Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 11

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e non la recherebbe in libertà nè ad altro stato. Gli ambasciadori
con grande compagnia e molto adorni giunsono a Mantova, dov’era
l’eletto imperadore, e ricevuti da lui con grande onore, e fatta la
riverenza, spuosono l’ambasciata del loro comune, ove liberamente gli
offersono la città e gli uomini di quella alla sua ubbidienza, pregando
divotamente per bene, e per pace e buono stato del detto comune,
che gli dovesse piacere di promettere per la sua fede, e appresso
dell’imperiale corona le sopraddette cose utili e necessarie al buono
stato di que’ cittadini, e l’eletto con grande allegrezza e festa li
ricevette, e promise nella sua fede liberamente ciò che per loro era
domandato. Allora gli ambasciadori gli promisono trentamila fiorini
d’oro in aiuto alla spesa della sua coronazione, e altri trentamila
per lo consentimento della città di Lucca, il quale consentimento
non onorevole alla maestà imperiale, comprese sotto la ragione del
padre suo re Giovanni, quando la città di Lucca gli fu data. Della
quale promessa i grandi mercanti, e gli altri usciti di Lucca, che si
pensavano tornare in libertà per la venuta dell’imperadore, si tennono
mal contenti: e così fu fatta la concordia dall’eletto imperadore
a’ Pisani, della quale i cittadini feciono in Pisa per molti giorni
singulare e grande festa, ignoranti del futuro avvenimento della loro
ruina.

CAP. XXXVI.
_Rottura della pace del re di Francia e d’Inghilterra._
Essendo per lungo tempo trattato per lo cardinale di Bologna e per
altri prelati di volere fare accordo tra il re di Francia e quello
d’Inghilterra, e sotto questa speranza più volte prolungate le triegue
tra l’uno re e l’altro; e non potendo trarlo a fine, provvidono di
comune consiglio quelli che menavano il trattato, che abboccandosi i
due re insieme nella presenza del papa, o i loro più confidenti baroni,
che pace ne dovesse seguire; e per seguire questo consiglio il re di
Francia vi mandò il duca di Borbona suo consorto, e il conestabile
di Francia: e il re d’Inghilterra vi mandò il duca di Lancastro suo
cugino, e il vescovo di Vervic, e catuno giunse a corte del mese di
dicembre: e abboccatisi insieme per più riprese nella presenza del
papa, tanto volea catuno mantenere l’onore del titolo del suo signore,
che mezzo non seppono trovare di recarli in pace. Il papa, o per
soperchia arroganza che trovasse in loro, o per poco ardire ch’avesse
di sforzare gli animi de’ signori, non vi s’interpose come avrebbe
potuto la sua autorità, con la quale poteva catuno sostenere con suo
onore, e trovare mezzo di recarli a concordia e pace; nol fece, che
forse non erano ancora puniti i peccati de’ Franceschi: e però del mese
di gennaio del detto anno, catuna parte in discordia con poco onore del
santo padre e de’ suoi cardinali si tornò al suo signore.

CAP. XXXVII.
_Come un gatto uccise un fanciullo in Firenze._
Avvegnachè assai paia cosa strana e non degna di memoria quello che
seguita, perocchè fu inaudito caso, non l’abbiamo saputo tacere. In
Firenze era da san Gregorio un lasagnaio con una sua moglie, aveano un
piccolo loro fanciullo di tre mesi, e avendolo la madre governato e
rimessolo nella culla al modo usato, una gatta accresciuta e nutricata
in quella casa se n’andò al fanciullo, e cominciolli a rodere la testa,
e trassegli gli occhi e manicosseli, e poi rodendo la testa se n’andò
fino al cervello; e avendo lungamente pianto il fanciullo, il padre
e la madre soccorsono tardi, non pensando che cotale caso fosse, e
trovarono il fanciullo storpiato, e la gatta sopr’esso ancora vivo,
ma incontanente morì; e sparata la maladetta gatta le trovarono gli
occhi del fanciullo in corpo. Questa è quasi cosa incredibile, ma per
esperienza del vero di questo fatto si dee alle donne e alle balie
accrescere sollecitudine e accrescimento di buona guardia a’ piccoli
fanciulli. Avvenne questo inopinato caso a dì 6 di dicembre 1354.

