Dal primo piano alla soffitta - 05

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Pur non si vide nessuno e poteva esser benissimo un'illusione dei sensi.
Ma il momento buono era passato, e il timore d'essere scoperta ridonò
alla Rosetta il suo sangue freddo. Anche Leonardo divenne subito più
circospetto. Egli non aveva un'anima di leone, e non avrebbe voluto
tirarsi addosso la collera di Beppe Gualdi, ch'era uomo capace di non
guardare in faccia nemmeno a un'Eccellenza. Ottener la vittoria
senz'affrontare il pericolo, ecco il magnanimo ideale del nostro
valoroso contino.
Così Leonardo e la Rosetta si separarono di lì a poco non senza
promettersi che si sarebbero riveduti.
E si rividero in fatti più volte, ma sempre con infinite cautele e
sempre per brevissimi istanti. Però questa intimità avrebbe dato i suoi
frutti alla prima occasione propizia. Del resto, Beppe Gualdi non si
lasciò scappar con la Rosetta una parola che accennasse a qualche suo
sospetto, nè la Filomena fece a Leonardo alcuna scena di gelosia. Ne
venne una sicurezza fallace che doveva portar tristi effetti. Perchè i
due giovani che credevano aver delusa la vigilanza altrui erano invece
spiati a ogni passo. Il loro incontro presso al campo di frumentone
aveva avuto per testimonio un monello di dodic'anni, fratello della
Filomena, il quale raccoglieva alcune pannocchie cadute, e dileguandosi
non visto era corso subito ad avvertir sua sorella che la Rosetta s'era
lasciata dare un bacio dal _signorino_. La Filomena scattò come una
molla, e voleva fare uno scandalo, ma, riflettendoci meglio, pensò di
consultarsi con Beppe Gualdi, il quale non era uomo da sopportare in
pace una canzonatura di questa specie. Sulle prime Beppe fece alla
Filomena l'accoglienza che gl'innamorati fanno sempre a chi accusa
dinanzi a loro la persona a cui vogliono bene; poi, calmatosi alquanto,
le ordinò severamente di tacere e di lasciare a lui la briga di chiarir
quest'imbroglio. Guai a lei se si tradiva col contino Leonardo, guai. In
tal modo ella dissimulò per paura, egli dissimulò per calcolo e
provvide in maniera da esser informato per filo e per segno di tutto ciò
che Leonardo e la Rosetta facevano e architettavano. Egli godeva d'un
certo credito fra i terrazzani, era largo nello spendere, e gli era
facile trovar gente disposta a rendergli servizio. E poi, pare
impossibile, i servizi che la gente rende più volentieri son quelli coi
quali, giovando a qualcheduno, si può nuocere a qualchedun altro.
Insomma Beppe non tardò ad acquistare la certezza che la ragazza lo
ingannava, e vi fu anche chi gli riferì queste precise parole dette
dalla Rosa al contino per schermirsi da un abboccamento più intimo del
solito ch'egli le chiedeva con insistenza:--«Come devo fare se ho sempre
quel seccatore fra i piedi?»--Il seccatore era lui, Beppe Gualdi. Ah!
bisognava finirla e costringer quei due sfacciati a levarsi la maschera;
bisognava sorprenderli insieme in un luogo, in un'ora che non desse loro
mezzo di scampo. Perciò Beppe finse di dover andare a Padova per un
affare di suo padre, e disse alla Rosetta che sarebbe tornato soltanto
di lì a tre o quattro giorni. E s'assentò realmente, ma invece di andare
a Padova, si ridusse nella campagna d'un suo compare, poche miglia
distante, ad aspettarvi le notizie che gli sarebbero state date dagli
amici zelanti. Quelle notizie non si fecero attendere un pezzo. La sera
del giorno seguente a quello in cui Beppe era partito, Leonardo e la
Rosetta dovevano trovarsi nel chiosco chinese della villa Bollati, un
chiosco che non s'apriva mai e del quale il contino si era fatto dar la
chiave dal giardiniere. Secondo tutti gl'indizi, la Rosetta s'era
lasciata tentare dalla speranza d'un bel regalo. Ell'aveva avuto
l'imprudenza di dire alla figlia del maniscalco che le mostrava un
anellino di smalto regalatole dal fidanzato:--Oh lo smalto ci vuol poco
ad averlo.... Ma son poche quelle che possono avere i brillanti.--Sta a
vedere che tu ne hai--rimbeccò l'altra ironicamente. La Rosetta non
rispose, ma guardò la sua amica con una tale aria di commiserazione da
far intendere che l'averne dipendeva da lei.
