimasto, che egli finì col persuadersi di
essere un gran patriotta minacciato del patibolo e accondiscese a
emigrare, come facevano altri che, a sentir la Rosetta, erano assai meno
compromessi di lui. Giunto fra le lagune con pochi quattrini, egli si
sarebbe mangiati ben presto anche quelli aprendo un'osteria, se l'ottimo
signor Oreste non ne lo avesse sconsigliato e non avesse offerto a lui e
alla consorte un posto sicuro e onorevole presso la sua _Venezia
risorta_. Dopo qualche titubanza i coniugi si acconciarono alla
necessità, e le grazie della Rosetta contribuirono ad aumentar
notevolmente la clientela del signor Oreste.
Il sott'ufficiale della legione romana trovava che gli ammiratori della
vispa cantiniera eran troppi e non seppe tacergliene il suo rammarico.
Essa però gli fece intender ragione, dicendogli che non voleva e non
aveva mai voluto gelosie, che d'altra parte ell'era di carattere allegro
e le piaceva far buona cera a tutti, tanto più che ciò le era imposto
dai doveri della sua carica. Il sott'ufficiale si rassegnò a chiudere un
occhio; Menico poi da un pezzo li aveva chiusi tutti e due.
La Rosetta non mancò di fare i suoi convenevoli a Sua Eccellenza il N.
H. Leonardo Bollati; e Leonardo avrebbe voluto riappiccar con lei la
vecchia amicizia. Ma il conte non aveva più nessuna attrattiva fisica,
e, diciamo la brutta parola, nessuna attrattiva economica. Da quando la
Rosetta non lo vedeva, ed erano quasi tre anni, egli era scaduto
immensamente d'aspetto e ci voleva poco ad accorgersi ch'egli stava
malissimo di finanze. Infatti gli riusciva ogni giorno più difficile di
scovar nuovi sovventori, e i vecchi insistevano per esser pagati e
minacciavano di sequestrargli l'assegno accordatogli dal Tribunale. In
questa condizione di cose, il meglio per lui era di mostrarsi meno che
fosse possibile, tanto più che, indebitato com'era, non avrebbe potuto
conservare a lungo il suo grado nella guardia civica. Con la scusa della
salute egli diede le sue dimissioni e scomparve anche dalla _Venezia
risorta_.


XXIV.

Noi non facciamo la storia dell'assedio, e non siamo quindi tenuti a
seguir passo a passo gli avvenimenti, nè a discorrer dei casi della
guerra, nè della fusione col Piemonte votata nel luglio 1848
dall'Assemblea, nè del moto popolare succeduto l'11 agosto alla nuova
dell'armistizio Salasco; diremo soltanto che coll'incalzar del pericolo
crebbe l'animo e la saviezza dei Veneziani. Alla richiesta di maggiori
sacrifizi rispose più spontanea l'abnegazione di tutti, alla necessità
di prepararsi a resistere rispose un'energia maggiore nell'organizzar la
difesa. Si provvide all'armamento dei forti, si mobilizzò una parte
della guardia civica, si formarono nuove legioni di combattenti, quella
tra l'altre che in omaggio ai martiri di Cosenza s'intitolò di Bandiera
e Moro.
Fosse il fascino d'un nome che gli ricordava gli amici della sua prima
giovinezza, fosse la persuasione di non poter far nulla d'efficace
nella marina, Gasparo Rialdi chiese ed ottenne di entrar col grado di
capitano in questo corpo che raccoglieva il fiore della cittadinanza
veneziana. Fu codesta un'amara delusione per la contessa Zanze, la quale
s'era fitta in capo che suo figlio avesse a diventare ammiraglio e non
sapeva rassegnarsi a vederlo senza il suo cappello a due punte e le sue
belle spalline d'oro. Ai suoi occhi il cambiamento era poco meno di una
degradazione, ed essa se la pigliava a vicenda col Governo che non aveva
apprezzato abbastanza un ufficiale di quel merito, e con Gasparo stesso
ch'era un grand'uomo, ma non sapeva farsi valere. Però queste cose ella
non le poteva dire che nel segreto dell'amicizia, alla contessa
Ficcanaso, per esempio, quella sua tenera amica che conosciamo, giacchè
Gasparo aveva certe massime tutto sue, e guai s'egli avesse sentito che
sua madre si lagnava del modo in cui egli era trattato.
