Dal primo piano alla soffitta - 06

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forte la prova che pareva esserle serbata dal Signore. In complesso la
torpida contessa Zanze aveva l'aria di voler rassegnarsi presto, e S. E.
Zaccaria era in molto maggiori angustie di lei. Nessuno però soffriva
quanto Fortunata, che passava le notti senza chiuder occhio, piangendo a
calde lagrime e pregando i Santi e la Madonna per la salvezza di suo
cugino. Se almeno le avessero permesso di rendersi utile, se le avessero
permesso di aiutar sua madre nei suoi uffici d'infermiera! Ma non c'era
caso; non la lasciavano nemmeno entrare in camera; le dicevano ch'ella
non avrebbe fatto che confusione. Solo qualche volta, mentre aprivano
l'uscio adagio adagio, ella, che era venuta in punta di piedi
nell'andito, s'affacciava allo spiraglio, e nella penombra della stanza,
in fondo all'alcova, vedeva un viso affilato, due occhi smorti, due mani
lunghe e scarne che giacevano immobili sulla coperta del letto. Povero
Leonardo! Com'era ridotto! Non lo si riconosceva quasi più.
Alla fine i medici dichiararono che l'ammalato era fuori di pericolo, ma
che la convalescenza sarebbe stata assai lunga, perchè ogni strapazzo
avrebbe potuto produrre una ricaduta fatale. Essi soggiunsero altresì
che se il contino ci teneva a campar molti anni, egli doveva menar una
vita più regolata. Ed egli che aveva avuto quel po' di battisoffia che
sappiamo, promise tutto ciò che gli si domandava.
Appena Leonardo fu in istato di veder qualcheduno, Fortunata impetrò la
grazia di dargli un saluto; poi le visite di lei divennero più lunghe e
più frequenti, e allorchè egli principiò ad alzarsi, ella fu ammessa a
tenergli compagnia per un paio d'ore al giorno.
Quasi tutti quelli che escono da una grande malattia si sentono come
attratti verso il loro passato, verso le persone, verso gli affetti
della prima giovinezza. Così l'albero investito dal turbine sente le sue
radici. Il contino Leonardo, nel riaffacciarsi ora alla vita, rivedeva
con maggior simpatia dell'usato la compagna de' suoi giochi infantili, e
l'accoglieva con una espansione a cui ella non era più avvezza e che le
empiva l'anima di giubilo. Ella diceva a sè stessa ch'ella aveva avuto
ben ragione a difenderlo, poveretto! quando gli altri lo accusavano.
Covava il suo male, ecco la ragione de' suoi modi aspri, de' suoi
stravizzi, di tutto. E poi c'eran stati i falsi amici che lo avevano
traviato, que' falsi amici ai quali il portone del palazzo Bollati era
ormai chiuso per sempre, e che Leonardo aveva giurato di non guardare
più in faccia. Adesso che stava bene, adesso che nessuno gli dava
cattivi consigli, egli era un altr'uomo. Ah! che trionfo sarebbe stato
per Fortunata il poter dire a suo fratello Gasparo:--Vedi chi di noi due
s'ingannava!--Perchè quel suo fratello era così ostinato! Le poche volte
ch'egli le scriveva una riga trovava sempre la maniera di far qualche
allusione spiacevole al cugino Bollati. Non s'era commosso neppure alla
notizia della malattia. «Desidero che Leonardo guarisca--egli aveva
scritto sdegnosamente ai suoi genitori--perchè non si deve augurar male
a nessuno, ma in fin dei conti la sua morte non sarebbe una disgrazia nè
per la famiglia, nè per Venezia, nè per l'Italia.»
--L'Italia! Che cosa c'entra l'Italia?--brontolava il conte Luca.
Se c'entrasse l'Italia è assai dubbio, ma secondo la rispettabile
opinione del nobile Piero Canziani, c'entrava nientemeno che l'umanità.