Gli amici diedero a Beppe tutti questi particolari con maligna
compiacenza, ma quand'egli, il cui amore s'era convertito in odio, li
invitò ad aiutarlo per somministrare una buona lezione a quel libertino
del conte Leonardo, sorsero mille scrupoli e mille dubbi. Non c'era
ragione di mettersi in lotta coi Bollati; i signori, si sa, hanno per
loro la polizia, e gli stracci vanno sempre all'aria. Che Beppe
piantasse la Rosetta era troppo giusto, ma in quanto al contino era
meglio non occuparsene.
Però questi consigli non ebbero presa sull'animo risoluto del giovane. E
poichè nessuno volle venire con lui, egli solo, poco prima dell'ora
fissata pel ritrovo dei due amanti, s'introdusse per una siepe nella
villa Bollati, e si appiattò in una macchia di lauri a pochi passi dal
chiosco. Il contino Leonardo non istette molto a comparire, aperse con
la chiave la porticina del chiosco, accese un lanternino che spargeva
intorno una luce fioca, e poi si fermò sulla soglia ad aspettare. Di lì
a dieci minuti s'intese un suono di passi affrettati e leggeri, una voce
sommessa (la voce di Leonardo) disse:--_Avanti_;--una figura di donna
avviluppata in uno scialle rasentò la macchia di lauri ove Beppe s'era
appiattato, ed entrò rapidamente nel chiosco. Egli la lasciò entrare,
resistendo alla tentazione di gettarsele addosso e di stritolarla, ma,
quando la porticina fu chiusa, egli, vi si precipitò contro con impeto,
ne scompaginò con un colpo vigoroso il debole assito e piombò come un
fulmine fra la Rosetta e il suo damo. Non aveva seco armi di nessuna
specie e nemmeno un bastone; ma con pugni e calci bene assestati mandò
il contino a ruzzolar nell'erba, mentre teneva stretta pei polsi la
Rosetta e la colmava d'ogni sorta di vituperi. Le grida acutissime di S.
E. Leonardo misero a soqquadro la villa. I servi uscirono coi lumi, i
cani da guardia latrarono a piena gola scuotendo furiosamente la catena,
la contessa Chiaretta che giocava a tresette dimenticò di accusare la
_napoletana_ di spade, S. E. Zaccaria si fermò nel bel mezzo d'una
spropositata dissertazione agricola col fattore, gli ospiti
tramortirono, e Fortunata, pallidissima, si trascinò fino alla portiera
a vetri che dava sul giardino; poi, mancandole le gambe, dovette
appoggiarsi a uno degli stipiti per non cadere.
Intanto Beppe Gualdi, pago di aver conciato il rivale pel dì delle
feste, era riuscito a ripassare la siepe prima che i suoi inseguitori lo
raggiungessero, mentre che il contino Leonardo, raccolto dai servi tutto
pesto e sanguinolento, era trasportato a casa e deposto sopra un canapè.
Per fortuna c'era lì presente il dottore, il quale dichiarò che non
c'erano lesioni pericolose e fece le prime medicature. Anche la Rosetta,
pazza di terrore, era stata ricoverata in cucina dalla servitù.