In quanto a lui, non desiderava che di poter finalmente combattere, e
l'ebbrezza delle prossime lotte lo rendeva dimentico d'ogni altra cosa,
perfino del significato doloroso che aveva per la causa italiana
quell'avvicinarsi degli Austriaci a Venezia. È vero pur troppo che anche
l'eroismo, anche la voluttà del martirio rende talvolta egoisti.
Il lettore conosce abbastanza il carattere del conte Luca da poter
credere senza fatica che egli s'apparecchiava agli avvenimenti con
disposizioni d'animo affatto opposte a quelle del figlio. Pover'uomo!
Dalla metà d'aprile a tutto maggio s'era sforzato di persuadersi della
fine del dominio austriaco in Italia, e aveva fatto (almeno così pareva
a lui) delle dimostrazioni pubbliche atte a ingraziarlo coi liberali, ma
dopo i disastri del luglio e dell'agosto la sua vecchia idea che i
tedeschi sarebbero tornati aveva ripreso l'antico predominio e non gli
lasciava pace. Il peggio si era che gli toccava divorar in silenzio le
sue inquietudini. A lunghi intervalli, quando non ne poteva più e il
soffiare gli era uno sfogo insufficiente, vuotava il sacco con
Fortunata.
--Matti, matti, matti da legare!--egli diceva (però tanto piano che
Fortunata doveva aguzzar l'orecchio per sentirlo).--A un bel punto ci
hanno ridotti!... Ecco ciò che ha saputo fare il loro Carlo Alberto, ciò
che han fatto i volontari, e i papalini, e i napoletani.... E adesso
tutta la tempesta viene addosso a noi; stiamo freschi.... Mi ricordo del
blocco del 1813, che delizia!... Questi furibondi che ci governano non
se ne rammentano mica, son giovani, loro, se no, non farebbero tanto i
gradassi.... Eh, perchè l'esperienza servisse a qualcosa, bisognerebbe
che al mondo non ci fossero altro che i vecchi.... E il blocco di questa
volta sarà anche più rigoroso, si può scommettere.... Avremo la
carestia, la miseria, e chi sa che altri malanni.... Con che sugo
poi?... Per calar le brache, con rispetto parlando, per istar peggio di
prima.... Figuriamoci quanti impiegati destituiti!... Si terrà conto
delle apparenze, delle parentele.... so quel che mi dico. E voglia il
cielo che i nostri padroni d'adesso, a forza di arroganza, non spingano
i Tedeschi agli estremi... Che se c'è l'assalto, siam fritti. Tutti gli
abitanti saranno passati a fil di spada e di Venezia non rimarrà pietra
su pietra... Mi spiego?... Chi è?
Con questo grido angoscioso--_chi è?_--il conte Luca soleva troncare o
interrompere le sue querimonie, chè bastava il sospetto della presenza
di qualcheduno per suggellargli la bocca. E non solo non avrebbe parlato
dinanzi a sua moglie che era una pettegola o a suo figlio con cui non
aveva mai avuto confidenza, ma gli dava ombra perfino la piccola
Margherita. I bambini, si sa, nella loro pericolosa innocenza, son
capacissimi di riferir tutti i discorsi che sentono. E il conte Luca
faceva giurare a Fortunata che non si sarebbe lasciata sfuggire con
nessuno una parola di ciò ch'egli le diceva. Ella ubbidiva, e la sua
mente inclinata a tristi pensieri prestava facil credenza alle terribili
profezie paterne e già precorreva le stragi, gl'incendi, la rovina
ultima di Venezia.
Intanto l'anno 1848 finiva, per la causa liberale, in Italia e fuori
d'Italia, in modo ben diverso da quello in cui era cominciato. La
discordia aveva pazzamente agitato la sua face nel campo di coloro che
parevano scesi a combattere sotto la stessa bandiera. Da una parte
gl'indugi fatali, i tentennamenti colpevoli, le aperte fellonie;
dall'altra gli eccessi del linguaggio e le violenze degli atti.
