Dal primo piano alla soffitta - 12

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lo sapete che c'è qualche signora che non vien più da voi per non sentir
certi discorsi?... E cosa son questi colori sul vestito?... Via subito
quel nastro.
--Oh,--rispondeva la contessa Zanze.--Voi sareste capace di aver paura
anche se vi portassero in tavola un piatto d'indivia mista col radicchio
rosso!
--E voi non avete sale in zucca.... Vi pare che siano momenti da
scherzare, questi? Ci tenete proprio ad andar in prigione per il bel
gusto di dir tutto quello che vi passa per la testa e d'abbigliarvi come
un arlecchino? Vergogna! Alla vostra età!
--Oh! L'età....
--Sì; e con l'allegrie che ci sono in casa.... Con la figlia e la nipote
da mantenere!... Che se, Dio scampi e liberi, io perdessi l'impiego,
sarebbero quei signori del Comitato che vi darebbero da pranzo! Pregate
piuttosto a mani giunte il Signore che non ci faccia capitar qualche
brutta notizia da Gasparo che sarà un brav'uomo, non dico, ma è un
cervello esaltato.... e se riescono a coglierlo in fallo....
--Voi non sapete preveder che disgrazie.
--E voi avete una benda agli occhi.... Se il Comitato dice che mio
figlio è un eccellente patriotta, è segno che ne hanno le prove. Mi
spiego?
--Sicuro che le avranno. O che lo credete un austriacante del vostro
stampo?
--Zitto, disgraziata... Dovreste gridarlo dalla finestra queste cose!
Non vi ricordate dei Bandiera?
--Altri tempi, altri tempi. Adesso quelli che sono al Governo si sentono
mancar la terra sotto i piedi e devono far i conti col popolo.
--Ma che popolo? Vorrei vederli, alla prima cannonata, questi strilloni,
questi ragazzacci che, in omaggio alla libertà, fischiano un galantuomo
che si permetta d'aver un sigaro in bocca. Bella libertà! Non parlo per
me che non fumo.... Ma io vi dico che mi par d'essere in un manicomio e
che questo baccano va a finire in tragedia.... oh se va a finire!... Mi
spiego?
E invero le Autorità, vinte le prime titubanze, accennavano a voler far
sul serio anche a Venezia. Sin dal 18 gennaio la Polizia aveva tratti in
arresto il Manin e il Tommaseo come quelli che capitanavano la cosidetta
_agitazione legale_; il 22 febbraio fu promulgato il giudizio statario,
del quale il marchese Geisenburg aveva dato al conte Rialdi l'annunzio
alquanto precoce. Tuttavia gli animi non si quetavano e gli avvenimenti
parevano fatti apposta per rincorare i timidi, per imbaldanzire gli
audaci. La proclamazione della Repubblica in Francia, come tutto ciò che
succede in quel paese singolare, aveva un immenso rimbombo in Europa; di
lì a poco Carlo Alberto accordava lo Statuto promesso, e infine la
notizia della rivoluzione di Vienna era l'ultima scintilla che faceva
divampare l'incendio. Il 17 marzo i prigionieri politici, liberati dal
carcere, eran portati in trionfo sulle braccia del popolo, i colori
nazionali apparivano agli occhielli degli abiti nella piccola ma
provocante coccarda, una bandiera bianca, rossa e verde era issata sopra
una delle antenne della piazza S. Marco. Nel 18, maggiore la folla, più
insistenti le grida, più risoluti, più feroci gli animi. La truppa,
accolta a fischi e a sassate, perde la pazienza e fa fuoco; ci sono
morti e feriti; sembra imminente una lotta sanguinosa per le strade
della città. Ma il governatore civile e il comandante la guarnigione
eran timidi, fiacchi, benevoli forse a Venezia ove avevan lungamente
vissuto; pieni di energia, d'entusiasmo, di fede erano invece gli uomini
postisi in quei giorni memorabili a capo del popolo. Si chiede e si
ottiene, col pretesto di mantenere la sicurezza pubblica, l'istituzione
della guardia civica; dai fondaci dei rigattieri escono vecchie spade
irrugginite, e fucili a pietra, e alabarde spuntate; escono dalle cucine
i coltellacci e gli spiedi, e i nuovi militi bizzarramente vestiti e
tutti con una sciarpa bianca a tracolla corrono come a festa le vie, e
distribuiti in pattuglie fanno la notte il servizio di ronda. È il primo
atto d'un'epopea? È l'ultima scena d'una farsa? Chi lo sa? Quali sono in
quella folla gli eroi veri e quali gli eroi da teatro? Chi lo sa? Sono
confusi insieme e non si potranno distinguere che al momento della
prova.
