Dal primo piano alla soffitta - 03

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ricchissimi Bollati, e in buoni termini con loro. Alla contessa Zanze
però era occorsa molt'arte a vincer la diffidenza dei parenti di suo
marito, i quali le rimproveravano, fra l'altre cose, la dubbia nobiltà
dei natali e il modo subdolo con cui aveva tirato nella rete quel povero
conte Luca. Comunque sia, ormai ella spigolava abbastanza largamente nel
campo dei Bollati; vestiti smessi pei figliuoli, per sè e anche pel
consorte, qualche regaluccio a tempo e luogo, e qualche prestito di
danaro che non si restituiva e che l'aiutava a spingere innanzi la barca
pericolante. Aggiungasi al resto un paio di mesi di villeggiatura, e un
paio di pranzi alla settimana, ch'erano una vera provvidenza per la
famiglia. Naturalmente di fronte a questi vantaggi la contessa Zanze
doveva inghiottire molti bocconi amari. Le toccava prestarsi ad uffici
umili, quasi di cameriera, le toccava ogni momento sentirsi ricordar la
distanza che correva tra lei e i Bollati, e far la disinvolta mentre si
andava a gara per mettere in burletta le sue acconciature, il suo
abbigliamento e perfino, sacrilegio orribile! i suoi martedì. Giacchè
bisogna notare che la contessa Zanze aveva anch'essa il suo giorno di
ricevimento nel quale ella noleggiava un servitore a spasso, gli faceva
indossare una livrea gelosamente conservata in casa, e lo piantava
nell'andito ad aspettarvi le visite. Capitavano dame e pedine, ma per
lei erano sempre contesse, o marchese, o _lustrissime_; fra lei e il
suo cameriere improvvisato nobilitavano tutti. La moglie del dottor
X.... non mancava mai ai martedì della Rialdi, tanto le piaceva il
sentirsi dar della contessa una volta per settimana.
Il martedì si desinava in casa Bollati, e guai se non fosse stato così,
perchè quel giorno non si accendeva il fuoco in cucina per non aver
l'odor di bruciaticcio nel salotto attiguo, e anche perchè la padrona di
casa non aveva agio da attendere alle faccende domestiche. Di tratto in
tratto accadeva però che i Bollati avessero appunto il martedì qualche
commensale di riguardo e allora essi mandavano a dire ai cugini: _Venite
domani_. In questi casi, il conte Luca doveva limitarsi a mangiar pane e
salame, e i bimbi sfamati alla meglio si mettevano a letto più presto
del solito in ossequio al proverbio: _Qui dort dîne_. In quanto alla
contessa Zanze, ella non prendeva che una limonata senza zucchero,
tant'era la bile che le suscitava il procedere de' suoi boriosi parenti,
i quali mostravano di tener in così poco conto lei e suo marito. Ah se
non ci fossero stati di mezzo i figliuoli! Ma i figliuoli c'erano e non
conveniva sacrificarli a un malinteso amor proprio. Perciò la contessa
Zanze reprimeva presto i suoi moti di collera e procurava d'inculcare a
Gasparo e a Fortunata la maggior riverenza verso i Bollati. Senonchè,
l'indole de' suoi ragazzi era così dissimile che i germi gettati nel
cuore dell'uno e dell'altra non potevano dare ugual frutto. Fratello e
sorella avevano comune un gran fondo di rettitudine, ma nella sorella
questa rettitudine s'univa a un'indole docile e mansueta; nel fratello
invece essa si accompagnava a uno spirito altero, insofferente di freno.
A ogni suggerimento, a ogni ordine, il primo impulso di Gasparo era
quello di ribellarsi, il primo impulso di Fortunata era quello di
ubbidire, cosicchè un psicologo chiamato a far pronostici sui due
piccoli Rialdi avrebbe detto che Gasparo era un ragazzo indisciplinato e
molesto, il quale sarebbe divenuto un uomo efficacemente e operosamente
buono; Fortunata era una bimba angelica, serbata probabilmente a esser
vittima d'ogni prepotenza e d'ogni ingiustizia, e la cui bontà passiva
avrebbe finito piuttosto col nuocere a lei che col giovare agli altri.