Infatti la guarigione del contino Leonardo ispirò la Musa dell'insigne
poeta, e gli dettò un lunghissimo ditirambo, che S. E. Chiaretta,
avvertita che non era un _sonetto_, chiamò _un verso_. Ora il
componimento del nobile vate esordiva così:
Sorgi, o contrita umanità. Dal coro
Sgombra il vano terrore;
Questo figlio d'eroi vive e non muore.
Concetto peregrino che don Luigi però trovava preferibile al manzoniano
I fratelli hanno ucciso i fratelli.
--Non c'è giovane di negozio--osservava don Luigi con aria di
sprezzo--che non sappia dire una roba simile.
Anch'egli, l'ex precettore del contino Leonardo, si credette in dovere
di pubblicare qualche cosa per la ricuperata salute del suo allievo e
stampò con una prefazioncella di circostanza una sua memoria letta
all'Ateneo col titolo: _Alcuni pensieri sul migliore uso della
congiunzione separativa O_. Non era che il frammento d'un'opera
linguistica di gran mole alla quale don Luigi attendeva da un pezzo in
silenzio, e che, quando fosse venuta alla luce, avrebbe polverizzato
certe riputazioni!...
Del resto, in questa fausta occasione, la casa Bollati riebbe per un
momento tutto l'antico splendore, e il giorno in cui Leonardo sentì la
messa nella cappellina domestica il signor Oreste, aiutato da tre
sottocuochi, dovette allestire un pranzo per cinquanta persone. E tale
fu l'abbondanza dei cibi e dei vini che i rilievi della mensa bastarono
non solo a riempire l'epa dei servi e delle famiglie dei servi, ma
consentirono anche al signor Oreste di stipulare alcuni contratti
vantaggiosi con tre o quattro _restaurants_ di second'ordine.
Inoltre, sempre per festeggiare il lietissimo avvenimento, il conte
Zaccaria elargì somme cospicue ai poveri della parrocchia, alla
Commissione di pubblica beneficenza, agli Asili d'infanzia, alla Casa
degli esposti e ad altri istituti pii. E per più giorni la _Gazzetta
privilegiata di Venezia_ ebbe da registrare con parole di sentito
encomio gli atti munifici di S. E. il conte Zaccaria Bollati, degno
erede di un nome illustre. Il conte Zaccaria si fregava le mani
sentenziando:--I Bollati sono sempre i Bollati.--Alla quale affermazione
_sior_ Bortolo sorrideva, ma meno seraficamente di una volta.
Quando il contino Leonardo cominciò ad uscir di camera era circa la metà
di aprile; i medici però gli prescrissero di rimanere in casa ancora un
mesetto; a primavera avanzata sarebbe andato a ritemprarsi in campagna,
ove non c'era più da temere della Rosa, maritata e fuori di paese. Forse
tali disposizioni non erano tutte suggerite da motivi igienici; forse
differendo a rendergli la libertà si sperava distoglierlo affatto delle
vecchie abitudini e dalle vecchie conoscenze. E invero sotto
l'impressione di sgomento lasciatagli dalla sua malattia, egli non
mostrava alcun desiderio di rivedere i suoi compagni di libertinaggio.
Questi dal canto loro non gli avevan dato prove di sviscerato affetto.
Appena due o tre eran comparsi a grandi intervalli al portone del
palazzo a domandar sue notizie; poi non s'eran più fatti vivi. E siccome
d'altra parte egli non aveva stretto amicizia con nessun giovane per
bene e nessuno quindi veniva a fargli visita, la sua lunga convalescenza
gli sarebbe stata noiosissima se Fortunata non fosse rimasta quasi
sempre con lui, pronta ad ogni suo cenno, docile, amorosa come negli
anni dell'infanzia. Povera Fortunata! Ella si sentiva tanto felice nel
poter essere qualche cosa per Leonardo, nel poter scemargli l'uggia di
quell'eterne giornate. Si sentiva tanto felice che avrebbe voluto che la
vita le corresse sempre a quel modo, e poichè lo sperarlo era follia,
invocava dal cielo il favore supremo d'addormentarsi in quel sogno e di
non riaprire gli occhi mai più.