Leonardo, ch'era un vigliacco, piangeva e urlava come un bambino. Solo
di tratto in tratto egli interrompeva le sue lamentazioni per
gridare:--Bisogna denunziarlo alla Polizia quel cane, bisogna farlo
condannare a morte.--E nel dir così digrignava i denti e agitava le
braccia con piglio minaccioso.


IX.

Il contino Leonardo risanò presto e Beppe Gualdi non ebbe a soffrire che
pochi giorni di carcere per soprusi e violenze, condanna che scandalizzò
molto, per la sua mitezza, la signora Chiaretta.--Ecco a che punto siamo
ridotti,--ella sospirava con don Luigi.--Un bifolco può metter le mani
addosso a un patrizio veneto senz'andar incontro a nulla di peggio che a
una settimana di prigione. Ormai, credetelo pure, anche i Governi sono
d'accordo coi carbonari.
Il sacerdote tentennava la testa.--Pur troppo, Eccellenza, tutto va
male, tutto è corrotto nei tempi moderni, il cuore, il cervello ed il
gusto.... specialmente da noi. In un paese dove un Manzoni può passare
per un grande scrittore non bisogna meravigliarsi di nulla.
Stabilita così la responsabilità indiretta di Alessandro Manzoni nelle
busse toccate dal contino Leonardo Bollati, don Luigi seguitava a
deplorare le infinite cause del, pervertimento degli animi, la mancanza
di religione, l'abbandono delle pratiche del culto, l'uso invalso in
tante famiglie di mangiare di grasso il venerdì e il sabato, ecc., ecc.
--E poi--soggiungeva la contessa--volete che non abbiano una cattiva
influenza quelle invenzioni del demonio che si succedono da pochi
anni?... Vapori di acqua e di terra, illuminazioni a gas e altre
porcherie simili.... Non hanno già cominciato a gettare un gran ponte
sulla laguna per unire Venezia alla terraferma?
Mentre che la contessa Chiaretta e il cappellano si querelavano in tal
maniera delle tristi condizioni dell'umanità, il conte Zaccaria era
occupato a negoziare un decoroso componimento.
Lo scandalo avvenuto nel chiosco chinese non avea soltanto fatto
tramontare ogni possibilità di matrimonio tra la Rosa e il nipote
dell'oste, ma aveva anche recato un colpo gravissimo alla riputazione
della ragazza.
Il gastaldo aveva sentito risvegliarsi a un tratto le sue viscere di
zio, e strappandosi i capelli per la disperazione era corso da S. E. il
conte Zaccaria a dirgli ch'egli era un uomo rovinato, che non avrebbe
potuto sopravvivere al disonore della famiglia, nè reggere al pensiero
che un colpo simile gli venisse da un nobil uomo Bollati. A chi la
mariterebbe adesso la sua nipote? Come risponderebbe ai fratelli della
ragazza, giovani impetuosi e maneschi, che lavoravano in Ungheria, ma
che sarebbero certo tornati in patria appena fosse giunta loro la
notizia dell'accaduto?
S. E. aveva molto ragionevolmente fatto notare al suo interlocutore
ch'egli aveva avuto torto di non accorgersi di quello di cui
s'accorgevano tutti, vale a dire che la Rosetta era un po' civettuola e
che egli doveva custodirla meglio di quel che non avesse fatto.
