Dal primo piano alla soffitta - 09

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anche sott'acqua. Non siete mai contenta, voi.
Gasparo Rialdi non assisteva a quelle nozze ch'egli, sebben riluttante,
poteva dire d'aver imposto con la punta della sua spada. Sventata, mercè
la benevola interposizione di qualche ufficiale superiore suo amico, la
tempesta che si addensava sul suo capo dopo la scena nel Casino e il
duello col Geisenburg, egli era partito da più giorni per la nuova
destinazione di Pola, datagli dal Comando della marina. In apparenza lo
si mandava a dirigere alcuni lavori a quell'arsenale, in fatto si voleva
tenerlo lontano dalla squadra del Levante ove serpeggiavano umori
rivoluzionari.


XVI.

Come _sior_ Bortolo aveva predetto, il matrimonio del contino Leonardo
rese intrattabile il signor Vinati, il quale vedeva frustrate le sue
speranze di dare un titolo alla figliuola. La moglie di lui, che aveva
tutte le bizze e tutti i rancori d'una femminetta arricchita, soffiava
nel fuoco e minacciava il marito della sua collera s'egli non esigeva da
quelle _Zelenze_ (e qui la signora Vinati aggiungeva un epiteto
energico) il puntuale rimborso del mutuo che scadeva appunto alla fine
dell'anno.--Non un giorno, non un'ora, non un minuto--strillava la
megera, implacabile come il destino. E anche altri creditori che fino
allora non avevano badato a qualche ritardo nel pagamento
degl'interessi, e non avevano mai detto di no alle domande di
rinnovazione, si facevano meticolosi ad un tratto e dichiaravano senza
cerimonie di non voler servire più da zimbello a nessuno. _Sior_ Bortolo
non sapeva a che santi votarsi. Invero, egli s'era già preparato la sua
brava ritirata; aveva un bel poderetto in Friuli e una casa piena di
grazia di Dio in Venezia, ma finchè c'era qualche osso da rosicchiare
nell'azienda, non gli bastava l'animo di abbandonare le Loro Eccellenze.
Povera gente! Sarebbero stati impicciati come pulcini nella stoppa.
Ormai la fama con le sue cento bocche spargeva dappertutto la notizia
della prossima rovina dei Bollati, e sul palazzo pesava la tristezza che
pesa sulle cose decrepite. Come suole accadere, i cosidetti amici di
famiglia s'erano dispersi; non c'era ragione, dicevano, di andar a
disturbar della gente che aveva tanti sopraccapi. Tutt'al più veniva
ogni giovedì e ogni sabato il nobile Canziani, visitatore poco
desiderabile, sia perchè pativa frequenti accessi di tosse, sia perchè i
suoi reumatismi gli rendevano difficile di mettersi a sedere quand'era
in piedi e di alzarsi quand'era seduto. I Rialdi, nella loro qualità di
genitori della sposa, bazzicavano in casa ancora più spesso del solito,
e pranzavano alla tavola dei parenti tre volte per settimana, ma stavan
sempre con tanto di muso, non potendo perdonare ai Bollati i loro
dissesti economici. Ed era di umor tetro anche don Luigi, il quale si
vedeva mancar lo stipendio da parecchi mesi, e presentiva di dover
presto abbandonare la sua sinecura, senza che gli fosse riuscito almeno
di stampare il libro da cui egli si riprometteva l'immortalità.
Ah come sarebbero rimaste male le _lustrissime_ Adriana e Marina,
padrone e protettrici del defunto Nicola se, uscendo dal sepolcro per un
momento, fossero penetrate nel salottino ch'esse avevano empito del loro
sorriso, del loro cinguettìo festevole, della loro grazia elegante! Come
avrebbero stentato a credere che fossero due Bollati quelle due donne
dalla faccia scialba e dall'aria abbattuta che sedevano una di fronte
all'altra davanti a un tavolino rischiarato da una lucerna a olio di cui
un cappello verde raccoglieva entro un breve cerchio i tremuli raggi,
mentre il resto della stanza era immerso nelle tenebre e la vecchia
lumiera di Murano, riscintillante un tempo per cinquanta fiammelle,
pendeva dal soffitto polverosa e dimenticata! Suocera e nuora talvolta
giocavano a _conzina_, talvolta stavano a guardarsi senz'aprir bocca.