Intanto Leonardo, sia che notasse davvero nella cugina qualche pregio
fisico non avvertito per l'addietro, sia che il non trovarsi in mezzo
alle crestaie e alle ballerine, oggetto ordinario dei suoi pensieri, lo
rendesse di men difficile contentatura, sia infine che col tornar della
salute e delle forze si risvegliassero in lui i bollori del sangue,
considerava con più attenzione e sotto un aspetto diverso dal solito
questa giovinetta dal viso slavato e dal corpicino esile, la quale sino
allora, diciamolo schietto, non gli era neanche parsa una donna. Di che
natura poi fosse il nuovo sentimento sorto nell'animo suo ci vuol poco a
immaginarselo. Incapace di affetti gentili e profondi, non frenato da
scrupoli, insofferente d'altre catene che di quelle che s'annodano e
sciolgono in un giorno, egli intendeva l'amore in un'unica maniera... la
maniera del resto in cui la intendono i dissoluti di professione.
L'idea che Fortunata era una ragazza onesta non lo tratteneva, era anzi
uno stimolo di più, che gli pareva legittima curiosità il verificar co'
suoi occhi che differenza ci fosse tra una ragazza onesta e quelle che
non erano tali. Nè lo trattenevano i vincoli di parentela che lo
stringevano a lei, nè l'affezione sommessa ch'ella gli mostrava, nè la
gratitudine che, pur confusamente, egli riconosceva di doverle per
essere stata la sola a difenderlo quando tutti gli gridavano la croce
addosso. Bensì da queste varie ragioni sommate insieme gli veniva un
certo imbarazzo nel contegno, un certo fare da collegiale che, a sua
insaputa, gli giovava invece di nuocergli. Perchè s'egli fosse stato
sguaiato, brutale, ella avrebbe sentito svegliarsi in tempo la piena
coscienza del pericolo, avrebbe forse saputo difendersi. Ma egli era
così cauto, così riguardoso; il turbamento ch'ella provava vicino a lui
era misto di tanta dolcezza! Non che talvolta non l'assalisse una vana
inquietudine. Se Leonardo la guardava fisso, se la mano di lei toccava
la sua, se i loro gomiti, se le loro ginocchia s'urtavano, ell'arrossiva
fino alla punta dei capelli e con un rapido movimento volgeva altrove la
faccia o ritraeva la persona tutta tremante. Però non era salda
abbastanza ne' suoi propositi, e sembrava ricercar di lì a poco le
sensazioni ch'ella aveva prime sfuggite. Nessuno la proteggeva, nessuno
la consigliava. Sua madre era fuori di sè dalla gioia nel veder che
_quei due ragazzi_ se la intendevano, e tornando sempre con la mente al
sogno dorato del matrimonio, non si curava troppo dei rischi che
Fortunata correva. Ne aveva corsi anche lei dei rischi per diventar
contessa Rialdi, chè già, se le fanciulle senza dote non s'ingegnano,
guai. E se il conte Luca s'avventurava a dire:--Bisognerebbe badare di
più a Fortunata, mi spiego?--essa lo faceva tacere con un brusco:--State
zitto voi, e pensate al vostro ufficio e ai vostri scacchi.
In quanto al N. H. Zaccaria e alla sua illustrissima consorte, essi non
eran gente da scomodarsi per sì piccola cagione, e anzi la contessa
Chiaretta aveva detto a Leonardo e a Fortunata:--_Ohe tosi_, io non istò
mica a farvi la guardia; mettete pure a soqquadro la casa; a me basta
che non mi facciate il chiasso vicino.