Premesso ciò, sarà facile intendere come non ci fosse voluto molto a
imprimer nell'animo di Fortunata l'idea della grandezza dei Bollati e a
persuaderla della necessità di mostrar loro ogni deferenza, e come
d'altro canto la fierezza naturale di Gasparo gli avesse impedito
d'acconciarsi a questa subordinazione. Non c'era mai stato caso di
persuaderlo a baciar senza tante smorfie la mano del vecchio conte
Leonardo, nè quella del conte Zaccaria o della contessa Chiaretta; non
era stato possibile di far sì ch'egli giocasse col contino senz'attaccar
lite. Anzi un giorno, punto da non so quali parole, egli picchiò di
santa ragione il cuginetto, cosa che indusse la contessa Chiaretta a
far terribili vaticini sulla sorte dell'umanità, giacchè, quando i
parenti spiantati picchiano i parenti ricchi, dev'esser vicina la fine
del mondo.
Forse questo fatto memorabile ebbe una certa influenza nella risoluzione
dei Rialdi di mettere il figliuolo nel collegio di marina a Sant'Anna di
Castello.
Così la contessa Zanze poteva catechizzar Fortunata senza
contraddizione.--Sii rispettosa, servizievole coi parenti Bollati, e
procura di farti voler bene dal cugino Leonardo.
La bimba, ufficiosa per sua natura e facilissima ad affezionarsi, non
durava fatica a secondare i desiderii materni, ed era lietissima se
poteva rendersi utile in qualche maniera alla _zia_ Chiaretta, com'ella
chiamava la illustrissima contessa. E costei, ch'era un tipo perfetto
d'egoista, vedeva di buon occhio questa fanciullina punto chiassona,
punto romorosa, dispostissima a far le parti d'una piccola cameriera. Lo
stesso conte Zaccaria si degnava talvolta di occuparsi di lei, e
allorchè voleva darle un segno della sua speciale benevolenza, se la
prendeva sulle ginocchia, le ordinava di chiuder gli occhi e le cacciava
su pel naso un pizzico di tabacco, scherzo fino e saporito che
l'illustre gentiluomo riteneva il _non plus ultra_ dello spirito.
Fortunata starnutiva replicatamente, ma non si lagnava mai; anzi,
quand'aveva finito di starnutare, sorrideva di quel suo sorriso
carezzevole ch'era la sua maggiore attrattiva fisica.
E il contino Leonardo preferiva Fortunata a tutti gli altri compagni di
gioco, forse perchè Fortunata sopportava con più longanimità i suoi
capricci. Sprezzante per indole, egli era piuttosto cortese con lei, e
le serbava delle chicche, o le regalava dei trastulli rotti: cavalli a
cui s'era spezzata una gamba, bambocci che avevano perduto la testa,
trombette che avevano dimesso l'abitudine di suonare. Fortunata andava
in estasi. Ci voleva così poco a riempirle l'animo di gratitudine!
La contessa Zanze provava un grande compiacimento a veder la buona
intelligenza tra i due cugini, e si cullava in una speranza ambiziosa
balenatale alla mente, si può dire, fin dalla nascita della figliuola.
Ah se Leonardo s'innamorasse di Fortunata!
Il marito, più positivo, si stringeva nelle spalle
borbottando:--Castelli in aria, castelli in aria.
Ma la consorte gli imponeva silenzio con una ragione perentoria:--Siete
un gran babbeo.
