Dal primo piano alla soffitta - 07

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incapricciasse della Fortunata, una giovinetta senza forme e senza
colore, che aveva diciott'anni e ne mostrava sedici, e con la quale egli
aveva giocato alla bambola? E per peggio, il diavolo ci doveva metter la
coda; anche un bimbo in prospettiva ci doveva essere!--Già--notava in
cuor suo il lustrissimo Zaccaria--un gran sangue quello dei Bollati.
Sicuro, un gran sangue. Ma intanto (poichè non s'era nemmeno potuto
effettuare l'andata in campagna a cagione di un'epidemia di tifo che
infestava in quei mesi i pressi della villa) non c'era modo di levarsi
d'attorno la contessa Zanze, la quale voleva che si rendesse l'onore
alla sua creatura, e s'era ostinata a non veder altro risarcimento
possibile che il matrimonio. E non si lasciava mica scoraggiare dalle
ripulse, ma tornava alla carica col _lustrissimo_ Zaccaria, o con la
_lustrissima_ Chiaretta, o con Leonardo, o con don Luigi, che nella sua
qualità di ecclesiastico avrebbe pur dovuto capire quale fosse l'obbligo
sacrosanto dei suoi padroni.
Don Luigi, uomo alieno dai fastidi, aveva in principio adottato la
tattica di non credere all'importanza della cosa.
--Esagerazioni, esagerazioni--egli diceva.--Le ragazze senza esperienza
prendono spesso lucciole per lanterne.
La contessa Zanze si sentiva il prurito di graffiargli gli occhi.--Ma
che lucciole, ma che lanterne? Metterebbe forse in dubbio quello che
Leonardo confessa?
--I giovinotti, si sa, hanno l'abitudine di vantarsi.
--Auff! Ma se il medico ha dichiarato che mia figlia... via, non lo sa
quello che ha dichiarato il medico?
--Bisogna star a vedere, bisogna aspettare... I medici, cara contessa,
pigliano tanti granchi a secco.
Finalmente don Luigi si arrese all'evidenza. Gli dispiaceva, proprio da
galantuomo gli dispiaceva assai. Ma che poteva farci? Le Loro Eccellenze
non ricorrevano a lui per consiglio... eh, pur troppo, i preti non eran
più tenuti nel conto d'una volta.... E poi era un affare
difficilissimo;... tutte le soluzioni avevano i loro inconvenienti...
senza dubbio il matrimonio riparava al mal fatto... ma c'erano le sue
obbiezioni, oh se c'erano....
La contessa Rialdi non voleva ammettere che ce ne fossero affatto, si
riscaldava, usciva dai gangheri, e pretendeva tener responsabile il
sacerdote della cattiva condotta del suo allievo. Allora anche a don
Luigi saltava la mosca al naso, e, accendendosi in viso, egli dichiarava
che aveva instillato al contino principii di moralità e di religione, e
che non era colpa sua se l'altro non aveva saputo trarne profitto.
Insomma perchè lo tiravano in ballo lui? Perchè non lo lasciavano
attendere in pace a' suoi studi?
Coi cugini Bollati la contessa Zanze era a vicenda umile e petulante,
supplichevole e minacciosa. Vantava i servigi da lei resi a Leonardo
durante la sua malattia e così indegnamente ricambiati, dipingeva coi
più tetri colori lo stato della propria famiglia dopo la catastrofe;
Fortunata che si stemperava in lagrime; il conte Luca che ci rimetteva
la pelle dall'avvilimento; oh se ce la rimetteva; lei ch'era invecchiata
di più anni in pochi giorni e ch'era sostenuta soltanto dall'idea di
giovare agli altri;... senza contare poi Gasparo che navigava nelle
acque del Levante e che ancora non sapeva nulla, ma che quando avesse
saputo.... Misericordia! Era meglio non pensarci neanche.