I _tosi_ avevano ormai l'uno vent'anni passati, l'altra quasi diciotto,
e non era probabile che essi facessero un baccano così indiavolato. Ma
ci voleva tanto poco a eccitar i nervi della N. D. Chiaretta; e poi
ell'aveva tante gravi occupazioni. Aveva da apparecchiare la zuppa di
latte pel suo gatto Romeo, da prendere il caffè e i _baicoli_ col nobile
Canziani, da ascoltare i pettegolezzi della contessa Ficcanaso e delle
altre dame che venivano a visitarla, da giocare a _consina_ con don
Luigi, e da pisolare nella poltrona mentre lo stesso don Luigi le
recitava il breviario o le teneva ragionamenti spirituali. Tutto ciò
senza contar le visite che anche a lei toccava di fare. Come poteva
dunque restarle il tempo di custodir Leonardo o Fortunata?
Con quest'assoluta libertà lasciata a' due cugini, accadde quello ch'era
da prevedersi. Vi fu un giorno in cui Leonardo fu più audace e Fortunata
più debole.....


XI.

Come fosse andata la cosa, Fortunata stessa non sapeva dirlo. Leonardo
le aveva affascinato i sensi, paralizzato la volontà. E dopo la caduta,
oppressa dalla coscienza della sua vergogna, dilaniata dagli scrupoli e
dai rimorsi, ella si sentiva più inetta che mai a scuotere il giogo, a
sottrarsi all'abbiezione in cui era piombata. Che le valeva, ogni sera,
sola nella sua cameretta, piangere, pregare, scongiurare tutti i santi
del Paradiso che la soccorressero; i santi del Paradiso non avevano
orecchi per lei; e invece le immagini voluttuose venivano ben presto a
sconvolgerle la fantasia, veniva il ricordo di quei baci di fuoco, di
quelle parole ardenti, ed ella si voltava e rivoltava nel letto senza
trovar pace, e mordeva rabbiosamente le lenzuola e i guanciali invocando
e temendo a vicenda il sorger del sole. Chi sa che sorprese le
apparecchiava il nuovo giorno? Se la tresca si scoprisse, se la sua onta
diventasse pubblica, se ne giungesse la notizia fino a Gasparo? Come
affronterebbe ella lo sdegno del fratello, come difenderebbe dalla
collera di lui il suo amante? Eppure, per quanto spaventoso fosse questo
pensiero, ce n'era un altro che l'atterriva ancora di più. Era il
pensiero che Leonardo, nonostante i suoi giuramenti, non avesse per lei
che un passeggero capriccio e dovesse fra poco gettarla in un canto come
si fa d'un abito frusto. Dio, Dio, che sarebbe di lei allora? Dove
andrebbe a nascondersi? L'idea del chiostro, accarezzata in passato,
tornava a balenarle alla mente, e per brevi istanti l'animo inquieto vi
si riposava come in un porto sicuro dalle tempeste. Ma il cuore non
tardava a dirle che anche questa era un'illusione, e che non c'è porto
ove ripararsi dalle tempeste che ruggono dentro di noi. E come potrebbe
ella alzar gli sguardi al cielo finchè un amore profano la teneva
incatenata alla terra? E quell'amore come sperar di sradicarlo s'esso
era parte dell'esser suo, s'ella gli aveva sacrificato ogni cosa più
cara? Oh quanto bene ella voleva a Leonardo, quanto gliene aveva sempre
voluto!... C'era della gente che sparlava di lui, che lo accusava di
mille vizi, che fingeva di disprezzarlo;... ella lo trovava bello, lo
trovava buono, ella si sforzava di attribuirgli tutti i pregi possibili.
Divenir sua moglie sarebbe stato per essa il colmo della felicità. Ma la
fortuna non l'aveva guastata con troppi favori, ed ella non osava
cullarsi in questa dolce speranza. Egli, che poteva aspirare ad una
principessa, avrebbe sposato lei!... Le bastava morire prima ch'egli
sposasse un'altra, prima ch'egli amasse un'altra....