Quest'era innegabile. Ma Gasparo Rialdi, che non era un babbeo e che, se
non fosse stata la disciplina, avrebbe avuto il primissimo posto nella
sua classe, Gasparo, nelle poche feste ch'egli passava in famiglia,
diceva che sua sorella aveva un gran torto di perder il suo tempo a
giocare con quello stupido prepotente di Leonardo Bollati, e che in
quanto a lui era ben lieto di non aver quasi mai occasione di mettere il
piede nel palazzo di quei somari. Parole che facevano andar fuori della
grazia di Dio la contessa Zanze e mettevano la febbre addosso al conte
Luca, altrettanto meravigliato di aver un figliuolo di quello stampo
quanto sarebbe maravigliata la chioccia che s'accorgesse d'aver covato
un aquilotto.
Nè Gasparo aveva almeno la prudenza di aspettare a fare i suoi sfoghi
che non ci fosse presente la sorella. Anzi un giorno egli disse a lei
stessa:--Tu hai i gusti di Sant'Antonio.... Anch'egli prediligeva un
certo animale.
Fortunata non capì nulla, ma si mise a piangere senza sapere il perchè,
e corse dalla mamma chiedendole in mezzo ai singhiozzi:--Mamma, mamma,
che gusti aveva Sant'Antonio? Che animale era quello ch'egli
prediligeva?
Guai se Gasparo non fosse rientrato presto in collegio. Egli era proprio
insopportabile, e la _zia_ Chiaretta aveva ragione a definirlo con una
parola che per lei esprimeva la quintessenza d'ogni nequizia: _È un
carbonaro_.


V.

Vediamo ora di far più stretta conoscenza col contino Leonardo Bollati,
unico rampollo maschio della famiglia, unico erede d'un nome illustre
negli annali della Serenissima.
Per cominciare _ab ovo_ diremo che il contino Leonardo nacque nel 1823,
come può verificarsi, oltre che dai registri parrocchiali, anche da un
volumetto di poesie stampato in quel tempo, col titolo: _Versi di vari
autori in occasione del battesimo di S. E. il conte Leonardo Bollati P.
V._ (leggi Patrizio veneto).
C'è fra gli altri componimenti un sonetto che principia così:
O tu in cui dritta la virtù discese
Onde Venezia ebbe del mar l'impero,
Certo tu pure, o pargoletto altero,
Famoso andrai per memorande imprese;
Mel dice il nobil tuo sembiante, il fiero
Lampo degli occhi tuoi mel fa palese...
. . . . . . . . . . . . . . .
E ci pare che basti.
Nonostante le feste con cui egli fu accolto al suo nascere, il contino
Leonardo non fu guastato con troppi baci e troppe carezze. Il conte
Zaccaria, libertino incorreggibile, s'occupava più delle crestaie e
delle ballerine che de' suoi figliuoli, e la contessa Chiaretta, tra le
pratiche di devozione e il teatro, il fare e il ricever visite, il
curare i suoi mali veri e l'almanaccar dietro ai suoi mali immaginari,
il bever tazze di cioccolata e il mangiar pasticcini, esauriva tutte le
forze del corpo e dello spirito, nè le restava più tempo o voglia di
dedicarsi alle cure materne. Dimodochè S. E. Leonardo Bollati, progenie
di dogi, passò dalle braccia della balia e delle bambinaie a quelle
dell'altre persone di servizio, e ne' primi anni della sua gloriosa
esistenza non era ammesso al cospetto de' genitori che la mattina appena
alzato e la sera avanti di coricarsi. In questi momenti solenni egli
baciava la mano al nonno, al signor padre e alla signora madre, e dava
loro il buon giorno e la buona notte. Nelle grandi occasioni (a Pasqua,
a Natale, al Capo d'anno, ecc.) lo si faceva portare a tavola alle
frutta. Allora il contino dava prova di ottimo appetito e di rara
precocità nel dir parole indecenti, ch'egli apprendeva in cucina e che
esilaravano il conte padre ed erano accolte con un sorriso benevolo
anche dai commensali, soprattutto dai Rialdi, parenti poveri, mentre la
contessa Chiaretta si limitava ad esclamare:--Maria Vergine santissima!
Che discorsi!