Nondimeno nei primi mesi del 1849 una lieta notizia riconfortò i
patriotti della nostra penisola; il Piemonte riprendeva le armi. Ma la
gioia durò poco, e la tragica giornata di Novara ripiombò l'Italia nel
lutto. Gli Austriaci, sicuri alle spalle, potevano ormai converger le
loro forze contro i ribelli. Il 26 marzo, tre giorni dopo la disfatta
dell'esercito di Carlo Alberto, il feroce Haynau, nome esecrato dalle
madri lombarde e magiare, dal suo quartier generale di Padova, intimava
la resa a Venezia. E il 2 aprile, Venezia, col voto unanime dei suoi
rappresentanti raccolti nello storico palazzo dei Dogi, decretava la
resistenza a ogni costo. Santo e nobile voto che riscattava lunghi anni
d'ignavia, ed evocava in quelle aule famose lo spirito della grande
Repubblica.
Colpita al cuore dalla tremenda delusione ch'era successa a tanto
rifiorir di speranze, la popolazione si riebbe all'annunzio del fiero
decreto. Era un'ebbrezza simile a quella del marzo 1848, ma meno
teatrale, ma più virile, più degna d'uomini preparati a morire. Simbolo
della lotta ad oltranza, non emblema di funeste divisioni sociali, il
nastro rosso comparve alla bottoniera degli abiti, la bandiera rossa
sventolò sui tetti dei palazzi, sulle cupole delle chiese, sulle punte
dei campanili.
E il rimbombo del cannone, dal maggio in poi, divenne la musica
pressocchè quotidiana dei Veneziani. Chi, in un giorno di battaglia, udì
di lontano quel suono cupo e profondo sa che angoscia esso metta negli
animi, che pallore sparga sui volti, e come sospenda, per così dire, in
quella crudele trepidazione di tutti, il corso della vita ordinaria. Ma
chi, per settimane, per mesi, l'udì da una città assediata sa pure che
l'orecchio vi si abitua quasi come a un suono domestico, e che il primo
sbigottimento si cambia a poco a poco in un'apatia rassegnata e persino
in una spensieratezza gioviale.
Così a Venezia. Il cannone tuonava intorno a Malghera, e tuttavia il
popolo conservava il suo umore gaio e il suo spirito caustico; si
sarebbe detto talvolta che c'era nella città un'attrattiva di più; onde
gli uni si recavano in brigatelle alla punta estrema di Cannaregio a
veder i globi di fumo che s'alzavano dalle lunette dei forti, gli altri,
dalle specule e dagli abbaini, spingevano col canocchiale lo sguardo
fino alle batterie austriache di Campalto e di Mestre.
E quando Malghera, ridotta un mucchio di rovine, fu abbandonata in
silenzio nella notte dal 26 al 27 maggio, e la eroica guarnigione,
decimata ma non vinta, non doma, fatti saltar i primi archi del ponte,
si trincierò fieramente sul piazzale opponendo al nemico una seconda
linea di difesa non meno formidabile dell'altra, lo strepito più vicino
dell'artiglieria, la coscienza del crescente pericolo non valse ancora
ad accasciar l'animo dei Veneziani.
Si sperava a dispetto di tutto: si sperava nella propria costanza, nei
soccorsi del di fuori, negli aiuti del cielo; nessuno parlava, nessuno
voleva sentir parlare d'arrendersi. Di tratto in tratto la gente
s'accalcava in piazza domandando ad alte grida Manin. E Manin, dal
balcone delle Procuratie, rivolgeva agli adunati brevi parole, non
mendaci, non lusinghiere, ma ferme e virili quali i forti rivolgono ai
forti. La folla si disperdeva applaudendo e più che mai risoluta a
resistere.
Resistere fino all'ultima cartuccia e fino all'ultimo uomo, dicevano
anch'essi i difensori del ponte, imperterriti sotto una pioggia di
fuoco. Che importava morire? Quei prodi sentivano che sui pochi metri
quadrati dell'angusto piazzale si gettava il seme del futuro. E quel
seme era sangue, il più nobile sangue d'Italia confuso insieme in
quattro zolle di terra. Con un grido sul labbro, con un affetto nel
cuore eran venuti dalle sponde del Jonio e dalle falde dell'Alpi, dalle
pianure lombarde e dai clivi toscani, dal golfo incantato di Napoli e
dai feraci campi delle Puglie, dalla Romagna indomita e dalla Liguria
operosa; eran venuti a dividere i travagli e la gloria dei figli delle
lagune; ignoti fino a ieri gli uni agli altri, oggi più che fratelli. E
cadevano come spighe mietute stringendosi in un ultimo amplesso,
mormorando coi vari accenti d'una stessa favella il dolce nome della
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