Ma il volpone non s'era dato per vinto. Sicuro, egli era stato una
bestia, sicuro, la Rosa era una fraschetta, ma egli aveva avuto sempre
tanta fiducia ne' suoi padroni! Quel contino Leonardo egli l'aveva
sempre considerato, salvo la debita riverenza, quale un figliuolo. Di
tutti avrebbe dubitato ma non di lui. E adesso, se quei ragazzi
tornavano a vedersi, come impedire che si riavvicinassero, come impedire
che la tresca ricominciasse?... Ah s'egli avesse potuto spedir la
Rosetta all'altro capo del mondo?... Se avesse potuto sposarla fuori di
paese?... Ma prima dello scandalo non c'era che da scegliere fra dieci a
dodici partiti oltre a Beppe Gualdi: invece dopo quella sera fatale
nessuno voleva più saperne.... Uno solo, forse, non aveva mutato idea,
Menico il caffettiere.... Quel monello lì era innamorato cotto della
Rosa e pareva sempre disposto a prendersela.... Ma come si fa? La Rosa
non aveva un soldo di dote, Menico non aveva neanche la camicia.... Si
doveva lasciarli morir di fame? In quanto a lui, il gastaldo, si sarebbe
levato il pane di bocca per dare quattro soldi alla nipote che gli era
stata raccomandata dal fratello al letto di morte, ma, quant'è vero
Iddio, era al verde, assolutamente al verde.... Anni cattivi, anni
cattivi, e S. E. lo sapeva meglio degli altri.
In ogni circostanza critica il conte Zaccaria ricorreva al consiglio ed
all'opera del suo agente generale. Quell'impagabile _sior_ Bortolo col
suo umore uguale, calmo, sereno, era l'uomo fatto apposta per appianare
i dissidi. Non che escludesse _a priori_ le liti. Quando la dignità
dell'illustre famiglia Bollati lo esigeva, egli sapeva tirarle in lungo
anche più della guerra di Troia, ma negli altri casi egli preferiva gli
accordi amichevoli. Ora, egli aveva un modo tutto suo d'intendere questa
dignità del casato. Se le liti potevano fruttare dei quattrini a lui,
egli diceva che bisognava litigare; se non potevano fruttargli nulla e
aveva invece da sperar qualche cosa dagli accordi, egli sosteneva con
altrettanta energia che bisognava venire a patti.
Fedele a questo sistema, egli suggerì a S. E. Zaccaria di far ponti
d'oro al matrimonio della Rosetta con Menico. La dignità del nome
Bollati imponeva di riparare alle conseguenze della leggerezza del
contino Leonardo, e poichè se ne offriva la propizia occasione era
debito sacrosanto di non lasciarselo sfuggire. Si desse una piccola
sommetta a Menico per aprire, come egli desiderava, un caffè nel vicino
paesetto di Oriago, e ch'egli si sposasse in santa pace la Rosa. E
_sior_ Bortolo tanto disse e tanto fece che il conte Zaccaria si
persuase al sacrifizio pecuniario che gli era richiesto. Già a trovar
il danaro ci pensava l'agente.
La ragazza, rendiamole giustizia, si mostrava molto restìa ad accettare
una simile soluzione, ma il gastaldo, questa volta, fece da zio e da
tutore sul serio, e dichiarò che s'ella non accondiscendeva al
matrimonio, egli l'avrebbe cacciata di casa. Non voleva, no, aver altri
fastidi per cagion sua.
Ond'ella dovette piegare il capo e rassegnarsi a queste nozze ridicole.
È inutile ripetere i commenti che se ne facevano sul luogo e la sorte
che si pronosticava a quel grullo di Menico. Costui però non se ne dava
per inteso, e tutto tronfio per la bellissima fidanzata, lasciava cantar
le cicale, mentre coi capitali di S. E. Zaccaria e sotto il patrocinio
di suo santolo e di _sior_ Bortolo si disponeva ad aprire nel villaggio
di Oriago la nuova bottega di caffè e liquori col titolo pomposo:
_All'Imperatore d'Austria_.
Dopo la sua ingloriosa avventura campestre, il contino Leonardo scivolò
ancora più basso sul lubrico pendìo del libertinaggio. Egli non aveva
ormai altra cura che questa e aveva abbandonato anche l'esercizio del
remo, ch'era stato la passione della sua infanzia. S'era poi emancipato
da ogni tutela e non andava nemmeno col suo signor padre al caffè
Suttil, trovando abbastanza noioso di sentir raccontare dai vetusti
avventori di quel caffè le galanterie di trenta o quarant'anni addietro.