Ma il contino Leonardo non imparava in cucina soltanto le schiette
grazie del linguaggio popolare.
Un barcaiuolo pensionato della famiglia, morto nonagenario un anno prima
del padrone vecchio, lo aveva erudito in certe cronache domestiche assai
edificanti. Nicola (il barcaiuolo si chiamava così) era nato in casa e
avea pei Bollati una devozione a tutta prova. Per isfortuna egli non era
cresciuto nei tempi in cui i Bollati maschi si coprivano di gloria, ma
in quelli in cui le Bollati femmine facevano d'ogni erba un fascio. E
raccontava le gesta di queste civette con la identica compiacenza con la
quale due secoli innanzi avrebbe raccontato quelle del nobiluomo Almorò
che aveva preso una bandiera ai Turchi, e del nobiluomo Biagio che a
venticinque anni aveva sbalordito il Maggior Consiglio con la sua
eloquenza. La madre del conte Zaccaria non aveva avuto tempo di far
discorrer di sè perch'era morta da parto dopo un anno di matrimonio, ma
Sua Eccellenza Adriana e Sua Eccellenza Marina, mogli di due fratelli
del N. H. Leonardo ne avevano fatte di grosse. Belle, piene di spirito e
di salute, avevano goduto la vita, loro due, non come Sua Eccellenza
Chiaretta, una buona donna, ma via, un po' troppo monachella, troppo
dinoccolata, troppo paurosa della sua salute. Perchè in fin dei conti,
diceva il vecchio Nicola, che cosa fanno a questo mondo le donne se non
fanno il chiasso e l'amore?
--Eh--continuava il barcaiuolo epicureo--ai tempi delle lustrissime
Adriana e Marina ci si divertiva in Palazzo. Altro che adesso! Non
s'eran mai viste due cognate che se la intendessero meglio di quelle.
Mai una gelosia, mai la cattiva azione di portarsi via i _morosi_, ma
invece un aiutarsi, un difendersi ch'era un piacere a sentirle. Io ero
il confidente di tutt'e due, e quando l'una o l'altra diceva di voler la
gondola a un remo solo e che quel remo dovevo esser io, sapevo benissimo
di che si trattava. Qualche volta i due mariti e i due rispettivi
cavalieri serventi volevano tirarmi in lingua. Mi ricordo che un giorno
il nobiluomo Barbo, che serviva la lustrissima Adriana, mi disse:--«Tu
tieni il sacco a quella fraschetta.»--«Nobiluomo--io risposi--la parli
con rispetto della padrona.» Sicuro; perchè io non ammettevo scherzi su
questo proposito.... Ma quando potevo, coi debiti riguardi, dare un buon
consiglio alle _lustrissime_, mi facevo coraggio. E raccomandavo loro di
usar prudenza e di salvare le apparenze, che son quelle a cui il mondo
bada di più. Così facevo il mio dovere, e le padrone, che non avevano
ombra di sussiego, me ne ringraziavano. Erano due angeli, quelle donne,
e non è mica a credere che fossero cattive mogli. Bisognava vederla Sua
Eccellenza Adriana durante la lunga malattia del marito. Pareva una
suora di carità. E quando S. E. Alvise morì, che macchina di monumento
ella gli fece innalzare in chiesa dei Gesuiti! E quante messe all'anno
faceva dire in suffragio del povero defunto! Se quell'anima lì non ha
scontato presto il suo purgatorio, non deve certo prendersela colla
moglie. E S. E. Marina? L'ho accompagnata io stesso due anni di fila ad
Abano con S. E. Vittore che andava a curarvi la sua sciatica. Che
pazienza da santa quella donna! Perchè S. E. Vittore (che Dio l'abbia in
gloria!) era una pasta di zucchero finchè stava bene, ma se aveva un
dolor di capo, usciva dai gangheri addirittura. Non c'eravamo che la
padrona ed io che potessimo sopportarlo.--«Eh, Nicola,»--la mi diceva
scherzando--«non si va mica in gondola adesso. »--«Ma, lustrissima;
torneranno quei tempi.»--E lei, con una scrollatina di testa:--«Intanto
s'invecchia, caro Nicola.»--Benedetta quella vecchia!--io avrei voluto
soggiungere, ma non ero che un povero gondoliere e non dovevo prendermi
certe libertà.... So ch'era da mangiarla S. E. Marina quando parlava
così. A quarant'anni ell'era ancora un boccone prelibato. Una vitina, un
busto, un giro di spalle, dei capelli neri come la pece, due occhi da
svegliare i morti.... E una manina bianca, grassottella, che aveva tutti
i sapori.... Posso dire di avergliela baciata quella mano.... Ma! Le due
_lustrissime_ son morte tutt'e due in fresca età e di donne come quelle
s'è persa la stampa....