Certo non si rischia molto assicurando fin d'ora che non è un eroe un
nostro vecchio conoscente, il signor Oreste, comandante di una di quelle
strane pattuglie nella notte tra il 21 ed il 22 marzo. Il signor Oreste,
ch'è padrone d'una delle principali osterie in Cannaregio e che ha la
sua buona dose di vanità, non ha potuto esimersi dal prestar l'opera sua
alla patria in momenti tanto solenni, ma egli vuol conciliare i doveri
di cittadino coi dettami della prudenza, e guidando il suo manipolo di
prodi attraverso il dedalo inestricabile delle _callette_ veneziane,
pone ogni studio nell'evitar _cattivi incontri_.
--Non si passa per i Gesuiti?--domanda un gregario, non so bene se
coraggioso o malizioso.
--Ohibò--risponde il signor Oreste.--Perchè si dovrebbe passarci?
--Così, per veder quello che fanno quei _patatuchi_ del reggimento
Kinsky che son lì consegnati in caserma.
--Bel gusto.... Se venissero fuori?...
--Si spara il nostro colpo di fucile e si dà l'allarme.
--Provocazioni inutili.... Noi siamo in giro per la sicurezza della
città e nient'altro....
--Uhm... Senza un po' di sangue non la si finisce--ripigliò il milite
battagliero.
--Insomma--grida il signor Oreste con piglio autoritario--qui il capo
son io. Pei Gesuiti non ci si passa. Si va fino a S. Giovanni
Grisostomo, poi si torna indietro e ci si ferma a bere un mezzo boccale
da me.
Questa proposta raccoglie tutti i suffragi, e la pattuglia riprende in
silenzio le sue perlustrazioni.
--Là c'è una figura sospetta--esclama a un tratto il comandante segnando
all'imboccatura d'una calle un individuo che veniva avanti con passo
incerto.--Chi va là?
L'individuo borbotta qualche parola incomprensibile che sembra aver una
parentela lontana con una bestemmia.
--Bisogna vedere--soggiunge il signor Oreste rivolgendosi ai militi.
E seguìto da loro s'avvicina al misterioso personaggio, nel quale, con
sua grande maraviglia, riconosce nientemeno che il conte Leonardo
Bollati.
--Oh! Eccellenza--balbetta l'ex cuoco con un resto d'ossequio.
--To', to'--dice il conte strascicando le parole.--Siete voi... bel
mobile?... Anche voi in ma...a...schera?... Mi gira la testa.... Già...
già che siete qui... accompagnatemi fino al... palazzo.... È vi...
vicino....
Il signor Oreste non può negare un sì piccolo servigio al suo antico
padrone.
--Ce n'avete... fatte di grosse... voi...--continua Sua Eccellenza
appoggiandosi al braccio di quel furfante arricchitosi a spese della sua
famiglia.
Il signor Oreste avrebbe voluto dire che anch'egli era stato sacrificato
non riscotendo un centesimo dei suoi crediti, ma s'era ormai giunti al
portone del palazzo.
--Lo sapete che... che il palazzo appartiene a...adesso a un Lo...ord
inglese?
--Pur troppo, Eccellenza.... Ma!