CAP. XXXVIII.
_Come l’imperadore fe’ fare triegua da’ Lombardi a’ signori di Milano._
Avendo fino a qui dimostrato i trattati tenuti per l’eletto imperadore
e la sua venuta a Mantova, al presente ci strigne il tempo a venire
dimostrando i cominciamenti in fatti delle sue proprie operazioni.
Costui secondo il suo supremo titolo, conoscendo se medesimo e il suo
piccolo podere, e abbattendo nell’animo suo ogni elezione, provvide
che per astuta e dissimulata suggezione gli convenia procedere per
venire all’ottato fine della sua coronazione, e per questo in fatto
prese abito, forma, e operazione umile, e sommissione incredibile
all’imperiale nome in fondamento de’ suoi principii: e venuto a Mantova
senz’arme, e fattosi trattatore della pace da’ signori di Milano a’
legati lombardi, avendo seguito il fatto dall’entrata di novembre
al Natale senza frutto, essendo montata la superbia de’ Genovesi e
de’ loro signori, per la vittoria avuta in mare sopra i Veneziani,
per la quale mutando in prima i patti li voleano più larghi per loro
in vergogna degli allegati, ed eglino sdegnosi non acconsentivano,
l’imperadore, ch’avea l’animo più a’ suo’ fatti propri, si doleva
di perdere il tempo invano, e conoscendo la potenza de’ Visconti di
Milano maggiore che della lega, e non vedendosi da’ comuni di Toscana
fuori che da’ Pisani dimostramento d’alcuno favore, comprese che a’
collegati non faceva utile, e a se faceva impedimento grande per la
coronazione della corona del ferro, ch’era nella potenza de’ signori di
Milano, e però non dimostrando d’abbandonare il trattato, ma di volerlo
conducere a fine di pace, facea fare triegua tra’ Lombardi fino al
maggio prossimo vegnente; e fatta la triegua, incontanente trattò per
se accordo co’ signori di Milano, sottomettendo la sua persona, e ’l
suo onore, e la dignità imperiale oltre al debito modo nell’arbitrio
e potenza de’ tiranni, prendendo confidenza di quelli, o da purità di
mente, o da matto consiglio, non però di certo e di chiaro giudicio;
e il patto fu, che li darebbono abilità d’avere sotto le loro braccia
la corona a Moncia, ed egli senza entrare in Milano gli lascerebbe
suoi vicari in tutta la loro giurisdizione; ed egli avuta promissione
da loro, che alla sua coronazione a Roma gli donerebbono per aiuto
alle spese fiorini cinquantamila d’oro, senza alcuna gente d’arme come
privato uomo si sottomise nella loro signoria, vincendo gli animi fieri
e l’usata fallacia tirannesca colla sua persona creduta nelle loro mani
liberamente, come appresso diviseremo.