Un'ombra scura si moveva nel fondo; era don Luigi che, sprofondato in
una poltrona, ora stirava le braccia, ora accavallava le gambe; poco più
in là Romeo, il soriano amatissimo dalla contessa, sonnecchiava e faceva
le fusa, rivolto a spira sopra uno sgabello imbottito. Ogni tanto S. E.
Chiaretta tralasciava a mezzo la partita o rompeva il silenzio per
infilar le sue solite querimonie, fedele al suo antico sistema di
presagire i maggiori guai senza esser capace di muovere un dito per
istornarli da sè. Don Luigi rincarava la dose delle lamentazioni,
Fortunata ascoltava pazientemente e taceva. Di tratto in tratto ella
guardava verso l'uscio come chi attende qualcuno. Ma la persona da lei
attesa non capitava. Capitava invece, prima di recarsi al Casino dei
nobili, o al teatro, o al caffè Suttil, il _lustrissimo_ Zaccaria, il
quale, dacchè le sue faccende volgevano alla peggio, era diventato più
loquace che mai, e discorreva de' suoi colossali progetti agricoli,
delle sue sognate rivendicazioni di feudi, d'una miniera aurifera
ch'egli credeva d'aver scoperto in uno dei suoi poderi del Friuli e
d'altre signorie fantastiche e cervellotiche.
Era forse in vista di queste ricchezze future che il conte Zaccaria,
nonostante i suoi rigidi principii sull'integrità del patrimonio, aveva
permesso che si cominciassero a vendere stabili e campagne. Rimedio che
veniva troppo tardi per acconciare le cose. I prodotti dei fondi
andavano nelle fauci dei creditori ipotecari, e quando si voleva
procurarsi quattrini per disporne a proprio talento era necessario
ricorrere allo spaccio furtivo (furtivo così per dire) di qualche
oggetto d'arte o d'antichità; oggi un quadro, domani una statuina di
bronzo, o un cammeo, o una collezione di porcellane, o un fornimento di
pizzi. La servitù, che stentava a riscuotere il salario, approfittava
della confusione e sottraeva ingegnosamente qualche coserella anche lei.
Già le loro Eccellenze, sollecite del proprio decoro, non avevano
stimato opportuno di licenziare i gondolieri, nè le cameriere, nè il
cuoco, e queste ottime persone avevano dichiarato di restarsene al loro
posto per solo amor dei padroni, aspettando tempi migliori. Anzi il
cuoco spingeva l'abnegazione fino a prestar l'opera sua al contino
Leonardo per agevolargli le sue particolari combinazioni finanziarie.
Non gli dava più danaro direttamente, ma lo aiutava a trovarne
ingarbugliando degli usurai acciecati dall'avidità del guadagno.
Conchiuso l'affare, il signor Oreste si prelevava la sua provvigione a
fronte, diceva lui, degl'interessi che gli spettavano per le sue
sovvenzioni passate. Altro che interessi! Se si fosse fatto il conto, si
sarebbe visto che il signor Oreste s'era da un pezzo rimborsato anche
del capitale, ma in famiglia Bollati non si facevano conti.
Subito dopo il matrimonio, il nostro contino aveva ripreso la sua vita
d'un tempo, e della moglie non si curava neppure. Che s'ella si
permetteva qualche timida rimostranza, egli prorompeva in bestemmie e in
contumelie e urlava che non lo seccassero, per Dio! Egli s'era sposato
per compassione, per misericordia, ma non intendeva di essersi messo un
laccio al collo, o voleva divertirsi, e star con gli amici e spassarsela
con femmine belle ed allegre; che già di lei, di Fortunata cioè, se ne
persuadesse pure, egli era stucco e ristucco.