Passava invece la sera e buona parte della giornata con altri giovanotti
della sua età e de' suoi gusti, amanti del bigliardo, del vino e delle
femmine. Quantunque avesse ogni tanto delle vampate di boria patrizia,
non era troppo rigido nella scelta dei compagni; fra questi suoi amici
ce n'erano di nobili, di quelli che, come lui, trascinavano nel fango un
nome storico, ma ce n'erano anche della media e della piccola borghesia;
ce n'erano infine di usciti dai bassi fondi della società, gente rotta a
ogni vizio e priva d'ogni pudore. Costoro vivevano alle spalle dei
camerati facendosi perdonare la viltà del parassitismo con viltà ancora
più grandi.
Al nostro Leonardo erano insufficienti adesso, nonchè i pochi quattrini
datigli dal padre al primo del mese, anche le generose sovvenzioni del
signor Oreste, ed egli doveva ricorrere ai peggiori strozzini della
città per aver danari a babbo morto. Si può immaginarsi a che condizioni
li aveva. Il signor Oreste, che, nella sua qualità di creditore, teneva
d'occhio il padroncino ed era sempre informato dei fatti suoi,
brontolava a vederlo caricarsi di debiti verso altre persone e
minacciava di parlare, tantochè, per tenerlo quieto, conveniva pagargli
di tratto in tratto degli acconti che falcidiavano le somme ricevute a
prestito, e per conseguenza rendevano necessarii de' prestiti nuovi.
È ben raro che simili cose restino segrete, e il conte Zaccaria fu
avvertito che circolavano delle cambiali con la firma di suo figlio.
Vissuto sino allora nella dolce illusione che il contino Leonardo
avesse l'arte di divertirsi a buon mercato, Sua Eccellenza rimase di
stucco all'inatteso annunzio, e dovette mettersi a letto per un travaso
di bile. La particolarità delle cambiali era quella che l'offendeva di
più; debiti ne aveva fatti anche lui in giovinezza, e pur troppo ne
faceva ancora sotto forma di mutui, ma le cambiali le lasciava ai
mercanti. O che il nome di un Bollati doveva figurare a fianco di quello
d'un salumaio?
Il N. H. Zaccaria chiamò a consulto _sior_ Bortolo e l'avvocato di casa,
chiamò _ad audiendum verbum_ il suo nobile rampollo e con uno slancio
d'insolita energia gl'intimò di dargli la nota precisa dei suoi
creditori e della somma che doveva a ciascuno. Ma il contino Leonardo
non era in grado di fornirgli quest'utile informazione; chè non s'era
mai curato di tenere un registro. Aveva sottoscritto le cambiali; che
importava il resto?
A questo proposito l'agente generale e l'avvocato osservarono
concordemente che le obbligazioni assunte dal contino Leonardo, ancor
minorenne, non avevano effetto legale e potevano quindi non
riconoscersi; però il conte Zaccaria, frivolo, dissoluto, improvvido
com'era, conservava qualche buona qualità e ci teneva, a suo modo,
all'onor del casato, nè volle saperne della scappatoia che gli era
offerta. In conseguenza di ciò, tutti quelli che avevano delle ragioni
da far valere verso S. E. il signor contino Leonardo Bollati P. V.
furono invitati a recarsi entro un dato termine nei mezzanini del
palazzo e a presentare i loro titoli al signor Bortolo Segugi, agente
generale della nobile famiglia. Trascorso infruttuosamente il termine
stabilito si approfitterebbe dei diritti concessi dalla legge
relativamente ai debiti dei minori e non si accoglierebbe nessuna
domanda, come si dichiarava fin d'ora di respingere in avvenire
qualunque pretesa relativa a fatti posteriori alla data di quell'avviso.