Questi e altri discorsi consimili il vecchio Nicola li teneva
soprattutto nelle sere d'inverno, durante la siesta, quando seduto sul
focolare sopra un seggiolone impagliato egli protendeva le gambe
stecchite sulle ceneri calde, e fumava la sua pipa di gesso o centellava
un bicchiere di vino generoso. Il resto della servitù stava ad
ascoltarlo ad orecchie tese, e le cameriere, ghiotte di pettegolezzi
scandalosi, lo tempestavano di domande. Ed egli, sempre vantandosi
d'esser stato un modello di discrezione in gioventù, spifferava una
quantità di aneddoti circa alle scappate delle padrone, e al brio delle
loro conversazioni nel casino ch'esse tenevano in comune a San Giuliano,
e ai loro travestimenti in carnevale, al Ridotto, e ai loro trionfi alla
venuta dei conti del Nord e del Re di Svezia. Intanto il contino
Leonardo, ora sulle ginocchia d'una fantesca, ora sotto la tavola in
compagnia del gatto, sbadigliava aspettando che lo mettessero a letto.
E, se vogliamo esser giusti, egli si curava pochissimo di queste glorie
casalinghe, e preferiva il racconto dei fatti memorabili del brigante
Mastrilli, che il signor Oreste, il cuoco, sapeva a memoria, e di cui
mostrava al padroncino le illustrazioni a colori sopra una ventola di
cartone.
Altra occupazione gradita pel nostro contino, sin dalla più tenera
infanzia, era stata quella di dar la caccia ai granchi che salivano su
per la _riva_ del Palazzo. A questo nobile esercizio egli dedicava un
paio d'ore al giorno sotto la vigilanza dell'uno o dell'altro dei
gondolieri di casa, e, quando aveva preso una di quelle innocue
bestiuole, egli trovava un gusto infinito a legarla con uno spago per
una delle branchie e a tirarla su e giù per l'androne.
Però i gondolieri non insegnavano al contino Leonardo solamente a
pigliare i granchi; essi lo addestravano eziandio nell'arte del remo,
l'unica ginnastica a cui si dedicassero in quel tempo i nobili veneti. A
quattr'anni egli aveva già un remino microscopico che appena sfiorava
l'acqua; poi di mano in mano che il ragazzo cresceva gli si faceva fare
un remo più grande e il remo smesso si conservava come trofeo di
famiglia. Quando il contino Leonardo non possedeva ancora le lettere
dell'alfabeto, egli era ormai in grado di vogare a poppa e di diriger
bene o male la gondola nel Canalazzo e pei meandri dei _rii_. I
barcaiuoli dei traghetti lo conoscevano tutti, e se qualcheduno
vedendolo passare gridava poco rispettosamente:--_Occhio ai granchi,
Eccellenza_--i più rendevano giustizia alle sue felici disposizioni e
gli pronosticavano uno splendido avvenire.