Che pena devess'essere per Fortunata il subire un trattamento simile,
s'intende facilmente. Buon per lei che s'ella non aveva nessuna delle
qualità vigorose che servono a domare le avversità, possedeva però tutte
le virtù passive che aiutano a tollerarle. Alla brutalità del marito,
all'alterigia dei suoceri, i quali, pur non vedendola di mal occhio, la
consideravano poco più d'una cameriera, ella contrapponeva una calma,
una mansuetudine infinita. Le acerbe parole, gli sfregi celati o palesi
non potevano scancellare dal suo cuore la riconoscenza per Leonardo che
l'aveva sposata, per il conte Zaccaria e la contessa Chiaretta che
l'avevano accolta nella loro casa. Ed ella sperava di conquistarsi
meglio il suo posto quando le fosse nato il suo bambino, quel bambino
nel cui pensiero ella riposava la mente nell'ore più sconfortate e più
tristi. In quanto alla catastrofe finanziaria verso la quale si correva
a passo accelerato, ella non se ne angustiava troppo. Cresciuta nella
persuasione dell'immensa ricchezza dei Bollati, ella non concepiva
neanche la possibilità ch'essi avessero a cadere in miseria; sarebbero
diventati meno ricchi; la gran disgrazia davvero! Che bisogno aveva ella
di vestiti sfoggiati, di teatri, di gondole, di cavalli, di cocchi? D'un
po' d'amore ella aveva bisogno, ecco tutto, e quest'amore la sua
creatura almeno non glielo avrebbe negato.
Nei vecchi tempi, la nascita d'un erede in famiglia Bollati era un fatto
di grande importanza. I primi ostetrici della dominante prestavano le
loro cure alla puerpera, e i parenti e gli amici accorrevano in palazzo
ad attendere con trepida ansietà lo scioglimento favorevole della crisi.
Ma la povera Fortunata non ebbe il piacere di mettere in iscompiglio la
cittadinanza. La notte in cui ella fu colta dalle doglie il conte
Leonardo gozzovigliava in un'osteria con altri scapestrati suoi pari.
Avvertito delle condizioni in cui si trovava la contessa moglie--Io non
posso far nulla--egli disse giudiziosamente.--Bisogna chiamare la
levatrice.
E poichè lo assicurarono che quest'utile provvedimento era già stato
preso, egli soggiunse:--Quand'è così, lasciatemi in pace.
E seguitò a mangiare e a bevere fino alla mattina. Allora, tornando a
casa mezzo brillo, egli ricevette la lieta notizia che sua moglie, dopo
sofferenze non lunghe ma acute, aveva dato alla luce una bimba.
--Neanche buona di darmi un maschio--egli brontolò con mala grazia.
Alla piccina furono imposti i nomi di Chiaretta, Luigia, Adriana,
Teresa, Veronica, Margherita. Questo lusso di nomi era tradizionale
nelle femmine di casa Bollati, e non si volle che in ciò la nuova
contessina fosse da meno delle sue antenate. Delicato riguardo del quale
non sembra però che la neonata fosse molto riconoscente, perchè subito
dopo il battesimo ella principiò a strillare come un'ossessa e strillò
per tre giorni e tre notti consecutive. Trascorso questo termine, ella
perdette la voce e il fiato e si credette che sarebbe morta prestissimo.
Ma la madre con le sue carezze, co' suoi baci, con le dolci parole
susurratele nell'orecchio la persuase a vivere. Povere mamme egoiste! Vi
par proprio che la vita si apra così bella ai vostri figliuoli?
La piccola Margherita (era questo tra i sei nomi della fanciulla quello
con cui la si chiamava) prese un po' di carne e di colore appena fu
condotta in campagna. E Fortunata si sentiva così felice, così felice!