L'intimazione sortì in parte soltanto il suo effetto; i creditori più
timidi risposero all'appello, e preferendo il certo all'incerto, scesero
volentieri agli accordi; gli altri invece, più avidi di guadagno, più
fiduciosi nella fortuna dei Bollati, stimarono meglio di correre il
rischio e di continuar anzi a sovvenire il giovane Leonardo per
rimborsarsi poi del capitale e degli interessi quand'egli fosse venuto
in possesso del patrimonio. Il conte Zaccaria era già innanzi negli anni
e non era un colosso; non sarebbe mica vissuto eterno. Anche il cuoco,
il signor Oreste, dopo molte esitazioni finì coll'appigliarsi a questo
partito. A voler figurare tra i creditori del padroncino egli metteva a
repentaglio il suo posto, e quel posto era troppo lucroso da giocarlo
sopra una carta.
Durante queste peripezie dei loro nobili congiunti, i Rialdi stavano
sempre nell'ombra. Nessuno si curava di loro, nessuno chiedeva il loro
parere; tutt'al più la querula contessa Chiaretta ripeteva alla cugina
Zanze e alla Fortunata gli sproloqui ch'essa soleva fare due volte al
giorno con don Luigi. Erano variazioni su un unico motivo. Il mondo
andava a rotoli per l'audacia dei carbonari e per la debolezza dei
Governi. Quest'era la ragione per la quale il contino era stato
picchiato dal figlio dell'oste, quest'era la ragione per cui egli era
caduto in mano degli usurai. Non c'era che dire, i suoi difetti egli li
aveva pur troppo, e la contessa Chiaretta, altrettanto energica nel
linguaggio quanto fiacca e nulla nell'azione, ammetteva lei per la prima
che Leonardo era uno scioperato, un vizioso, un uomo ch'ella non si
stupirebbe di veder finire sul patibolo, ma, alla stretta dei conti, di
chi era la colpa? Dei carbonari, dei frammassoni e dei loro acoliti.
Senza di questa brutta genìa, la vecchia Repubblica sarebbe ancora in
piedi, e Leonardo farebbe quello che facevano i suoi nonni, e anche lui,
dopo morto, lo metterebbero in cornice come una brava persona.
--Povero Leonardo!--pensava Fortunata.--Se gli avessero voluto bene,
sarebbe cresciuto diversamente. Altro che i carbonari!... Io però gliene
avrei voluto tanto di bene, gliene voglio anzi come una sorella,
come.... più che come una sorella.... Ma è una fatalità... Egli non mi
dà retta e corre invece dietro a certe femmine.... È vero che quelle son
bellissime... dicono... e io invece... oh perchè, perchè non son bella
anch'io?
E quest'idea di non esser bella, di non piacere a Leonardo, di non poter
salvarlo dalla rovina del corpo e dell'anima l'accorava fuor di misura
e le impediva di gustare quel po' di bene che c'era in famiglia. Perchè
in casa Rialdi pareva essersi aperto uno spiraglio alla fortuna. Dopo
dieci anni di aspettativa, il conte Luca aveva finalmente ottenuto una
promozione che aveva il duplice vantaggio di farlo guadagnare di più e
lavorare di meno, giacchè è noto che nei pubblici impieghi ognuno lavora
in ragione inversa della paga che ha. Però questo era il meno. Le
maggiori speranze dei Rialdi erano oramai concentrate in Gasparo, a cui
sembrava riservato davvero uno splendido avvenire. L'anno stesso del suo
imbarco, vale a dire il 1840, egli aveva la buona ventura di prender
parte alla fazione di San Giovanni d'Acri e di coprirvisi di gloria,
tanto da esser citato con lode speciale nell'ordine del giorno del
comandante, e di passar alfiere di vascello, primo tra i giovani usciti
con lui dall'Accademia di Sant'Anna. Più tardi la sua intrepidezza in
una burrasca, l'audacia e il sangue freddo con cui egli aveva diretto
un'imbarcazione alla riscossa di alcuni naufraghi, avevano confermato la
sua fama di marinaio valoroso ed intelligente, e gli avevano procurate
nuove dimostrazioni di stima da' suoi superiori.