--Nie...ente paura!... Ho tre camere... in... a...alto e... e m'han
lasciato... a...anche la chia...a...ve.
Il signor Oreste aiutò il conte a introdurre questa famosa chiave nella
toppa; poi disse:
--Lustrissimo, buona notte....
--Buo...o...na notte.... O che co...o...sa gridano?
Pel vicino Canalazzo passava una gondola e il barcaiuolo con voce sonora
gridava:--Viva San Marco!
--Gridano:--Viva San Marco!
--Vi...va San Ma...a...rco?--ripetè a mezza voce Leonardo fermo sulla
soglia.--To...o...rna la Serenissima?
--Chi può dir nulla?... Se ne vedono tante.... Buona notte, signor
conte.
E la pattuglia si ritirò.
Noi non vorremmo affermare che quel grido di _Viva San Marco_ non
facesse nessun effetto a Leonardo Bollati, che nessuna fibra si scotesse
in lui all'idea di veder risorger l'antica Repubblica, a pro della quale
i suoi padri, per tante generazioni, avevano versato il sangue e speso
l'ingegno. Ma l'impressione, come accade a chi s'è disavvezzato dal
pensare e dal sentir fortemente, non fu che passeggera; egli aveva ben
altro pel capo che la risurrezione della Repubblica; aveva bevuto
troppo, era stanco, aveva un sonno, un sonno! Si strascinò su dei suoi
centoquindici scalini, chè non ce ne volevano meno per arrivare dov'egli
abitava, e si mise a letto.
Il giorno dopo Leonardo non s'alzò che tardissimo. Affacciandosi a un
finestrino che dava sul Canal grande vide un movimento, un'animazione
maggior dell'usato, sentì più insistente il grido che l'aveva colpito la
notte prima: _Viva San Marco!_ E altri gridi insieme con questo: _Viva
Pio IX! Viva Manin! Viva la libertà!_ Inoltre dalle frasi scambiate tra
la gente che curiosava sulle _rive_ o ai _traghetti_ capì che gravi
fatti erano successi e fatti non meno gravi si preparavano.
--Gli arsenalotti gli hanno fatto la festa?
--Al colonnello Marinovich? Sicuro.... Gli sta bene a quel cane. Li
trattava da bestie.
--E com'è andata?
--Ma! Chi la racconta in un modo e chi in un altro. La mia però è storia
genuina perchè la so da mia cognata che è sorella di un arsenalotto.
Fatto si è che appena Marinovich s'è presentato all'arsenale questa
mattina, gli operai, che non se l'aspettavano dopo le minaccie di ieri,
gli si strinsero attorno con urli, fischi, imprecazioni. Lui tira fuori
la spada e si fa largo un momento.... Ma quelli s'inviperiscono di più e
gli danno addosso di nuovo. Vista la male parata, il colonnello cerca di
fuggire, trova aperta la porta di una delle torri vicine all'ingresso,
sale per la scala, ma i suoi inseguitori gli sono alle calcagna, un
calafato gli pianta nella schiena la sua trivella, e felice notte.
Di lì a poco si sente un'altra gran novità.
--L'arsenale è nostro.
--Come? Come?
--Se n'è impadronito Manin.
--Senza combattimento?
--Avevan mandato un battaglione di fanteria marina per riprenderlo, ma
le guardie civiche che c'eran dentro dissero: _marameo!_--_Fuoco!_
ordina il comandante del battaglione, un tedesco. I soldati che son dei
nostri, non gli badano neanche e un ufficiale, nostro veneto anche lui,
esce dai ranghi e grida: _Giù le armi_. Il tedesco va in furia e si
slancia sull'ufficiale....
--Oh diavolo.... E come va a finire?
--Si battono da disperati. Ma un sergente di marina la termina lui e
getta a terra il tedesco.
--Morto?
--No, no; pare che l'abbian risparmiato.... Se lo ammazzavano era
meglio.