Quand'ella poteva star vicino alla bimba e chinarsi sulla sua cuna, e
covarla cogli occhi, e mirarne i moti inconscienti, e interpretarne il
linguaggio, ella non aveva tempo d'accorgersi di quant'altro succedeva
intorno a lei. Tutt'al più, qualche volta, le spuntava una lagrima sul
ciglio al pensar che Leonardo non si curava di quest'angioletta e non le
aveva dato ancora neppure un bacio. Del resto, il brontolio della
suocera, le visite frequenti di _sior_ Bortolo che lasciava sempre
dietro di sè uno strascico di nuvoloni, la turbavano mediocremente.
Certo la villeggiatura non era più quella d'un tempo; non c'erano
banchetti, non c'erano ospiti, ma che ne importava a lei che aveva la
sua Margherita?
Sua madre, la contessa Zanze, non riuscì a svegliarla che a mezzo dal
suo beato sopore. La contessa Zanze, com'era suo dovere, venne a far
visita ai parenti, e, quando fu sola con Fortunata, le riferì tutte le
chiacchiere della piazza sul conto dei Bollati, e le disse che s'era
giunti al punto di dover affittare il piano nobile del palazzo a un lord
inglese. Non avevan detto nulla a lei?.... No? Ah quest'era il conto in
cui si teneva la sua figliuola? Oh se si sarebbe fatta sentire! Ma
intanto si ricordassero tutti, anche Fortunata, che i nodi venivano al
pettine, e che per scampare dalla miseria bisognava almeno mettere in
salvo qualche cosa, prima che i creditori se ne impadronissero....
perle, diamanti, trine, oggetti insomma di poco volume e di molto
pregio. Aveva capito? Sì o no? Gran fatalità la sua di aver sempre da
fare con gente di poco cervello!
Fortunata non potè a meno di ripetere a suo marito i discorsi che le
aveva fatti sua madre, di chiedergli se ci fosse nulla di vero in tutto
ciò.
--Che ne so io?--egli rispose stringendosi nelle spalle.--Fanno,
disfanno, comprano, vendono, senza chiedere il mio parere.... Tutti
imbroglioni, tutti furfanti.... I nostri nonni, che Iddio li abbia in
gloria, hanno cominciato loro a sciupare il patrimonio e noi facciamo il
resto.... Io non voglio fastidi.... Finchè ce n'è, pretendo d'aver la
mia parte; quando non ce ne sarà più....
--Oh, Leonardo,--proruppe Fortunata,--non puoi parlare così.... Non sei
solo adesso.... Ci siamo.... c'è questa creaturina qui.... Per me, vedi,
mi rassegnerei a dormir sulla paglia, a viver di pane e acqua.... ti
giuro anzi che accetterei il sacrifizio con entusiasmo.... perchè
nessuno direbbe allora che t'ho amato per speculazione.... ma, lei, la
nostra Margherita, non ha da esser nata per patire.... non è vero,
Leonardo, che non lo permetterai?.... Guardala com'è bella, com'è bianca
e rosea.... Via, Leonardo--ella soggiunse, e i singhiozzi le rompevano
la voce--se anche ti son diventata incresciosa io.... se non puoi
proprio amarmi più, un po' di bene lo devi volere alla tua figliuola.
E così dicendo cercava di tirarlo vicino alla cuna. Ma egli, stizzito,
protestò che non poteva soffrire nè le donne che piagnucolano, nè i
bambini che allattano, e infilò l'uscio della stanza. Allora Fortunata
si gettò con la faccia in giù sui guanciali del letto e diede libero
corso alle sue lagrime.
Il vagito della bimba la scosse. Ella si rasciugò gli occhi e
ricomponendo il viso a un'espressione serena prese in collo la piccola
tiranna che urlava furiosamente. Accarezzata dallo sguardo e dalla voce
materna, Margherita si chetò a poco a poco e abbozzò il suo primo
sorriso.