Così, senz'accorgersene, ell'accettava il suo disonore, accettava tutto
piuttosto che l'abbandono. E quando s'alzava dal letto dopo una notte
insonne e angosciosa, ella contava l'ore e i minuti che la dividevano
dal momento in cui il gondoliere di Ca' Bollati sarebbe venuto a
prenderla per ordine della _lustrissima_ e l'avrebbe accompagnata a
palazzo. E come le batteva il cuore, allorchè, nel far lo scalone,
sentiva i passi di Leonardo che, aspettandola, misurava in lungo e in
largo la sala!
--Sia ringraziato il cielo--diceva la contessa Chiaretta.--Se Leonardo
non ha compagnia non istà mai tranquillo.... Andate a giocare a dominò,
ragazzi.... O fate pure quel che volete, purchè io non senta rumore.
Da figliuolo ubbidiente, Leonardo si tirava dietro Fortunata in un altro
angolo della casa, in quello stanzone degli armadi ove i due cugini
s'erano da bimbi trastullati insieme e da cui si poteva, volendo, salire
in un'ampia terrazza. Non mancavano buoni pretesti per andar colà. Prima
di tutto il luogo era opportunissimo per isgranchir le gambe e per
prendere una boccata d'aria libera; poi ci si trovavano parecchi vasi e
cassette di fiori pei quali Leonardo s'era acceso d'una subitanea
passione e ch'egli rimondava con gran cura dell'erbaccie, e inaffiava
ogni giorno.
I desiderii della contessa madre erano esauditi appieno. Checchè
avvenisse lassù, ella non sentiva romore.
Ma la baffuta _siora_ Placida, la cameriera anziana, che teneva le
chiavi della biancheria e considerava lo stanzone come suo speciale
dominio, durava fatica a persuadersi che il padroncino e Fortunata
impiegassero tanto tempo nella fioricultura, e aveva tentato più d'una
volta di scoprire quali fossero le loro occupazioni. A dir vero, a
malgrado del suo diligente spionaggio, essa non aveva scoperto nulla di
positivo perchè lo stanzone era chiuso da un uscio assai grosso e
pesante di cui non si sarebbe potuto spingere uno dei battenti senza un
molesto cigolìo che avrebbe tradito l'esploratore indiscreto. Pure, dei
pochi indizi ch'essa aveva raccolto, la onoranda matrona aveva data la
partecipazione confidenziale al cameriere Stefano, suo favorito. Stefano
aveva ripetuto la notizia alla lavapiatti, una massiccia montanara del
Bellunese, con la quale, di nascosto della _siora_ Placida, egli era in
ottimi termini, e colei ne aveva parlato in segreto a uno dei barcaiuoli
che godeva di qualche sua preferenza furtiva. In breve la cosa passò per
tutte le bocche, e in cucina si discusse gravemente se si doveva o no
metter sull'avviso Sua Eccellenza Zaccaria e Sua Eccellenza Chiaretta.
Il signor Oreste, il cuoco, stava pel sì, e sosteneva che la era tutta
una cabala ordita dalla contessa Zanze Rialdi, la quale voleva
costringere il _lustrissimo_ Leonardo a sposare la sua figliuola, e
intanto gliela gettava in braccio per metterlo fra l'uscio e il muro.
Ora pareva a lui che fosse necessario di sventar la trama, perchè,
sebbene non ci fosse nulla da dire contro la ragazza, quello non era un
partito adattato pel padroncino, e da sì misere nozze la servitù non
poteva sperare nè mancie, nè regali convenienti. E poi non c'era una
ragione al mondo di favorir gl'intrighi della contessa Zanze, che al
capo d'anno non dava un centesimo a nessuno.
Argomenti di gran peso che rendevano testimonianza della sagacità del
signor Oreste e che avrebbero dovuto trionfare, ma il cuoco aveva la
disgrazia d'essere antipatico a' suoi compagni, e accadeva assai di rado
che i suoi consigli fossero accolti.