Quest'era il nembo lontano che ruggiva nei discorsi della contessa, ma
di lì a poco tornava il sereno, tornava l'idillio pastorale. Che moglie
più amorosa di Fortunata poteva mai trovare Leonardo; che nuora più
devota, più ubbidiente potevano trovare il conte Zaccaria e la contessa
Chiaretta? Non era una Venere, ma non era nemmen brutta e spiacente, e
poi aveva tutto le qualità morali che è lecito desiderare in una
ragazza... buona, docile, pia.... Era povera sì, pur troppo, non aveva
dote; ma che bisogno avevano di dote i Bollati?... Che cos'è il danaro?
Che cos'è la ricchezza?... In quanto alla nobiltà dei Rialdi, nessuno
pretendeva che essa fosse paragonabile a quella dei Bollati, ma era
sempre una nobiltà genuina, co' suoi documenti in regola, non una delle
tante che circolano per la piazza.
Ma la parte più commovente delle arringhe della contessa Zanze era
quella che si riferiva al nascituro. Ella s'inteneriva al solo pensarci.
Lo amava già con tutta l'anima quel suo nipotino. Ed era anche nipotino
loro, dei Bollati; era, voglia o non voglia, un Bollati... Possibile che
si rifiutassero di riconoscerlo?... Bisognava altresì considerare che
vantaggio inestimabile sarebbe stato per Leonardo il prender moglie....
Era forse l'unico modo di sottrarlo davvero alle tentazioni, alle
cattive amicizie e ai cattivi esempi.
Insomma la loquace femmina tratteggiava ai Bollati un quadro compiuto di
felicità domestica. Che se le riusciva di abbrancar Leonardo (e non era
cosa facile) rincarava la dose. Aveva a un passo il Paradiso ed esitava
ad entrarci, quel disutilaccio.
Malgrado della sua furberia, la contessa Zanze non s'appigliava al mezzo
migliore per far entrare in grazia il matrimonio a Leonardo. La
prospettiva delle gioie casalinghe non lo seduceva punto, e chi avesse
voluto persuaderlo a sposarsi avrebbe agito più saviamente dicendogli
che il matrimonio era una semplice formalità, e che dopo le nozze egli
avrebbe potuto menar la solita vita, senza paura che la moglie lo
tormentasse con tenerezze o con gelosie, o che i figliuoli gli
ruzzolassero fra le gambe o lo assordassero coi loro strilli.
Tutto considerato, i maggiori ostacoli all'adempimento del gran disegno
della contessa Zanze non venivano nè dal _lustrissimo_ Zaccaria, nè
dalla _lustrissima_ Chiaretta. Certo ch'essi non favorivano l'unione da
lei vagheggiata, certo che avrebbero voluto anzi impedirla, ma non
avevano per essa una di quelle ripugnanze invincibili che fanno cascar
le braccia e troncano le parole in bocca a chi difende una causa.
Il conte un fondo di gentiluomo l'aveva; egli capiva che il danno recato
da suo figlio ai Rialdi non è di quelli che si risarciscano con l'oro, e
che non era una bella cosa pei Bollati il restar con quella macchia sul
loro nome, e che la contessa Zanze non aveva torto a veder una sola
riparazione possibile....; quantunque fosse lecito sospettare ch'ella
avesse una gran parte di colpa in ciò che era accaduto.
La _lustrissima_ non era mossa dalle ragioni di suo marito. Ella non
poteva soffrire quella inframmettente e pettegola cugina Rialdi e non
avrebbe voluto fargliela spuntare a nessun prezzo; giacchè per lei non
c'era dubbio ch'era tutto un intrigo ordito dalla Zanze, la quale adesso
spargeva lagrime di coccodrillo; ma d'altro lato ella s'era tanto
avvezza ad aver intorno a sè Fortunata, a farsene servire come da una
cameriera o da una dama di compagnia, che non sapeva rassegnarsi
all'idea di dover perderla. E allora era costretta ad ammettere che,
realmente, come diceva la contessa Zanze, una nuora simile essa non
l'avrebbe trovata mai, e che una gran signora avrebbe portato chi sa che
fumi in casa.