--Oh, tesoro mio, anima mia!--esclamò Fortunata in estasi, e la sua
faccia s'illuminò tutta.--Come ride già! S'_egli_ fosse qui adesso!
S'_egli_ la vedesse!
E inebbriata da quel sorriso, dal primo sorriso della sua bimba, la
povera donna dimenticò i suoi dolori.


XVII.

Le notizie della contessa Zanze non tardarono ad aver piena conferma, e
l'affare del palazzo, già bene avviato quand'ella ne discorse alla
figliuola, fu concluso poco dopo. L'appartamento nobile, ammobigliato
come stava, era preso per due anni da un baronetto inglese ricchissimo,
il quale, pur di spuntarla, aveva dichiarato d'esser pronto a pagare
anticipatamente l'intera pigione in tante belle ghinee. Anzi può dirsi
che questa magnanima offerta aveva dato il tracollo alla bilancia e
vinte le obbiezioni del conte Zaccaria. Lo scrigno era vuoto, i bisogni
stringevano, e le ghinee del signore inglese capitavano molto a
proposito.
La famiglia Bollati decise di rimanere in campagna finchè fosse
allestito alla meglio il secondo piano del palazzo. Con altre parole, si
rinunziava a tornare a Venezia prima del San Martino di quell'anno 1845.
Quei sette mesi di villeggiatura forzata invecchiarono la contessa
Chiaretta di sette anni. Sempre chiusa fra quattro muri, sempre al buio,
ella non faceva che lamentarsi da mattina a sera. Rimpiangeva il suo
salottino di città che era caduto in mano di stranieri (luterani per
giunta), rimpiangeva il suo poggiuolo sul Canal Grande, rimpiangeva le
visite, il teatro, la gondola e tant'altre cose di cui ella a Venezia
godeva pochissimo ma che adesso le sembravano indispensabili perchè non
poteva averle.
Il resto della famiglia se la passava discretamente. Il conte Zaccaria
viveva nel suo mondo fantastico, e nel pensiero dei milioni che dovevano
venirgli, non si sa da che parte, si consolava dei milioni che gli erano
sfumati in mano. Di tratto in tratto egli faceva attaccare i cavalli e
con due giorni di viaggio andava nella sua tenuta del Friuli, tenuta
ch'era anch'essa, non occorre dirlo, sopraccarica d'ipoteche. Ivi
giunto, con molta gravità esaminava i terreni, e raccoglieva vari pezzi
di roccia, che poi spediva a qualche geologo di Venezia o d'altri paesi
con l'incarico di farne l'analisi. Oppure, chiudendosi in camera, egli
scartabellava alcuni documenti polverosi che aveva portato con sè in
campagna, e prendeva delle note circa a un credito di duemila zecchini
che nel 1685 i Bollati professavano contro un nobil uomo Steno. Quei
duemila zecchini con gl'interessi dal 1685 in poi che bella sommetta
avrebbero formato!