Prevalse dunque l'opinione contraria, difesa con molto vigore dal
cameriere Stefano, il quale diceva che i pericoli del matrimonio non
c'erano se non che nella fantasia del signor Oreste, e che in quanto al
rimanente a questo mondo bisogna vivere e lasciar vivere, nè occorre
scandalizzarsi di accidenti che nascono dappertutto. La _siora_ Placida
poteva certificare se quelli eran fatti nuovi in casa Bollati.
E la cameriera, quantunque le seccasse esser chiamata a testimonio di
cose passate, era costretta nella sua lealtà a riconoscere che, per quel
che dicevano i vecchi, nella nobile famiglia uomini e donne eran sempre
stati di manica larga e non c'era che la _lustrissima_ Chiaretta la
quale, avendo acqua nelle vene invece che sangue, non desse a discorrer
di sè.... Beninteso ch'ella, la _siora_ Placida, non avrebbe messo le
mani nel fuoco nemmeno per la padrona, e non avrebbe voluto giurare che
fra Sua Eccellenza e il nobile Piero Canziani, per esempio, non avessero
mai fatto altro che sorseggiare il caffè e sgretolare i _baicoli_.
Comunque sia, il primo risultato di queste chiacchiere si fu che, quando
Leonardo e Fortunata scendevano dallo stanzone degli armadi, eran sicuri
di trovarsi fra i piedi qualcheduno della servitù che con curiosità mal
dissimulata li squadrava dalla testa alle piante per far poi in cucina
quelle chiose che si possono immaginare.
Leonardo, il quale in certe faccende aveva buon naso, indovinò che
c'erano in aria dei sospetti, e colse il pretesto per troncare gli
abboccamenti segreti nello stanzone, tanto più che ormai si era levato
il capriccio e Fortunata cominciava a venirgli a noia. Inoltre
s'avvicinava il momento in cui egli sarebbe uscito di casa, e allora
avrebbe avuto ben altro pel capo che la cugina. Meglio dunque allentare
il nodo a poco a poco.
La povera ragazza, dopo aver con sì calde lagrime chiesto al Signore di
allontanarla dal peccato, adesso che il peccato s'allontanava da lei
ebbe un risveglio tremendo. Ella capì che stava per succedere il peggio,
capì che Leonardo l'abbandonava. E resa ardita dalla disperazione,
volle a ogni costo ch'egli le accordasse un colloquio da solo a sola, e
nel suo amore e nel suo dolore trovò accenti così caldi ed appassionati,
quali non si sarebbero attesi dal suo labbro ordinariamente timido e
peritoso. Egli, più infastidito che commosso, cercò in principio di
calmarla con buone parole; poi, com'ella non se ne mostrava paga,
perdette la pazienza, e si lasciò andare al suo linguaggio cinico e
sboccato. In fin dei conti, che pretendeva ella da lui? Che la sposasse?
Ma già egli non si sognava nemmeno di prender moglie. O credeva forse
che la loro relazione potesse durare eterna? Non doveva anzi essergli
grata della prudenza con cui egli s'era condotto? Se la cosa tirava in
lungo altri due o tre giorni, c'era da scommettere che sarebbe nato uno
scandalo; invece, per merito suo, nessuno direbbe nulla, perchè nessuno
sapeva nulla di positivo, ed ella non iscapiterebbe affatto nella
riputazione. E ancora si lagnava?