L'avversario più accanito, più formidabile dell'unione fra Leonardo e
Fortunata era l'agente generale, _sior_ Bortolo, il quale, tanto per
procurarsi nuovo danaro quanto per tener a bada i vecchi creditori,
aveva necessità assoluta di ripetere su tutti i tuoni che presto o tardi
gli affari della nobile famiglia s'accomoderebbero con un cospicuo
matrimonio del signor contino. Al principale poi fra questi creditori,
certo signor Vinati, usuraio desideroso di nobilitarsi, _sior_ Bortolo
non voleva togliere ogni speranza di vedere un giorno contessa la sua
unica figliuola che stava per uscir di collegio e aveva gli occhi
scerpellini, i denti guasti e cinquecento mila lire austriache di dote,
astrazion fatta da ciò che le spettava alla morte del padre.
Cosicchè, sempre col debito rispetto alle Loro Eccellenze, il brav'uomo
disse aperto l'animo suo. Non conveniva esagerare in nulla, nemmeno
negli scrupoli. Un ragazzo di vent'anni che seduce una ragazza di
diciotto non è più responsabile di lei che s'è lasciata sedurre....
ammesso anche che le parti non siano state invertite e che la ragazza,
ubbidiente ai consigli di una madre artificiosa, non sia stata lei la
vera seduttrice. A ogni modo, ci vorrebbe altro che in tutti i casi di
questo genere si finisse col matrimonio! L'esservi un bimbo per istrada
era senza dubbio un impiccio di più, era una disgrazia, ma si poteva
vedere, studiare una soluzione decorosa, soddisfacente.... Il matrimonio
egli, in coscienza, per la sua gran devozione ai padroni, doveva
sconsigliarlo con tutte le sue forze. Quando si ha nome Bollati, si
hanno degli obblighi verso il paese, verso la società, ed era evidente
che queste nozze non corrispondenti alla grandezza del casato nè sotto
l'aspetto morale nè sotto l'aspetto economico avrebbero prodotto una
pessima impressione. E poi, era inutile dissimularlo, gli anni
continuavano a esser cattivi, c'eran sempre batoste nuove, pur troppo,
alcune innovazioni agricole introdotte dal signor conte, sebbene
eccellenti in sè, non eran riuscite, le tasse crescevano, crescevano gli
interessi dei mutui; alle corte, se il contino Leonardo si risolveva ad
ammogliarsi era indispensabile ch'egli facesse entrar di molti quattrini
in famiglia. E _sior_ Bortolo concludeva, come per tastare il
terreno:--Insomma, sul blasone si può transigere; perchè quello dei
Bollati basta per tutti, ma non si può transigere sui danari.
Alleati di _sior_ Bortolo, se non molto efficaci certo molto romorosi,
erano i Geisenburg-Rudingen von Rudingen, i quali erano venuti a saper
la cosa e tempestavano i genitori e suoceri di lettere scritte in lingua
austro-italica. Per carità non si lasciassero tirar nelle reti dalla
Zanze Rialdi. Non dessero alla scappatella giovanile di Leonardo più
peso di quello ch'essa meritava. Il matrimonio dell'ultimo rampollo
maschio dei Bollati con una ragazza nè bella, nè ricca, nè
sufficientemente nobile avrebbe alienato i parenti e gli amici. Se
Leonardo doveva ammogliarsi, si cercasse un partito degno di lui. Anzi,
a questo proposito, si riserbavano di discorrerne personalmente in
Venezia, dove non eran più tornati dopo il 1838 e dove si disponevano a
venir prestissimo per abbracciare il conte Zaccaria, la contessa
Chiaretta e il caro Leonardo, fattosi ormai un bel giovinotto.