Con la sorella, alquanto maggiore d'età, Leonardo non aveva mai avuto
buon sangue; del resto si può dire ch'egli l'avesse anche conosciuta
poco, perch'ella entrò ben presto alle Salesiane e vi stette fino al
momento del matrimonio. La piccola Rialdi, che aveva quattr'anni meno di
lui, era stata sempre, come sappiamo, la sua compagna favorita di
giuoco. E quand'egli non era in cucina con le serve, o in gondola, o
presso alla _riva_ coi barcaiuoli, era con Fortunata in uno stanzone del
secondo piano detto lo stanzone degli armadi, ove i bimbi potevano fare
il chiasso senza disturbare la _lustrissima_ Chiaretta che pativa di
emicrania e di sfinimenti.
Così trascorse l'infanzia del contino Leonardo Bollati. Alla fine il suo
signor padre si decise a dargli un precettore, e la scelta cadde sopra
un sacerdote di nome don Luigi, al quale il conte Zaccaria,
nell'affidargli l'educazione del giovinetto, tenne questo notevole
ragionamento:
--Grazie al cielo, Leonardo non ha bisogno di guadagnarsi da vivere, non
deve far l'avvocato, nè il medico, nè l'ingegnere, nè, Dio guardi, il
professore. Sotto la Serenissima era un altro paio di maniche. Il
ragazzo avrebbe dovuto entrare prima nel Maggior Consiglio e più tardi
forse nei Pregadi, e non ci sarebbe stata nessuna carica, per quanto
alta, a cui egli non avesse potuto aspirare. Adesso il più che possa
toccargli è di diventare assessore municipale, o amministratore dei
Luoghi Pii, o presidente della Fenice, come me, e per questa roba non
occorre troppa dottrina. Dunque, don Luigi, siamo intesi. Un poco di
religione, di storia sacra e di storia veneta, le quattro operazioni
dell'aritmetica, una tintura di latino, e quel tanto d'italiano che
basta a scriver discretamente una lettera, e, se occorre, un sonetto per
nozze o per monaca. Insomma non sopraccarichiamo il ragazzo di scienza.
Don Luigi s'inchinò in segno d'assenso, e promise al conte Zaccaria di
uniformarsi interamente a' suoi desiderii.
Proprio un asino don Luigi non era; aveva un certo bagaglio di cultura
classica e aveva scritto in gioventù un panegirico di San Luigi Gonzaga,
lodato dal Padre Cesari. Ma era una mente gretta, piccina, di quelle che
non possono spargere intorno a sè altro che la loro piccineria e la loro
grettezza. In fatto di letteratura, il suo più forte convincimento era
questo: doversi combattere ad oltranza il Manzoni. Per don Luigi,
innamorato degli _avvegnachè_ e dei _conciossiachè_, il Manzoni era un
barbaro, e non c'era scribacchino d'istanze ch'egli non preferisse
all'autore dei _Promessi Sposi_. Onde sopra una sola cosa egli domandò
al conte Zaccaria che gli fosse lasciata mano libera:--Bisogna ch'ella
mi permetta--egli disse--di formare a mio modo lo stile del mio allievo.
Sarei veramente umiliato s'egli dovesse scrivere come il signor Manzoni,
quel corruttore della lingua italiana.
--Oh in quanto a questo--rispose il conte Zaccaria--faccia come le pare.
Le inquietudini di don Luigi non durarono un pezzo. Non solo il contino
Leonardo non accennava a voler scrivere un giorno come il signor
Manzoni, ma dopo cinque anni d'insegnamento era ancora dubbio s'egli
sarebbe mai riuscito a scrivere in nessuna maniera. Il pronostico fatto
dal nonno poco prima di morire pareva aver molta probabilità di
avverarsi. L'ultimo rampollo dei Bollati aveva tutta la disposizione di
restare un somaro. Invece, dal lato fisico, egli era cresciuto meglio
che la gracile infanzia non promettesse, era abbastanza alto per la sua
età, snello e ben proporzionato della persona. Fatta eccezione dal naso
un po' grande, i suoi lineamenti erano regolari, e, non guardando pel
sottile all'espressione della fisonomia insignificante e sbiadita, lo si
poteva anche dire un bel ragazzo.