Ella rimase fulminata. Era dunque finito tutto? Noi lo sappiamo, il
presentimento che tutto potesse finire in questo modo le aveva già
angustiato lo spirito, ma non era mai riuscito ad annidarvisi per un
pezzo; chè ogni lieve segno d'affetto da parte di Leonardo era bastato a
rianimare le sue illusioni. Adesso però, dopo le parole dure, recise,
sprezzanti che le echeggiavano sinistramente all'orecchio, non c'era più
illusione possibile, non c'era più spiraglio di luce che rompesse le
tenebre ond'ella era cinta. E si sentiva sola, derelitta nel mondo. I
suoi genitori? Ma suo padre pur troppo era un fantoccio, e sua madre
perchè non l'aveva vigilata, perchè non l'aveva avvertita? Un lampo
tremendo le attraversò la mente. Se sua madre, che fin dall'infanzia le
aveva inculcato la riverenza ai parenti Bollati, la devozione al cugino,
se sua madre avesse voluto lei stessa apparecchiar la catastrofe nella
speranza di forzare Leonardo al matrimonio? Ed ella si sarebbe fatta
complice di questa ignominia? Che orrore, che orrore! Ah! Gasparo era
stato buon profeta! Un momento le venne il pensiero di scrivergli. Ma
che cosa gli avrebbe scritto? Ch'ella s'era prostituita, ch'ella s'era
disonorata? E che cosa gli avrebbe chiesto? Di vendicarla? No, no, mille
volte no, ella non voleva che si torcesse un capello a Leonardo. Forse
egli era meno colpevole di quel che essa credeva, forse con le donne
(povere donne!) si fa sempre così; tocca a loro a difendersi. Ah senza
dubbio la vera colpevole era lei che s'era lasciata acciecare,
inebbriare dalla febbre dei sensi, che aveva dimenticato la sua fede.
Come le rimordeva la sua coscienza di cattolica! Con che paura
superstiziosa pensava ai suoi doveri religiosi trascurati, alle sue
distrazioni in chiesa, ai desiderii immodesti, alle immagini profane che
avevano turbato il suo raccoglimento e le sue preghiere! Ella si
domandava tremante se ci sarebbe stata penitenza adeguata al suo fallo.
E di nuovo una voce intima le additava come suprema áncora di salvezza
il convento, seppur c'era un convento che volesse accoglierla.
Sotto l'impero di questa idea, il giorno stesso del fatale colloquio,
ella corse in traccia d'un sacerdote suo conoscente, e inginocchiata nel
confessionale gli rivelò la sua passione infelice e il fermo proposito
di espiare i suoi errori con una vita d'orazioni, d'astinenze, di
sacrifici. Che le dicesse il prete noi non sappiamo; certo si è ch'ella
uscì dal tempio più invasata che mai dall'ascetismo e più che mai decisa
a prendere il velo. La contessa Zanze, che aveva già notato quella
mattina il pallore e l'abbattimento di Fortunata, notò ora lo stato
d'esaltazione in cui ella si trovava e l'assoggettò a un interrogatorio
in piena regola. La ragazza avrebbe voluto ritardare questa nuova
confessione, ma non potè schermirsi dall'insistenza materna. Stremata di
forze, ella fu côlta da un pianto isterico, irrefrenabile, e in mezzo ai
singhiozzi ripetè ancora una volta la dolente istoria del suo amore e
della sua vergogna. Quella storia sorgeva accusatrice terribile contro
la madre, e la contessa Zanze, quantunque certe cose le capisse poco,
non si sentiva la coscienza affatto tranquilla. Nondimeno, perchè
ell'era seguace della dottrina che il fine giustifica i mezzi, se la
caduta di Fortunata doveva darle un'arma per venire a capo de' suoi
disegni, ell'era prontissima ad assolversi d'ogni colpa. Sì, sì, ella
non aveva difficoltà a riconoscerlo, la faccenda poteva esser condotta
meglio e sopratutto sarebbe stato necessario di badare che Fortunata
conservasse il suo sangue freddo e che la bussola la perdesse Leonardo.