Non c'è bisogno di soggiungere che in queste difficili contingenze anche
gli amici di casa volevano dir la loro opinione. E naturalmente non
andavano d'accordo. La contessa Ficcanaso, per esempio, era furibonda
alla sola idea che i Rialdi potessero vincere il loro punto, e urlava
che sarebbe un pessimo esempio, e che tutte le ragazze sarebbero
incoraggiate a far le civette e peggio, e che nessuna madre di famiglia
avrebbe voluto più condur le figliuole in palazzo Bollati se fosse
successo quello scandaloso matrimonio. Certo, s'ella fosse stata madre
di famiglia, non ci avrebbe più posto il piede. Invece il nobil'uomo
Canziani sosteneva, secondo le sue deboli forze, la causa di Fortunata,
e un buon canonico di San Marco, monsignor Evaristo Lipari, commensale
dei Bollati nelle grandi occasioni, aveva assicurato la contessa Zanze
che farebbe il possibile per ottenere la benevola interposizione di S.
E. il Patriarca.
Nondimeno la contessa Zanze, vedendo che passavano i giorni senza
frutto, ricorse ad un alleato più energico e scrisse a Gasparo
informandolo dell'ultime vicende domestiche, e sollecitandolo a
procurarsi una licenza di alcune settimane e ad accorrere in aiuto di
sua sorella.


XIII.

E Fortunata?
Che trasformazione succedesse in lei allorchè il vero le fu interamente
palese, ce lo dirà una sua lettera, ch'ella, di nascosto dei suoi
genitori, fece pervenire in quei giorni al cugino.
«_Caro Leonardo,_
«Le conseguenze del nostro fallo non saranno più un segreto nemmeno
per te. Dapprima, te lo giuro, credetti di morirne per la vergogna.
Ma a poco a poco s'impadronì di me un nuovo sentimento, che
dev'essere assai forte in noi donne se riesce a soverchiare tutti
gli altri, il sentimento della maternità. Più disonorata che mai al
cospetto del mondo, mi pare d'esser meno infelice. Quando tu mi
dichiarasti che bisognava troncare le nostre relazioni, io ero
fermamente decisa a seppellirmi in un chiostro, e son sicura che
nulla avrebbe potuto rimuovermi dal mio proposito. Tu non mi amavi;
che mi rimaneva da fare? Ma oggi ho mutato idea. Certo non potrei
entrare adesso in convento; e come vi entrerei più tardi quando avrò
_qualcheduno_ da difendere, da proteggere? E poi, perchè negarlo? Io
penso che questa creaturina che mi palpita in seno è un vincolo
sacro fra noi due, un vincolo che tu puoi sprezzare, ma non puoi
distruggere. E malgrado delle tue parole crudeli, io son sempre tua,
Leonardo, ed è un conforto per me che qualche cosa del nostro amore
sopravviva. Chi sa, un giorno forse, se non della madre, tu potrai
rammentarti del figlio.
«E ancora questo voglio dirti. Se mi abbandonai fra le tue braccia
non fu per un calcolo vile. Checchè ti susurrino nell'orecchio, non
credermi capace di tanta bassezza. Te lo giuro in nome della mia, in
nome della _nostra_ creatura, io ti amai come s'ama a diciott'anni,
senza guardare più in là, senza pensare che tu sei ricco e io son
povera.
«Addio, Leonardo, nessuno ti vorrà bene quanto te ne volle, e, pur
troppo, te ne vuole ancora
«_la tua_ FORTUNATA.»
Questa lettera non ebbe risposta; già, fra le altre ragioni per non
rispondere, Leonardo ne aveva una di eccellente; egli sarebbe stato
molto impicciato a metter quattro righe in carta. Come si vede, le
lezioni di don Luigi avevano dato ottimi frutti.
Tuttavia Fortunata sperava. Ella sperava nel ravvedimento spontaneo di
Leonardo, indipendentemente dal grande anfanare della contessa Zanze, la
quale non istava mai cheta, andava, veniva, prorompeva in brevi
esclamazioni, sempre ravvolgendo però in un profondo mistero le sue
mosse strategiche.