--Perchè! Hanno ammazzato il Marinovich stamattina. Basta uno.
--Ce ne vuol altro che uno.... Insomma i soldati si confondono con le
guardie civiche, si mettono la loro brava coccarda sul petto e gridan
tutti insieme: Viva l'Italia!
--Viva la nostra marina!
E ormai le notizie si succedono con una rapidità straordinaria.
--Anche i granatieri han fatto lega col popolo.
--I cannoni della Gran guardia che eran carichi a mitraglia sono in
potere della guardia civica.
--Venti, trenta, quarantamila fucili son distribuiti fra i cittadini.
--Il palazzo del governo è nelle nostre mani.
--Il podestà Correr è andato da Palffy a intimargli la resa.
--Solo?
--No, con altri tre o quattro.
Passa un'ora, si sparge la voce che ci siano delle difficoltà, che il
governatore non voglia cedere, che il comandante di piazza voglia far
bombardare la città.
--Alle barricate--grida qualcheduno.
--Alle campane. Morte all'Austria!
Da qualche finestra si ritira la bandiera tricolore; sul tetto del
palazzo Bollati viene issato per prudenza il vessillo britannico.
Ma prima di sera ogni dubbio era tolto; la capitolazione era firmata;
era proclamata la Repubblica.
Ormai il tricolore sventolava da tutte le case; l'entusiasmo brillava su
tutti i volti; da tutti i petti irrompevano le grida _Viva San Marco!
Viva Pio IX! Viva l'Italia! Viva Manin!_
Leonardo Bollati era rimasto quasi sempre immobile alla finestra.
Sporgendo la testa fuori del davanzale, egli vedeva sotto di sè nel
terrazzo del primo piano la famiglia del _lord_ che, insieme con altri
connazionali, godeva, come di uno spettacolo, di quella rivoluzione
pacifica. E la famiglia del lord, di tratto in tratto, levava gli occhi
e vedeva lui, _the scion of the Doges_, il discendente dei dogi, e lo
mostrava agli ospiti, appollaiato lì in alto, sotto la grondaia, come
una civetta. Quando le grida di _Viva San Marco_ si fecero più romorose
e più generali, gli Inglesi si misero a guardare in su con una curiosità
più indiscreta. Pareva volessero indovinar i pensieri di lui, _the scion
of the Doges_, in quel momento solenne. E se il popolo fosse venuto a
prenderlo nella sua soffitta, e a ricondurlo nel primo appartamento,
cacciandone gli estranei che l'occupavano? Una figliuola del lord, molto
romantica, molto _byroniana_, diceva che sarebbe stata una scena
drammaticissima e ch'ella si sarebbe stimata felice d'assistervi anche
dovendo esserne la vittima. Ma l'austero genitore, il quale non voleva
che si scherzasse sopra tali argomenti, le diede sulla voce:--_Keep your
tongue, you silly thing_. Tacete, scioccherella. Ormai il palazzo è da
considerarsi come parte del territorio _of our most gracious Queen_,
della nostra graziosissima Regina, e guai a chi lo tocca.
Il nobile lord poteva mettere il suo cuore in pace. In quel giorno 22
marzo 1848 i Veneziani non si rammentavano nemmeno dell'esistenza del
conte Leonardo Bollati. E se, per una combinazione fortuita, l'uomo
acclamato dal popolo portava il nome medesimo dell'ultimo Doge della
Repubblica, non toccava ai nipoti degli antichi patrizii di regger le
sorti di Venezia durante i diciasette mesi di lotta sfortunata, ma
gloriosa, contro lo straniero.


XXII.