VI.

I Bollati avevano poderi in più parti del Veneto, ma la loro villa
signorile era posta sulla Brenta, ed essi andavano a passarvi alcune
settimane della primavera e dell'autunno. Vi andavano per tradizione,
per non rimanere a Venezia quando non c'era nessuno, ma quel soggiorno
campestre non aveva per loro la minima attrattiva, come non può averne
per quelli che portano in campagna i gusti e le abitudini della città.
Già per la contessa Chiaretta era un affar di stato il solo tragitto da
Venezia a Fusina, e prima di avventurarvisi ella consultava una dozzina
di volte l'aspetto del cielo e il parere dei gondolieri esperti nelle
cose meteorologiche. Quando non c'era neanche una nuvola, quando non
spirava un fiato di vento, quando i barcaiuoli erano d'accordo nel
pronosticar la durata del bel tempo, quando a Sua Eccellenza non doleva
un callo (ciò ch'era per lei un sintomo infallibile di cambiamenti
atmosferici), quando non era nè martedì, nè venerdì, allora
s'intraprendeva finalmente il gran viaggio. Partiva prima la gente di
servizio coi bagagli (parevano le salmerie d'un esercito), poi venivano
i padroni in due gondole, portandosi, fra l'altre cose, un gatto
favorito dentro un paniere. A Fusina si trovavano le carrozze pronte e
la comitiva si avviava verso la Mira. E anche qui S. E. Chiaretta era in
preda a notevoli trepidazioni.--_Le bestie son bestie_--ella diceva
saviamente,--ed è sempre un miracolo quando non ne fanno di
grosse.--Cosicchè ella sottoponeva il cocchiere a un interrogatorio in
piena regola.--Era proprio sicuro dei cavalli? Non aveva mica dato loro
troppa biada? E le ruote della carrozza le aveva esaminate bene? Non si
sa mai; si senton tante disgrazie.... Adagio.... Era inutile di correre
in quella maniera.
Basta; presto o tardi s'arrivava, e il fattore, il giardiniere e il
gastaldo venivano a baciar la mano ai padroni. La contessa Chiaretta,
tutta intontita dal viaggio, si ritirava prestissimo nel suo
appartamento, e per quel giorno non discendeva nemmeno a desinare, ma si
faceva servire un brodo in camera da letto. Nè è a credere che nei
giorni successivi ella uscisse frequentemente in giardino o facesse
delle gite nelle vicinanze; tutt'altro; gran parte della giornata ella
la passava in un gabinetto con le imposte accostate per non lasciar
entrare il sole, coi vetri chiusi per non lasciar entrare le mosche e la
polvere; e soltanto a ora di colazione e di pranzo si trascinava a gran
fatica fino in tinello, dicendo che non aveva fame e che non capiva come
ci fosse della gente che poteva trovarsi bene fuori di città. La sera
però, quand'erano accesi i lumi, quando capitavano l'arciprete, il
cappellano, il medico condotto e qualche villeggiante per il tresette,
la fronte di S. E. si spianava un poco, ed ella si abbandonava un poco
alla dolce illusione d'essere nel salottino del suo palazzo di Venezia.
E poichè le seccava di andare a letto presto, essa costringeva quei
poveri diavoli a farle compagnia fino a mezzanotte, e li teneva
svegliati a forza di tazze di caffè.
Il conte Zaccaria, in fondo, aveva per la campagna la stessa passione di
sua moglie, ma non voleva dirlo, e si dava l'aria d'intendersene di
agricoltura, e ne sballava di grosse col fattore e col gastaldo, i
quali, pur mostrando di ascoltarlo con deferenza, si prendevano gioco di
lui. Il peggio si era che di tratto in tratto egli non si contentava
delle chiacchiere accademiche, ma s'impuntava a ordinar sui suoi fondi
dell'esperienze in _corpore vili_ e sciupava il tempo e i quattrini.