Chi teneva molte ore di compagnia alla figliuola era il conte Luca, al
quale l'occasione di mostrare, secondo il detto memorabile della
contessa Zanze, s'egli fosse un uomo o un _pampano_ era mancata
assolutamente per colpa della moglie medesima che l'aveva lasciato in
disparte. Nondimeno Fortunata gli era gratissima dell'averle sacrificato
la sua partita a scacchi al caffè della _Vittoria_, e per ricompensamelo
faceva le viste di gustar molto i suoi pettegolezzi d'ufficio e
consentiva a studiare sotto di lui il nobile giuoco, inestimabile
conforto, diceva il conte, in tutte le tribolazioni della vita.
Senonchè, in mezzo a tante cure che l'angustiavano, Fortunata andava
soggetta a frequenti distrazioni. Talora, mentre il padre s'affannava a
spiegarle un gambitto di re o di regina, ella con gli occhi fissi verso
l'uscio guardava se per avventura comparisse Leonardo, ovvero, raccolta
in sè stessa, seguiva altre fantasie.--Sarà un maschio? Sarà una
femmina? A chi somiglierà?
Vagando in questi pensieri, ella ebbe un giorno un gran rimescolamento
del sangue, ebbe un impeto di tenerezza che la fece sciogliere in
lagrime.
--Misericordia! Che altri malanni ci sono?--esclamò il conte Luca, il
quale non osava attribuire questa subitanea commozione al racconto di
alcune facezie burocratiche con cui egli la intratteneva.
Ella gli gettò le braccia al collo: e seguitava singhiozzando:--Povero
piccino! povero piccino!
Il conte Luca non osava fiatare, e diceva tutt'al più:--No, Fortunata,
no, non conviene agitarsi. Il medico te l'ha proibito. Mi spiego?
Ma Fortunata non gli dava retta e si lasciava portar via dai suoi
pensieri.
--Gli vorrà bene, babbo?.... Chi sa quanto bisogno avrà che gli vogliano
bene!
--Sicuro che gliene vorrò.... che domanda!.... Non è mio nipote?--E il
conte soggiungeva aspirando una grossa presa di tabacco e rasciugandosi
una lagrimetta col dorso della mano:--Ma! Speriamo che tutto finisca
secondo giustizia, mi spiego?
Un po' per le piccole sofferenze inerenti alla sua condizione, un po'
per lo stato del suo animo, Fortunata non sapeva risolversi a uscire e
non vedeva nessuno fuori che il canonico, il quale, buona pasta d'uomo,
veniva ogni tanto a far l'ufficio di confortatore e a dire che non aveva
ancora potuto indurre Sua Eminenza Reverendissima a parlare al conte
Zaccaria, ma che non dubitava punto di indurvelo quanto prima. E una
parola di S. E. sarebbe bastata senz'altro, perchè i Bollati eran gente
religiosa, e lo stesso Leonardo, così scappato e vanesio, adempiva
sempre alle pratiche del culto.
--E quando c'è la religione,--concludeva monsignore,--c'è l'essenziale.
Però la contessa Zanze non era soddisfatta. _Sior_ Bortolo era duro come
un macigno, e adesso erano venuti giù dalla Moravia anche i Geisenburg e
s'erano accampati nel palazzo riempiendolo di boria e di fumo. Vederlo
quel marchese Ernesto! Un po' meno pingue, ma più pettoruto di quello
che fosse sei anni addietro, trasudava la superbia da tutti i pori. Ella
invece, la marchesa, era diventata magra come una sardella, ma in quanto
a superbia non aveva nulla da invidiare a suo marito. S'era appena
degnata di salutare la contessa Zanze (che pur se l'era tenuta sulle
ginocchia) e poi aveva detto (questo lo riferivano le persone di
servizio) che non capiva come i suoi genitori ricevessero ancora _certa
gente_.