Di lì a tre o quattro giorni arrivava a Venezia Gasparo Rialdi. Arrivava
da Pola insieme con qualche altro ufficiale di marina, sopra un piccolo
legno, e dopo esser sfuggito non senza fatica agl'incrociatori
austriaci. La gioia di trovar la patria libera, di poter combattere per
una causa santa era amareggiata a quei generosi dal non esser riusciti a
farsi seguire da tutta la flotta. Alle prime voci di rivoluzione, essi
dicevano, s'era manifestato un vivo fermento negli equipaggi e in gran
parte degli ufficiali ch'erano italiani di sangue e di pensieri. I più
arditi, tra cui il Rialdi, sostenevano doversi salpar subito per
Venezia, per partecipare alla lotta, se l'esito era ancora incerto, per
recare al nuovo ordine di cose il sussidio d'una forza disciplinata, se
la battaglia era vinta. Ma la maggioranza fu d'altro parere. Non
bisognava precipitare, bisognava aver ragguagli più esatti; forse erano
rumori sparsi ad arte; era impossibile che i compagni i quali si
trovavano a Venezia non mandassero qualche avviso, che un Governo
nazionale il quale per avventura si fosse stabilito colà non desse
notizia di sè. Il consiglio di chi voleva gl'indugi prevalse. E intanto
a Venezia si commetteva un primo, fatalissimo errore. Le lettere di
richiamo per la flotta erano affidate al capitano del vapore del Lloyd
che riconduceva il governatore Palffy, e quel capitano, o spontaneo, o
costretto, dirigendosi a Trieste anzichè a Pola, consegnava il dispaccio
alle Autorità austriache, le quali furono in tempo di prender le
disposizioni necessarie a scongiurare un avvenimento forse più grave per
la monarchia che la perdita d'una provincia. Rimaneva un partito. Alzare
audacemente il vessillo della rivolta, passar sotto i cannoni del porto,
aprirsi a ogni costo il varco per Venezia. Questo avevano suggerito, a
questo s'erano dichiarati pronti Gasparo Rialdi e pochi animosi suoi
pari. Ma molti indietreggiarono all'idea dell'aperta ribellione; si
sentivano legati dal giuramento, dall'onor militare; non osavano
intraprendere, contro la volontà espressa dei capi, ciò che avrebbero
osato quando i capi, colti dal panico, avevano smesso di comandare. A
forza di titubanze si lasciò passare il momento propizio e parve follia
il tentare quello che prima sarebbe stato agevole il compiere. Il Rialdi
e quattro o cinque amici partirono soli; gli altri, fremendo, morsero il
freno. Venezia non ebbe nel 1848 una flotta, e chi può dire che il non
averla avuta non abbia ritardato di dieci anni la redenzione d'Italia?
Comunque sia, quando il giovane ufficiale giunse in patria, ben pochi
s'erano accorti di aver perduta, senza combattere, una prima battaglia.
Il paese era nella luna di miele della libertà; i fatti interni e le
notizie dal di fuori mantenevano gli animi in uno stato d'ebbrezza
gioconda; le voci più strane, pur che conformi al desiderio, erano
accolte come verità incontestabili. I Milanesi, vincitori nelle loro
cinque eroiche giornate, avevano chiuso Radetzky in una gabbia di ferro;
Carlo Alberto era già col suo esercito sotto Verona, ove si trattava
della formalità della capitolazione; cinquantamila papalini, benedetti
da Pio IX, avevano passato il Po; dietro a loro venivano cinquantamila
napoletani, ch'eran soldati di quelli coi fiocchi, diceva la gente, come
se li avesse visti alla prova. S'affermava inoltre che non c'erano più
neanche due reggimenti austriaci in tutto il Lombardo-Veneto, locchè
rendeva alquanto difficile di capire con chi se la sarebbero presa i
formidabili eserciti che pullulavano da ogni parte, ma gli spacconi non
si confondevano per così poco. Quando una nuova, data per certa la
mattina, era smentita la sera--Bah!--si diceva stringendosi nelle
spalle.--Quello che non è vero oggi, sarà vero domani.--Che se alcuno si
permetteva esprimere un dubbio, gli si dava addosso come a uccello di
malaugurio.