La contessa Zanze, che nella sua fervida fantasia lo vedeva già
ammiraglio, gli perdonava ormai il suo carattere impetuoso e la sua
avversione ai parenti Bollati, e nelle rare e brevi gite ch'egli faceva
a Venezia lo costringeva a passeggiar con lei una o due ore al giorno
per la piazza S. Marco con la sua bella uniforme in dosso e con la sua
spada al fianco. Visite egli non voleva farne a nessun patto; bisognava
dunque ch'ella trovasse un altro mezzo perchè le sue conoscenti lo
ammirassero e nello stesso tempo ammirassero lei ch'era sua madre.
Anche Fortunata era orgogliosa di suo fratello, ma quanto più egli
cresceva in riputazione tanto più ella si sentiva intimidita e quasi
sgomenta al suo cospetto. Egli, vedendola sempre malinconica, faceva di
tutto per darle confidenza e per indurla ad aprirsi con lui, ma non
c'era caso, le parole le morivano sul labbro. Già nel fondo del suo
cuore, la giovinetta maturava un pensiero che non osava rivelare a
nessuno, il pensiero di entrare un dì o l'altro in un chiostro. Colà
almeno ell'avrebbe pregato giorno e notte per Leonardo.


X.

Si sa quel che dura l'energia degli uomini deboli. È uno scatto e nulla
più. Stupiti essi medesimi del loro insolito vigore, ripiombano tosto
nell'irresolutezza e nell'indolenza di prima. Così avvenne al conte
Zaccaria. La tarda severità mostrata verso il figliuolo poteva ancora
dar qualche frutto, ma per ottener ciò bisognava che essa non rimanesse
un fatto isolato, che iniziasse un nuovo sistema di relazioni
domestiche, un nuovo periodo di vigilanza operosa. Invece il N. H.
Zaccaria lasciò che le cose camminassero coi loro piedi, e le cose
tornarono a camminare pel sentiero sdrucciolevole su cui egli era
riuscito a fermarle appena un momento. Il contino Leonardo, alienato
ancor maggiormente dalla famiglia in seguito al chiasso poco onorevole
che s'era levato intorno al suo nome, ripigliò le sue abitudini
dissolute, s'invescò peggio che mai nella cattiva compagnia e perdette
ogni verecondia. L'illustre casato, il largo censo (almeno creduto
tale), l'aspetto piacente gli avrebbero spalancate tutte le porte, e la
cosidetta buona società, tanto benevola pel vizio elegante, avrebbe
perdonato volentieri a' suoi rotti costumi, sol ch'egli avesse saputo
rispettar le apparenze. Ma a lui era intollerabile qualunque freno ed
egli non s'acconciava a nessun ritrovo ove convenisse moderare il suo
linguaggio da trivio. In tal modo il contino Leonardo Bollati, sul
quale, da fanciullo, molte mamme avevano fabbricati i loro castelli in
aria, diventava a poco a poco un partito impossibile, e _sior_ Bortolo,
l'agente generale, vedeva allontanarsi la probabilità di ristorare con
una bella dote le pericolanti fortune della famiglia. Tutt'al più, si
sarebbe forse potuto sperare di trovar un dì o l'altro qualche
pizzicagnolo arricchito che per _nobilitar_ la figliuola non badasse al
resto; ma figuriamoci se il lustrissimo Zaccaria e la lustrissima
Chiaretta, con la loro boria, avrebbero acconsentito a un matrimonio
simile. Ora, per fare a meno del loro consenso, era necessario aspettare
che il contino Leonardo fosse uscito di minorità, ossia, come
prescriveva il Codice austriaco, ch'egli avesse compiuto i
ventiquattr'anni, e l'ottimo _sior_ Bortolo, che vedeva la proprietà
stabile dei Bollati coprirsi rapidamente d'ipoteche dubitava molto di
poter tirare innanzi a forza di palliativi sino a quel tempo. Comunque
sia, il coscienzioso agente non ommetteva di far di tratto in tratto
l'inventario delle ragazze milionarie, anche se gobbe, sbilenche o
avariate nella riputazione, che potevano in caso disperato offrirsi
come ancora di salvezza al padroncino, quando un avvenimento imprevisto
sconcertò tutti i suoi disegni.