Di Fortunata i Geisenburg sparlavano senza misura. E ridevano fra di
loro della sua pretensione stravagante di farsi sposare perchè Leonardo
s'era levato un capriccio con lei. Faccenda da accomodarsi con qualche
centinaio di zecchini, fissando poi una piccola pensione pel bimbo se si
volevano spinger gli scrupoli all'estremo. Di spose convenienti per
Leonardo ne avevano loro, i Geisenburg, da proporne una mezza dozzina,
tutte ricche, tutte della prima nobiltà austriaca, tutte registrate
nell'almanacco di Gotha. E anzi un cameriera di casa Bollati, che aveva
il vizio di stare in ascolto dietro gli usci e che pretendeva di capire
il tedesco, assicurava che tra marito e moglie avevano già fissato la
ragazza da preferirsi.
Probabilmente non c'era in tutto ciò nulla di serio, tanto più che per
la scelta della sposa, se una sposa ci doveva esser davvero, _sior_
Bortolo avrebbe voluto indubbiamente aver voce in capitolo. A ogni modo,
mentre le cose stavano in questi termini arrivò a Venezia Gasparo
Rialdi.
L'appello materno gli era pervenuto in un momento critico della sua
vita. Già da qualche mese tre ufficiali della marina austriaca,
amicissimi suoi, Attilio ed Emilio Bandiera e Domenico Moro, nomi che
l'eroismo e la sventura resero sacri, erano fuggiti a Corfù col
proposito di gettarsi sul primo lembo di terra italiana ove fosse
possibile di alzare il grido della riscossa contro i tiranni stranieri e
domestici. Partecipe dei loro disegni e non meno deliberato a dar per la
patria il suo braccio e il suo sangue, Gasparo Rialdi però non aveva
creduto l'ora propizia pel magnanimo tentativo e aveva scongiurato quei
valorosi a serbarsi per tempi migliori. E forse essi avrebbero accolto
il suo consiglio, se il timore di esser già spiati dalla polizia
imperiale non li avesse indotti a precipitare la diserzione. Con che
cuore Gasparo li avesse visti partire è facile immaginarlo. Ed è facile
immaginare con che ansietà egli avesse seguito le loro vicende.
L'incrollabile fermezza di Emilio di fronte alle preghiere e alle
lacrime della misera madre volata a Corfù nella primavera di quell'anno
1844 per iscongiurare l'imminente sciagura, la fiera dichiarazione
pubblicata dai due fratelli in un giornale di Malta in risposta a un
editto dell'Ammiragliato austriaco, la lettera scritta da Domenico Moro
al comandante della sua nave per ispiegargli la propria condotta,
commossero in quei tempi, prima ancora della tragedia di Cosenza, quanti
erano spiriti gentili nella penisola. E Gasparo, ch'era stato il
confidente di quei giovani audaci e che, pronosticando col lucido
ingegno l'inanità dell'impresa s'era invano sforzato di trattenerli,
aveva poi sentito un acre rammarico a non esser con loro, ad aver
piuttosto ubbidito alla voce della ragione che agl'impeti
dell'entusiasmo. La notizia sparsasi nella seconda metà di giugno che i
Bandiera coi loro seguaci fossero sbarcati in Calabria diede nuova esca
al fuoco, e il nostro giovane ufficiale al quale pareva di meritarsi la
taccia di codardo, studiava già i modi di raggiungere gli amici, quando
la lettera di sua madre gli additò un dovere sacro, preciso, immediato a
cui non gli era lecito di sottrarsi.
Livido di sdegno e di rabbia, Gasparo Rialdi, appena ricevuto quel
foglio, si presentò al suo comandante pregandolo d'accordargli un
congedo d'un mese per motivi gravissimi di famiglia.
Il comandante, austriaco fino al midollo dell'ossa, ma buono di cuore e
amoroso dei suoi dipendenti, fu fieramente turbato da quella richiesta,
e cercando di leggere nella fisonomia stravolta dell'ufficiale:
--Che avete, Rialdi?--gli disse.--Non vi si riconosce più.
L'altro si schermì dal rispondere e insistette sulla necessità che aveva
di partir subito per Venezia.