Non che si trascurasse d'armarsi, che si esitasse a sottomettersi a
qualunque sacrifizio, oh no. Anzi la contraddizione era questa, che si
chiedevano e si accettavano lietamente i sacrifizi per una causa la
quale, a sentir le chiacchiere della piazza, pareva non doverne aver più
bisogno. Senonchè, alla gioia più legittima, agli entusiasmi più santi,
all'abnegazione più pura nuoceva un non so che di sguaiato e
melodrammatico nelle foggie, nel linguaggio, nelle consuetudini romorose
della vita cittadina. Gran bandiere, gran musiche, gran sciupìo di
versi, gran mostra di _crociati_ che parevan coristi, di _lions_ che
manifestavano i loro sentimenti vestendosi da tenori, gran sfoggio di
pennacchi nei cappelli, di colori sugli abiti.
A Gasparo Rialdi questo carnovale dispiacque; tuttavia egli tenne per sè
le proprie impressioni e non pensò che a mettersi agli ordini del
Governo. Offertogli di attendere all'armamento della flotta minuscola
rimasta dentro l'Arsenale, egli accettò subito l'incarico, deliberato
però ad arruolarsi più tardi nell'esercito di terra, se, com'egli
temeva, non c'era da far nulla sul mare. Naturalmente, durante il suo
soggiorno a Venezia, egli abitava presso la famiglia, da lui non più
riveduta dopo il disgraziato matrimonio della sorella.
Il 22 marzo aveva mutato di nuovo le relazioni reciproche dei coniugi
Rialdi che sembravano destinati a essere, l'uno verso l'altro, nella
condizione di due che si trovano sull'altalena.
Adesso la contessa Zanze era tornata in alto; il conte Luca era ricaduto
al basso. Egli conservava il suo posto di consigliere d'appello, ma la
moglie gli diceva sempre che se non lo avevano destituito era per un
riguardo a lei e a Gasparo. E si rifaceva delle umiliazioni sofferte
negli ultimi tempi:
--Non mi darete più della visionaria, spero? Chi aveva ragione di noi
due, eh?... Dove sono i vostri tedeschi?... Quanto pagherei a sapere
dove ha portato la sua pancia quel prepotente del Geisenburg! Ah se
avesse fermato me invece che voi, quel giorno in piazza San Marco,
avrebbe trovato pane per i suoi denti.... Ma voi, Dio ve lo perdoni,
siete un coniglio....
Il conte Luca, che ormai viveva in uno stato d'orgasmo continuo,
sbuffava ma non reagiva contro le tirate della moglie. Tutt'al più, in
un tuono che voleva esser di comando ed era invece di preghiera,
insisteva perchè tacesse:
--Che donna, santo Iddio! Non sapete star zitta un minuto. Se ne sono
andati i Tedeschi? E voi lasciateli in pace.
Era difficile confessarlo, ma il conte Luca aveva paura dei vecchi
padroni. I nuovi potevano fargli del male subito, i vecchi potevano
fargliene più tardi.... se tornavano. E il conte Luca, senza dirlo a
nessuno, senza dirlo ad alta voce nemmeno a sè stesso, non sapeva
persuadersi che non dovessero tornare. Intanto s'acconciava
all'inevitabile. Teneva anche lui la sua coccarda tricolore
all'occhiello, faceva di gran salamelecchi ai personaggi in carica, ed
era pieno d'indulgenza pegli impiegati subalterni che non andavano
all'ufficio con la scusa di dover montare la guardia.
Slanciata nella fiumana del patriottismo chiassoso, la contessa Zanze
era sempre in faccende e lasciava la cura delle cose domestiche a
Fortunata, la quale, poverina, non aspirava minimamente a mettersi in
mostra. S'occupava della casa, della bimba, faceva una scappata quasi
ogni giorno fino al palazzo Bollati per aver notizie di Leonardo, per
vederlo se era possibile, e la sera preparava filaccia per i feriti.