Invece era successo precisamente l'opposto. Fatalità! A tale proposito
la signora Zanze ricordava con segreto orgoglio l'arte finissima da lei
adoperata a' suoi tempi col conte Luca Rialdi in condizioni analoghe a
quelle della figliuola. Prima aveva invischiato ben bene il merlo; poi
non aveva avuto più tanti scrupoli, chè già non è un delitto il mangiar
il proprio grano in erba. Del resto, ora l'essenziale era di non
smarrirsi d'animo e guai se Fortunata abbandonava la partita. Perciò,
quando la ragazza tirò in campo l'argomento del chiostro, la contessa,
che fino a quel punto l'aveva ascoltata con simpatia fingendo di non
accorgersi dei rimproveri indiretti che c'erano nelle parole di lei,
mutò tenore ad un tratto, e non frenandosi più dichiarò che questi eran
discorsi da bambina e che il chiostro non accomodava nulla, e che una
sola cosa poteva salvar l'onore della famiglia, il matrimonio. Ma
Fortunata, la timida Fortunata, insistette dicendo che già il matrimonio
era impossibile, e che a ogni modo ell'era ormai risoluta a fuggire dal
mondo e a non consacrarsi ad altri che a Dio.... Era risoluta, avevano
capito? La lasciassero stare, se non desideravano la sua morte.
Ne seguì una scena violenta, nel mezzo della quale la giovane cadde in
deliquio.
Assistita subito dalla madre, ella non istette molto a rinvenire; ma si
lagnava d'una grande spossatezza, d'un malessere generale ch'ella non
sapeva spiegarsi.
Un dubbio improvviso sorse nell'animo della contessa Zanze; tuttavia
ella tenne per sè le sue impressioni, e ripigliando verso la figliuola
un tuono affettuoso e sollecito, raccomandò a Fortunata di esser calma,
di non pensare a malinconie, di persuadersi che nessuno in famiglia
voleva tiranneggiarla.
Rinfrancata alquanto da queste parole, la ragazza baciò e ribaciò la
genitrice, e chiestole perdono del suo linguaggio eccessivo di poco fa,
consentì a mettersi a letto.
Il conte Luca, tornando quel giorno dall'ufficio con la testa piena d'un
finale di scacchi ch'egli aveva studiato sulla carta, trovò la moglie in
cima alla scala e fu condotto da lei con gran mistero in un salottino
appartato.
--Che cosa c'è? Che cos'è successo?--chiese il pover'uomo che non
capiva.
--Zitto!--disse la contessa.--Non facciamoci sentire dalla gente di
servizio.
La gente di servizio, fra parentesi, si riduceva a una fantesca un po'
sorda. Ma la contessa Zanze amava le amplificazioni.
--Insomma?--ripigliò il conte abbassando la voce.
E allora la consorte gli spifferò tutto quello che ella sapeva e tutto
quello che l'indisposizione di Fortunata le faceva supporre.
Il nobile Rialdi era d'indole mansueta, ma in certi casi non c'è
mansuetudine che tenga; bisogna parlare o scoppiare.
--Questa tegola mi casca sul capo!--esclamò il conte Luca, girando come
un forsennato su e giù per la stanza.--Mi spiego?... Non l'avevo detto
io che l'andava a finir male?... Ma volete sempre fare a vostro modo,
voi....
--Eh non mi seccate--interruppe la contessa Zanze.--Piuttosto andate a
chiamare il medico, giacchè mi occorre saper precisamente in che acque
si navighi.
Il conte Luca ubbidì, e il dottore, interrogata con molta discrezione la
ragazza, uscì dalla camera coi genitori e disse loro che le supposizioni
della signora contessa avevano proprio côlto nel segno.
--Povero me, povero me!--gemette il conte Luca, cacciandosi le mani nei
pochi capelli che gli rimanevano.--Poteva toccarmi di peggio?
La contessa moglie gli diede sulla voce.--Ci vuol altro che queste
smorfie! Adesso si vedrà se siete un uomo o un _pampano_.
La qual cosa si doveva vedere, ma non si vide, perchè la contessa Zanze,
secondo il suo solito, prese la direzione della faccenda e al marito
lasciò l'ufficio, meno arduo e delicato, di tener compagnia alla
figliuola.


XII.

L'annunzio del grave avvenimento fu come lo scoppio d'una bomba in casa
Bollati. Di così grosse Leonardo non ne aveva fatte mai, nè aveva mai
recato un impiccio simile alla famiglia, neppure quella volta dello
scandalo in giardino. Come immaginarsi che quel ragazzo si
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