--Mi date proprio la vostra parola d'onore che partite per Venezia?
Solamente per Venezia?
Gasparo Rialdi comprese il significato della domanda e proseguì con voce
ferma:--Sì, le do la mia parola d'onore.
--Ebbene, ebbene,--brontolò il comandante ordinando allo scrivano di
redigere il permesso. E proseguì a voce più bassa:--Vedete, Rialdi, sono
momenti difficili. Quei disgraziati giovani hanno fatto del male a
tutti.
Gasparo sentì salirsi una fiamma al viso, ma non disse nulla.
--Del male a tutti,--ripetè il suo interlocutore.--Si vive in
un'atmosfera di sospetti.... Sfido io.... Dopo un fatto simile.... Tre
giovani che avevano uno splendido avvenire davanti a sè.... I Bandiera
specialmente.... figli d'un contrammiraglio.... Non par vero.... E che
cosa credono di fare? Di vincer delle battaglie contro le truppe di S.
M. Borbonica?.... Di conquistare il Lombardo-Veneto?.... Ci rimetteranno
la testa.... pazzi, pazzi da legare.... Date qui.
Quest'ultime parole erano rivolte allo scrivano che aveva finito il suo
lavoro.
--Ecco il permesso firmato, Rialdi.... In fede mia, a un altro avrei
risposto di no.... Dunque siamo intesi.... A Venezia direttamente....
Venezia per la via di Trieste.... La vostra parola d'onore.
--Gliel'ho data,--tornò a dire Gasparo ringraziando e inchinandosi.
E quella notte medesima egli viaggiava col vapore del Lloyd per Trieste.
C'era a bordo una quarantina di passeggieri, quasi tutti sopra coperta,
tanto il tempo era bello e il mare tranquillo. Si ciarlava, si giocava,
si faceva all'amore. Tre o quattro suonatori ambulanti, imbarcatisi a
Smirne in terza classe, strimpellavano delle polke e dei valzer, e chi
ne aveva voglia ballava al chiaro di luna, mentre i delfini saltellavano
sulle acque fosforescenti.
Gasparo Rialdi pensava ai suoi amici inseguiti, a sua sorella
vituperata. Egli era solo, taciturno, chiuso in sè stesso. Nè le sue
angoscie patriottiche, nè i suoi dolori domestici erano di quelli che
possono cercare un sollievo nelle simpatie altrui.


XIV.

Pallida, confusa, tremante, con le gote molli di lagrime, Fortunata
osava appena alzare gli occhi verso il fratello. La confessione del suo
fallo non l'era mai stata così grave. Non dinanzi al sacerdote, avvezzo
a quetar gli scrupoli della sua coscienza, non dinanzi alla madre, la
cui leggerezza colpevole aveva avuto tanta parte nella sua caduta. Ma
Gasparo, del quale ella ricordava le previsioni, gli ammonimenti, i
consigli, ahimè non seguiti, Gasparo poteva rinfacciarle la sua vergogna
cercata, voluta, poteva chiederle conto dell'onore della famiglia da lei
macchiato per sempre. Ella ne aveva avuto sin da bambina una gran
soggezione; figuriamoci adesso ch'egli era un giovinotto alto, severo,
abbronzito dal sole, con uno sguardo acuto, penetrante, che ricercava
l'intime latebre dell'anima.
Eppure, di mano in mano ch'ella parlava le rigide fattezze
dell'ufficiale s'atteggiavano a un'espressione più dolce; pareva che il
giudice si fosse impietosito del reo. E invero un gran peso gli si era
tolto di dosso. Il linguaggio schietto, ingenuo di Fortunata lo aveva
reso sicuro che, quale pur fosse stata la condotta di sua madre, sua
sorella era una vittima e non era una complice.
Quand'ella si tacque, egli stette un momento in silenzio col viso
nascosto tra le palme; poi disse queste sole parole:--E lo ami sempre?
--Sempre--ella rispose chinando la fronte, ma con voce ferma.