Gasparo che, venendo a Venezia, sapeva già di trovarla in famiglia, non
s'era presa l'ingenerosa soddisfazione di rammentarle le sue parole di
quattr'anni addietro, ma abbracciatala con benevolenza, le aveva chiesto
subito della piccina.
--Dorme.... vuoi vederla lo stesso?
--Perchè no?
Margherita riposava tranquillamente nella sua cuna, con uno dei suoi
braccetti nudi piegato sotto la testa, con una puppattola al fianco.
--Quella puppattola è il suo grande amore,--disse sorridendo
Fortunata;--la chiama Lilì e non se ne vuol staccar mai.
Margherita aveva allora tre anni ed era una bella bimba, quantunque
fosse lecito dubitare se sarebbe stata anche una bella donna, tanto più
che la contessa Zanze ripeteva sempre:--Fortunata era tal quale.
Fatto si è che ell'era bianca e rosea, aveva lineamenti regolari,
capelli biondi e finissimi, e nel viso un'espressione dolce, affettuosa
che rammentava l'espressione materna. Era forse l'unica somiglianza che
ci fosse tra madre e figliuola.
--È carina assai,--disse Gasparo.
--Non è vero?--soggiunse Fortunata tra orgogliosa e commossa.--È buona
come un angelo, docile, intelligente....--Poi sospirò a voce
bassa:--Povera creatura!
Gasparo, che non aveva staccato gli occhi dalla dormente, a
quell'esclamazione della sorella:--Povera creatura!--sentì qualche cosa
che rispondeva nel suo cuore. Povera creatura davvero! Con quel nome che
anni addietro sarebbe stato una forza e oggi era una debolezza, quasi
una colpa! Con quel padre di cui ella non avrebbe potuto ignorar sempre
le turpitudini! Povera creatura! Chi sa che sorte l'era destinata? Chi
avrebbe guidato i suoi passi sul sentiero della vita? Chi l'avrebbe
protetta contro la miseria, contro le tentazioni? Certo la madre sarebbe
stata pronta a darle il suo sangue, ma che valida difesa poteva esser la
misera Fortunata ch'era inetta a difender sè stessa, che forse era
ancora sotto il fascino dell'ignobile marito?
Di mano in mano che tali pensieri sorgevano nell'animo di Gasparo, egli
sentiva anche nascere dentro di sè una tenerezza singolare per questa
bambina, sentiva nascere un desiderio intenso di vigilare su lei, di
tutelarla contro l'insidie d'un mondo nel quale ella entrava sotto
auspicî sì tristi. Pur non disse nulla, e rivolgendosi a Fortunata che
piangeva in silenzio, si limitò a susurrarle:--Coraggio!
Il primo giorno Margherita stentò alquanto ad addomesticarsi con lo zio,
ma il dì appresso Gasparo, tornando dall'arsenale, si presentò alla
nipote con un involto misterioso sfidandola a indovinare ciò che vi
fosse contenuto. Margherita si fece rossa rossa in viso e, naturalmente,
non indovinò nulla.
Allora l'involto fu aperto e comparve una splendida bambola tutta nastri
tricolori, la cui vista strappò alla fanciulla un grido d'ammirazione.
--Oh!--disse Fortunata--lo zio t'ha portato una nuova _Lilì_!
Il nome rimase e la bambola battezzata per _la nuova Lilì_ strinse
Margherita d'un nodo indissolubile allo zio Gasparo. Ogni volta ch'egli
veniva a casa Margherita gli correva incontro festosa a mostrargli la
nuova _Lilì_, il cui abbigliamento andava illeggiadrendosi e
complicandosi sempre più per le ingegnose aggiunte che vi faceva
Fortunata. Gasparo, prima ancora di spogliarsi della sua divisa e di
depor la sua sciabola, prendeva in collo la nipote e la copriva di
carezze e di baci, ma la nipote non era contenta s'egli non dava qualche
bacio e qualche carezza anche alla bambola, sua indivisibile compagna.