Quando il conte Zaccaria si era ben pasciuto delle sue illusioni, egli
era buono e degnevole anche con Fortunata. Le prometteva di farle fare
uno smaniglio col primo oro estratto dalla sua miniera, e di assegnare
una dote alla piccola Margherita prelevandola dalla prima rata del
credito che avrebbe incassato dagli eredi Steno. Fortunata non badava
alle promesse, ma i modi affabili del suocero le recavano un gran
conforto; sentiva d'esser riconosciuta, non più tollerata soltanto,
nella famiglia, quando egli le parlava così. Talvolta egli usciva con
lei in giardino e, appoggiato al suo braccio, percorreva i sentieri su
cui cresceva l'erba, i viali ove i rami degli alberi non rimondati da
mano esperta s'intrecciavano disordinatamente fra loro, e diceva che
nella villa c'erano infiniti bisogni, e ch'egli ci avrebbe pensato
appena avesse avuto quattrini. Voleva scrivere a suo genero, che di
queste faccende se ne intendeva, perchè gli mandasse un giardiniere
tedesco, voleva ricostruire di pianta alcune case coloniche e migliorare
le stalle e rinnovar le stufe dei fiori, e a tante altre belle cose
voleva provvedere a tempo e luogo. Discorsi da far pietà a chi sapeva le
condizioni vere del patrimonio. Fortunata, poverina, non si
raccapezzava. Ora temeva che il conte Zaccaria non avesse più il
cervello a posto, ora invece sperava che il diavolo non fosse così
brutto come lo si dipingeva, e che ci dovesse esser pure una via
d'uscita dagl'impicci presenti. Quantunque i segni dello sfacelo fossero
anche troppo visibili, Fortunata si trovava tuttora in mezzo ad agi
ch'ella non aveva mai goduti in sua casa. Una grande fortuna somiglia
un poco al sole d'estate che lascia dietro di sè un lungo crepuscolo; il
passivo, come dicono gli uomini d'affari, può superar di molto l'attivo,
e nondimeno le apparenze della ricchezza continuano per un pezzo ad
abbagliare gli estranei, a illuder quelli medesimi che sono immersi nei
debiti fino alla gola. Sicuro; il palazzo di campagna dei Bollati era in
condizioni deplorevoli, ma era sempre uno tra' più bei palazzi che
fossero sulla Brenta; il giardino era negletto, ma era sempre un
giardino ampio e signorile, e il podere contava più campi che non ne
contassero sommati insieme gli altri dei possidenti vicini. Per miglia e
miglia i contadini riconoscevano per padroni le loro Eccellenze Bollati,
e Fortunata riceveva anch'essa inchini e scappellate a profusione e il
titolo di _lustrissima_ a ogni momento. Che più? La stessa Margherita
era considerata una principessina, e allorchè tirata dalla bambinaia nel
suo paniere a ruote ella si recava a visitar la famiglia del bovaro, i
bimbi le facevano una festa da non dirsi e mettevano tutto l'impegno per
farla sorridere. In principio riuscivano spesso all'effetto opposto,
specialmente quando se ne immischiava Leone, il grosso cagnaccio nero
dal pelo irto e dalla voce di basso profondo. Ma alla lunga Margherita
s'era avvezzata al chiasso dei fanciulli e alle dimostrazioni romorose
del cane, e dalla sua cuna orlata di trine pareva prender parte a
quell'allegria, e agitava le sue manine color di rosa, e girava intorno
gli occhietti azzurri, e metteva certi piccoli strilli che volevano
esprimere l'eccesso della gioia. Povera Margherita! Che ne capiva lei
del temporale che rumoreggiava sempre più minaccioso?
Adesso però ci conviene appagare una legittima curiosità del lettore.
Come si adattava a quella vita campestre il contino Leonardo, uso in
Venezia a far di notte giorno nelle osterie e nei bordelli? Certo doveva
esservi una ragione perchè egli, incapace di far nulla pegli altri,
s'acconciasse a sacrificare ciò a cui teneva di più, vale a dire le sue
abitudini viziose.