--Sì, capisco--ripigliò Gasparo--l'amarlo fu la tua unica colpa e fu
anche la tua unica scusa.... Ma adesso.... dopo il suo vile abbandono,
dopo il suo turpe oblio d'ogni dovere più sacro.... Ah se tu non lo
amassi più!...
Fortunata lo guardò atterrita.--Lo amo! Lo amo! In nome del cielo, che
faresti se non lo amassi più?
Gli occhi del giovane sfolgorarono.--Quel che farei?... Gli farei pagare
a caro prezzo l'oltraggio, e poi direi a te: Dimentica perfino il suo
nome: dimentica ch'egli ti ha reso madre... l'essere che darai alla luce
non ha nulla da guadagnarci a conoscerlo.... ci penseremo noi, noi
soli.... se sarà un maschio, avrò cura io della sua educazione, ne farò
un uomo, un cittadino.
--Grazie, Gasparo, grazie--esclamò Fortunata.--Oh tu sei buono e io non
perdonerò mai a me stessa di non averti ubbidito; ma se mi vuoi bene,
se hai misericordia di me non devi far del male a _lui_.... a
Leonardo.... non devi togliermi la speranza ch'egli mi ridoni un giorno
il suo affetto, che, disingannato, stanco dei baci delle altre donne,
egli torni da quella il cui cuore non muta... dalla madre della sua
creatura....
--Ma non sai dunque--interruppe il fratello--che faranno di tutto per
indurlo a prender moglie... una moglie che porti il suo bel gruzzolo di
zecchini.... poichè si va buccinando che i nostri illustri parenti siano
dissestati e che occorra una grossa dote per tappare i buchi?
--No--disse la ragazza sforzandosi di persuader sè medesima che i dubbi
di Gasparo erano infondati.--No, non vi riusciranno.... Quello che
Leonardo vuole è la sua libertà.... È la risposta ch'egli diede a mia
madre, a Monsignore... Se si risolvesse a sposarsi....
--Credi che sposerebbe te?
--Lo credo.
--Senti--disse Gasparo dopo una pausa--vedrò gli zii Bollati, vedrò
Leonardo... oh non temere, so esser calmo, so reprimere le mie
antipatie.... e quello che potrò fare pel tuo bene te lo giuro, sorella
mia, lo farò.
Quantunque a malincuore, la contessa Zanze s'era rassegnata ad
abbandonar nelle mani di suo figlio il grave affare domestico, pel quale
da un paio di mesi ella metteva in combustione il mondo. Quel benedetto
Gasparo aveva un certo carattere, certe idee tutte sue.... Insomma ella
lo aveva chiamato e non poteva disgustarlo. Ma il conte Luca
brontolava:--Fanno come s'io non esistessi.... Vanno, vengono senza
degnarsi d'avvisarmi.... Quest'è bella.... Sono o non sono il marito di
mia moglie e il padre dei miei figli?... Mi spiego?... Non era naturale
che conducessi io la faccenda?... Ma, nossignori... Prima _madama_ ha
voluto far da sè.... E adesso tocca a Gasparo, che con quel suo
temperamento sulfureo finirà di rovinarci.... Cose che andrebbero
trattate con calma, con prudenza, con spirito conciliativo.... E intanto
chi soffre di più siamo noi due, Fortunata e io.... io che non ho un
momento di bene....
Il conte Luca non osava dirlo, ma pensava alla sua scacchiera.
In famiglia Bollati l'arrivo di Gasparo Rialdi a Venezia recò una
molestia infinita. Gasparo non era più un ragazzo da prendersi a
scappellotti; era un uomo, era un ufficiale tenuto in gran conto dai
suoi superiori, e non si poteva sbrigarsene con delle ciancie vuote. Sua
Eccellenza Zaccaria se n'era persuaso subito dopo un primo colloquio, in
cui, ricevuta l'imbeccata da _sior_ Bortolo e dai Geisenburg, egli aveva
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