Intanto la vecchia _Lilì_, dimenticata in un angolo, con la veste
sdruscita, una gamba rotta, i fianchi squarciati e la stoppa che le
usciva dalla pancia, esperimentava duramente l'ingratitudine umana.
Eran circa due settimane dacchè Gasparo si trovava a Venezia quando
Fortunata si fece animo a iniziar con lui un discorso scabroso che le
stava da un pezzo sulla punta della lingua e ch'ella non sapeva mai
risolversi a cominciare.
--Gasparo--ella balbettò una sera dopo aver messo a letto la bimba--non
t'ho ancora parlato di....
--Di che cosa?--interruppe il giovane aggrottando le ciglia.
--Non turbarti, non guardarmi in quel modo--esclamò Fortunata.--Mezz'ora
fa eri così gaio, così sorridente con Margherita.... Io sentivo svanir
la gran soggezione che ho di te....
--Soggezione! Soggezione!--brontolò Gasparo.--Perchè devi averne?
--Ho torto, lo so.... Sei tanto buono.... Fosti sempre tanto buono....
Ma che vuoi? Sono una femminetta senza spirito.... Basta un nulla a
confondermi.
--Via--soggiunse Gasparo raddolcendo la voce.--Di che cosa vuoi
parlarmi?
--Di... di Leonardo--disse Fortunata tutta tremante.
--Me l'aspettavo.... Ebbene?... Non hai dovuto riconoscer tu stessa che
t'era impossibile viver con lui?.... E quand'egli ha stancato una
pazienza come la tua!...
--No, Gasparo... forse non ne ebbi abbastanza... o almeno... non ebbi
tatto... non so far niente io... che disgrazia! che disgrazia!
--Povera vittima!--esclamò l'ufficiale un po' irritato, un po'
commosso.--Dovresti anche prendertela con te stessa! Quel miserabile che
t'ha sedotta non per amore, ma per capriccio, che t'ha sposata non sotto
l'impulso del dovere, ma sotto quello della paura, quel miserabile che
non ha cuore nè per sua moglie, nè per sua figlia, che s'è mangiato
tutto il suo, che è precipitato ruzzoloni di vizio in vizio, d'ignominia
in ignominia, quel miserabile merita proprio che tu t'accusi per lui!
--È vero... egli ha le sue colpe... ha molte colpe... non lo difendo,
no... ma è anche molto da compiangere... e se io potessi....
--Sicuro, se tu potessi dargli dell'altro danaro da scialar come prima
fra le ballerine e le femmine da partito, tu saresti contenta come una
Pasqua?
--Gasparo, non è questo.... Io vorrei aiutarlo a togliersi da quell'ozio
che è la sua rovina... vorrei aiutarlo a trovarsi una occupazione....
--Un'occupazione? Lui? Lo credi uomo da occuparsi d'altro che... di
quello di cui s'è occupato finora?
--Forse sì.... Mi pare che ne senta anch'egli la necessità....
--Che ne sai tu?
--Lo vedo talvolta... oh, avrei forse dovuto piantarlo affatto, solo,
infelice com'è?... Lo vedo, l'ho visto ieri... era tranquillo,
ragionevole.... «Che vuoi ch'io faccia?» mi disse. E soggiunse... ma non
arrabbiarti... stammi a sentire con calma.
--Continua, in nome di Dio.... Son calmo, mi pare.
--Soggiunse: «Adesso c'è qui tuo fratello che ha un posto importante,
che è pieno di aderenze....»
Gasparo non la lasciò finire.
--E avrei da servirmene per dare un impiego a lui, a lui che non è atto
a far nulla, che non merita nulla?... Tronchiamo questo discorso.... O
piuttosto--egli ripigliò--ma come non ci ha pensato lui subito?...
piuttosto digli che c'è un modo per levarsi dall'abbiezione, un modo
facile, sicuro, che può restituirgli la stima dei galantuomini....
--Quale? Quale?
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