Una sera il contino Leonardo si mise a letto con la febbre e in breve la
malattia prese un tale carattere di gravità da incuter seri timori. Da
un pezzo il giovine non ispirava personalmente la minima simpatia, ma
l'idea che con lui sarebbe perito l'unico rampollo maschio di una grande
famiglia e che il palazzo Bollati e gli oggetti di valore che vi si
trovavano sarebbero andati a finire, alla morte del conte Zaccaria, in
mano di gente straniera, destò una certa commozione in paese e fece
seguire con viva sollecitudine le varie alternative del male.
Ma questo a noi preme poco o punto. Quello che ci gioverà di sapere si è
che l'infermità del contino Leonardo fece riacquistare alla contessa
Zanze Rialdi una parte dell'influenza che da qualche anno ella andava a
grado a grado perdendo in casa Bollati. Era costume inveterato della
contessa Zanze, quando c'era qualche malato grave tra i suoi conoscenti,
di recarsi in persona presso la famiglia, e lì, senza tante cerimonie,
profferire i propri servigi, l'opera sua, i lumi della propria
esperienza. Era madre di famiglia, aveva fatto pratica co' suoi
figliuoli, i quali, pur troppo, avevano avuto il morbillo, la rosolia,
la tosse canina e tutte le piaghe d'Egitto, e nondimeno eran sani e
salvi più per virtù delle sue cure che per virtù del medico.
Se poi il suo zelo derivasse da bontà d'animo, da spirito inframmettente
o dalla speranza di guadagnarsi qualche bel regalo, questo è quello che
non si potrà mai sapere con precisione; forse esso derivava da tutte
queste cose unite insieme. O forse si nasce infermieri e flebotomi come
si nasce poeti. Certo si è che la contessa Zanze non aveva chi la
pareggiasse nel mescere un farmaco, nel fasciare un salasso,
nell'accomodare i guanciali sotto il capo di un giacente, e, sia detto
coi debiti riguardi, nell'applicar cataplasmi d'ogni maniera.
Era naturale che con queste singolari attitudini ella si mettesse subito
a disposizione dei suoi cari parenti, dicendo che ella aveva visto
nascer Leonardo e lo considerava come un'altra sua creatura, e poteva
benissimo far presso di lui le veci della madre, la quale, cagionevole
di salute e nervosa all'estremo, non era assolutamente in condizione da
assistere inalati.
La contessa Zanze Rialdi piantò quindi le sue tende in palazzo Bollati
tirandosi dietro anche il marito e la figliuola, a cui nessuno preparava
più da colazione e da pranzo, giacchè la rispettiva moglie e genitrice
non si fidava della donna di servizio, e da buona massaia stimava
opportuno di non far nemmeno accendere il fuoco in cucina. Però il conte
Luca e Fortunata andavano ogni sera a casa a dormire.
Invece la contessa Zanze stava dì e notte al letto di Leonardo che le si
era affezionato con quel trasporto col quale gli egoisti sogliono
affezionarsi a coloro di cui hanno bisogno e pel momento in cui ne
hanno bisogno. Egli non prendeva le medicine da altri che da lei, non
ubbidiva che alla sua voce, non voleva lasciarla mai uscire di camera,
e, nel suo immenso terrore della morte, aspettava da lei sola la sua
salute.
Per più settimane il nostro giovinotto fu in gran burrasca, e in tutto
questo tempo don Luigi dovette consacrarsi interamente alla
_lustrissima_ Chiaretta e assisterla nelle sue pratiche religiose o
apparecchiarla con esempi della Sacra Scrittura a sopportar con animo
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