La ragione era questa. Leonardo aveva riappiccato con molto maggior
fortuna di un tempo le sue relazioni con la Rosetta, quella Rosetta
nipote del gastaldo ch'era andata sposa a Menico caffettiere. Ell'era
maritata ormai da più anni, durante i quali il conte Leonardo non
l'aveva vista, si può dire, che alla sfuggita, giacchè serbava ancora
memoria delle busse avute per causa di lei e non voleva rischiar di
pigliarne dell'altre. Ma quel soggiorno forzato di parecchi mesi in
campagna gli aveva messo addosso di nuovo il solletico, ed egli aveva
spinto ripetutamente le sue peregrinazioni fino ad Oriago a prendervi un
bicchierino di rosolio dalla bella caffettiera. Infatti Rosetta era più
bella che mai, d'una bellezza sensuale, lasciva, con un paio d'occhioni
neri che mandavano fiamme e certe rotondità baldanzose innanzi alle
quali gli eleganti d'Orlago esaurivano l'intero dizionario dei vocaboli
ammirativi. Di riputazione la Rosetta stava maluccio e l'accusavano
d'aver tresche con questo e con quello; ella poteva rispondere a ogni
modo che viveva in ottimo accordo con suo marito, e contento lui,
nessuno aveva diritto d'impicciarsene.--Non voglio gelosie, non voglio
scene--eran state le sue prime parole dopo le nozze, e il buon Menico le
aveva giurato di non darle noia, nè con scene, nè con gelosie. Lo stesso
spirito di tolleranza ella imponeva agli amanti che le male lingue le
attribuivano; s'ella usava dei favori a qualcheduno, non intendeva per
questo di lasciarsi mettere i piedi sul collo da chicchessia. I
violenti, gli appassionati non avevano fortuna con lei; la sua
benevolenza era riserbata ai mansueti ch'ell'era sicura di menar per il
naso, o agli scapati di umore gioviale che nemmeno sapevano dove stesse
di casa la fedeltà.
Rosetta capì subito che il conte Leonardo al primo rivederla aveva
pigliato fuoco come una volta, e le parve che quello fosse un uomo da
farne ciò che si voleva. Inoltre, rovinato o no, egli aveva sempre un
gran nome e aveva ancora qualche zecchino in tasca, onde Menico il
caffettiere fu pronto a riconoscere che bisognava trattar con tutti i
riguardi un avventore il quale non poteva che dar credito alla bottega.
A poco a poco il contino Bollati spesseggiò le sue gite a Oriago sino
a venirci ogni giorno; ci veniva solo nella più modesta carrettina
della rimessa, tirata dai più modesto cavallo della scuderia, un
cavallo che sarebbe andato da sè e che lo stesso Leonardo si fidava di
guidare. La vispa Rosetta, appena il suo nobile avventore entrava nel
caffè, gli moveva incontro ufficiosa, gli dava del _lustrissimo_,
dell'_Eccellenza_, gli domandava notizie della sua preziosa salute e gli
portava con le sue mani il solito bicchierino. Allora, se non c'era
nessuno, egli se la faceva sedere accanto e mesceva il rosolio anche a
lei e la supplicava di non farlo sospirar altro, chè aveva già sospirato
abbastanza. Ella, disposta a cedere, voleva però mettere a prezzo le sue
compiacenze, voleva che questo babbeo le servisse a qualcosa. In tal
guisa, quando finalmente gli capitò la ricompensa meritata, egli aveva
speso un bel gruzzolo di denari ch'erano stati impiegati in parte a
ristaurar la bottega. Figuriamoci gli epigrammi che si fecero in
quell'occasione! I muri, quantunque meno eloquenti di quello che non
siano al nostro tempo, furono coperti di scritte ove al nome del
caffettiere e a quello della moglie s'aggiungevano degli epiteti tolti
al regno animale. Nè il cospicuo lignaggio fu sufficiente difesa al
conte Leonardo. Anch'egli lesse il suo nome, l'illustre nome dei
Bollati, seguito da un appellativo ingiurioso, e pensò che sua madre
aveva ragione di dire che la petulanza dei carbonari non aveva più
limite. Infatti bisognava esser carbonari per mancar di rispetto in
quella maniera a un nobile veneto. Comunque sia, l'esempio di Menico e
della Rosetta, i quali pigliavano la cosa con la massima indifferenza,
persuase il conte Leonardo a calmarsi.