In quanto al contino Leonardo, egli avrebbe assai volentieri fatto senza
della villeggiatura. Egli trovava che i ranocchi, le cicale, le
lucertole valevan meno dei granchi e che la carrozza valeva meno della
gondola. A far lunghe passeggiate non ci aveva gusto; l'imparar a guidar
delle bestie gli pareva ignobile, e l'equitazione gli era venuta in
uggia dopo che un cavallo lo aveva gettato a gambe levate sopra un
mucchio di ghiaia. Sicchè, tutto sommato, s'annoiava mortalmente; tanto
più che, cosa abbastanza singolare, in campagna aveva meno libertà di
quella che avesse in Venezia. A Venezia andava in gondola anche solo
affatto, e quand'egli riusciva a scender nell'entratura e recarsi presso
alla _riva_, era sicuro di non esser molestato più.--Sarà con
qualcheduno dei barcaiuoli,--dicevano in famiglia, e nessuno aveva altro
da soggiungere, e don Luigi era esonerato dall'obbligo d'invigilare sul
suo pupillo. In campagna invece don Luigi doveva seguire il contino
dappertutto, e badare ch'egli non andasse sotto una carrozza, o non
fosse morsicato dai cani idrofobi, o non isdrucciolasse giù nella
Brenta.--Con l'acqua dolce non si scherza--sentenziava S. E. Zaccaria.
Don Luigi, a tener dietro a S. E. Leonardo, non ne poteva più, e alla
fine della giornata aveva l'aria d'uno di quei cani che per ore e ore
inseguono la selvaggina, e alla sera si accovacciano sul vestibolo
ansanti e con la lingua penzoloni. Onde, se gli riusciva di sgattaiolar
via con la scusa di qualche indisposizione appena faceva notte, correva
a rifugiarsi nella sua camera, e si cacciava sotto le coperte,
maledicendo al destino che costringeva lui, un uomo di tanto merito, a
sciupar la sua vita con un ragazzo balordo e maleducato. Ma
ordinariamente non gli era concessa neppur questa consolazione, perchè
S. E. Chiaretta, che aveva sempre bisogno di seccar qualcheduno e
trovava assai comodo di seccare di preferenza il prete di casa, lo
sforzava spesso a rimanere alzato per fare il quarto a tresette in un
tavolino o per leggerle la _Gazzetta_ fino a che le venisse sonno. Già
ell'aveva dichiarato che alle sue indisposizioni non credeva punto, e
che a ogni modo non poteva permettere ai suoi dipendenti di darsi il
lusso dell'emicrania e del mal di nervi.
Per don Luigi era meglio che ci fossero ospiti in quantità. E infatti ne
capitavano ogni autunno, ed erano, qual più qual meno, tipi di parassiti
spiantati e famelici.
Uno degli assidui era il nobiluomo Pietro Canziani, dell'ordine dei
segretari, poeta sprositato, autore di madrigali galanti in lode della
contessa Chiaretta, la quale si ostinava a chiamar _sonetti_ tutti i
componimenti di vario metro che il suo devoto e maturo adoratore le
dedicava. Il signor Barnaba Sughillo, impiegato di contabilità, nel fare
il suo giro per le varie villeggiature sulla Brenta, non dimenticava i
Bollati, e intratteneva anche loro co' suoi giuochi di prestigio e con
la sua prodigiosa abilità nell'imitare il canto degli uccelli, meriti
che gli avevano procurato il benigno compatimento delle famiglie
patrizie. Nè mancava, sebbene non invitata, la contessa Ficcanaso, la
quale, dichiarando di non poter stare a lungo senza vedere i suoi
dilettissimi amici, veniva a stabilirsi in casa loro per un paio di
settimane almeno. Ella veniva con uno scarso bagaglio di biancheria, ma
con una ricca collezione di pettegolezzi, che le facevano perdonar dai
padroni l'uggia della sua visita. Nascite, morti, matrimoni, scandali
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