Forse Menico e la Rosetta non avevano torto. Quelle iscrizioni concise
ed espressive restarono per un pezzo a far bella mostra di sè sulle
muraglie, ma la filosofia di coloro che v'eran presi di mira spuntò gli
strali della satira, e gli abitanti del villaggio, ch'eran gente di
buona pasta, non istettero molto ad amnistiare le relazioni amichevoli
della Rosetta e del conte Leonardo Bollati. Anzi il conte finì
coll'esser considerato un personaggio attinente alla bottega, una specie
di patrono, di capitalista a cui gli avventori facevano giunger
rispettosamente la manifestazione dei loro desideri e delle loro
lagnanze. Se lo zucchero non era abbastanza dolce, se il caffè sapeva di
paglia, se le carte da giuoco eran troppo unte, si diceva una parolina
al signor conte ed egli provvedeva a far cambiare lo zucchero, il caffè
e le carte da gioco; se un vetro era rotto, si diceva al signor conte
ch'era una bruttura il turare il buco con un foglio di carta oliata, ed
egli mandava subito pel finestraio. Con questo savio sistema Sua
Eccellenza Leonardo si conciliava le grazie della Rosetta, la tolleranza
di Menico e la benevolenza universale. Però c'era una difficoltà.
Bisognava aver sempre la borsa fornita, e la borsa del contino Bollati
si smungeva rapidamente. Finchè egli aveva avuto anelli, spille o altra
roba di valore, il servizievole signor Oreste lo aveva aiutato con
grandissimo zelo. Il valentuomo, che una volta alla settimana si recava
a Padova pei doveri d'ufficio, sia che impegnasse o vendesse davvero gli
oggetti affidatigli, sia che fingesse d'impegnarli o di venderli e li
tenesse invece per sè, tornava sempre con un po' di danaro. Ma quando
non ci fu più nulla, il signor Oreste mutò contegno e linguaggio, e
disse che non solo egli non voleva più favorire i vizi di Sua
Eccellenza, ma era deciso a pensare ai casi propri e a far qualche passo
per mettere al sicuro il suo vecchio credito. Allora il nostro
giovinotto cominciò a presentarsi alla Rosetta con le mani vuote, e
trovò accoglienze assai diverse da quelle d'un tempo. La furba
caffettiera gli teneva il broncio; Menico, forse catechizzato dalla
moglie, lo guardava con piglio sospettoso, come se fosse stato colto da
un tardo accesso di gelosia; gli avventori della bottega avevano l'aria
di canzonarlo, e prima che fosse terminata la villeggiatura il povero
contino Leonardo fu pulitamente messo alla porta dalla sua bella.
In quel torno di tempo accadde un fatto d'incontestabile gravità. Il
signor Oreste non aveva voluto che le sue minaccie rimanessero prive
d'effetto, ed era ricorso a un legale per vedere in qual modo egli
potesse far valere le sue ragioni contro il contino Leonardo. Noi
sappiamo che il contino Leonardo gli aveva sottoscritto parecchie
cambialette, le quali erano sempre nelle mani del sovventore e
figuravano come non pagate. Il legale, pur dicendo ch'era un affar
serio perchè si trattava di prestiti a un minorenne, promise di tentar
qualche cosa, e tentò realmente un accomodamento amichevole con _sior_
Bortolo, l'agente generale. Ma, in primo luogo, non c'eran quattrini nè
pochi nè molti, e poi _sior_ Bortolo montò su tutte le furie sentendo
che il cuoco gli faceva la concorrenza nell'imbrogliare i padroni, e
scrisse di buon inchiostro alle Loro Eccellenze. Il conte Zaccaria e la
contessa Chiaretta questa volta pigliarono fuoco anche loro, e la
contessa soprattutto fece al signor Oreste una scena non più vista, nè
udita. Era tanto e così strano il furore della gentildonna che don Luigi
uscendo sbigottito dalla sua camera fu in dubbio se dovesse
esorcizzarla.
La conclusione si fu che il signor Oreste ebbe quarantott'ore per far
fagotto. Ed egli partì infatti, ma, partendo, commise un delitto sì
atroce che il labbro rifugge dal raccontarlo. Come s'egli volesse
lasciar buona memoria di sè, nel giorno precedente a quello in cui egli
doveva andarsene, egli allestì un pranzo squisito, degno di qualunque
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