CAP. XXXIX.
_Come l’imperadore andò a Moncia per la corona del ferro._
L’eletto imperadore avendo fatto la sua concordia co’ signori di
Milano, più della pace de’ Lombardi non si travagliò, ma di presente
fatta la festa della natività di Cristo a Mantova, si mise a cammino
verso Milano con meno di trecento cavalieri, i più senz’arme, e i
signori di Milano ordinarono, che per tutto loro distretto all’eletto e
alla sua compagnia fosse apparecchiato per loro e per li loro cavalli
ogni cosa da vivere senza torre alcuno danaio: e giugnendo a Lodi,
messer Galeazzo gli venne incontro con millecinquecento cavalieri
armati, e giunto a lui, gli fece la reverenza, e accompagnollo fino
dentro alla città di Lodi, e ivi il collocò onoratamente nelle case de’
signori, facendo nondimeno serrare le porti della città, e guardarla
dì e notte colla gente armata. E albergato in Lodi una notte, la
mattina appresso mosso il re de’ Romani, messer Galeazzo colla sua
gente armata l’accompagnò, avendo ordinata la desinea alla grande badia
di Chiaravalle: e appressandosi a Chiaravalle, messer Bernabò con
molti cavalieri armati gli si fece incontro, e fattagli la reverenza,
gli presentò da parte de’ fratelli e cavalli e palafreni covertati
di velluto, e di scarlatto e di drappi di seta, guerniti di ricchi
paramenti di selle e di freni: e fattogli alla badia nobile desinare,
messer Bernabò il richiese da parte de’ suoi fratelli e da sua che gli
dovesse piacere d’entrare nella città di Milano; l’eletto rispose, che
per niuno modo intendea venire contro a quello che promesso avea loro;
messer Bernabò gli disse, che questo gli fu domandato pensando che la
gente della lega il dovesse accompagnare, ma per la sua persona non era
fatto: e tanto il costrinsono, ed egli e messer Galeazzo, liberandolo
per loro e per messer Maffiolo dalla promessa, che con loro n’andò
in Milano; e entrato nella città, fu ricevuto con maggior tumulto
che festa, non potendo quasi vedere altro che cavalieri e masnadieri
armati: e i suoni delle trombe, e trombette, e nacchere, e cornamuse,
e tamburi erano tanti, che non si sarebbono potuti udire grandi tuoni;
e come fu in Milano, così furono le porti serrate, e così rinchiuso
il condussono a’ palazzi della loro abitazione, e assegnateli sale e
camere fornite nobilissimamente di letta e di ricchi apparecchiamenti,
messer Maffiolo e gli altri fratelli da capo andarono a fargli la
reverenza, dicendogli con belle parole come tutto ciò che possedevano
riconoscevano avere dal santo imperio, e al suo servigio intendevano
di tenerlo. Il dì appresso feciono fare generale mostra di tutta la
gente d’arme a cavallo e a piè ch’aveano accolta in Milano, e oltre
a ciò feciono armare quanti cittadini ebbono che montare potessono a
cavallo, tutti sforzati di coverte e d’altri paramenti e d’avvistate
sopravveste, e feciono stare l’imperadore alle finestre sopra la
piazza a vedere; e passando con gran tumulto di stromenti, feciono
intendere all’eletto ch’erano seimila cavalieri e diecimila pedoni di
soldo: e passata la mostra, dissono: signore nostro, questi cavalieri
e masnadieri, e le nostre persone, sono al vostro servigio e a’
vostri comandamenti; dicendo che oltre a questi aveano fornite tutte
le loro città terre e castella di cavalieri e di masnadieri per la
guardia di quelle. E così magnificarono la gran potenza del loro stato
nell’imperiale presenza, tenendo il dì e la notte le porte serrate e
la gente armata per la città, non senza sospetto e temenza dell’eletto
imperadore, il quale vedendosi in tanta noia di sollecita guardia, fu
ora che innanzi vorrebbe essere stato altrove con minore onore, e in
tutto fu in servaggio l’animo imperiale alla volontà de’ tiranni, e
l’aquila sottoposta alla vipera, verificandosi la pronosticazione detta
per previsione d’astrologia, negli anni _Domini_ 1351, per messer frate
Ugo vescovo di...... grande astrologo al suo tempo, il quale predisse
il cadimento del prefetto da Vico, e la soggezione futura dell’aquila
imperiale in questi versi:
_Aquila flava ruet post parum vipera fortis._
_Moenia subintrat Lombardi prima sophiae_
_Anno quadrato minori decimonono._
_Aquila succumbet pro stupri crimine foedo_
_Nigra revolabit sublimi cardine Romam._
ma egli come savio comportò con chiara e allegra faccia la sua cortese
prigione; e con molta liberalità vinse quello che acquistare non
avrebbe potuto per forza. Dopo alquanti dì, come a’ signori tiranni
piacque, il condussono con la loro gente armata a Moncia, e ivi il
dì della santa Epifania, a dì 6 del mese di gennaio di detto anno,
fu coronato della seconda corona del ferro, con quella solennità e
festa che i signori Visconti li vollono fare; e tornato a Milano sotto
continova guardia, fattivi certi cavalieri, ed egli per tornare in
libertà sollecitando la sua partita, fu accompagnato di terra in terra
dalle masnade armate de’ signori, facendo serrare la città e castella
dov’entrava, e il dì e la notte tenerle in continova guardia: ed egli
avacciando il suo cammino, non come imperadore, ma come mercatante
ch’andasse in fretta alla fiera, si fece conducere fuori del distretto
de’ tiranni: e ivi rimaso libero della loro guardia, con quattrocento
compagni, i più a ronzini senz’arme, si dirizzò alla città di Pisa per
esservi prima che non avea loro promesso, e così li venne fatto.

CAP. XL.
_Come il conte di Lando venne di Lombardia in Romagna con la gran
compagnia._
In questi dì all’entrata di gennaio, il conte di Lando capitano del
residuo della gran compagnia, avendo un dì lungamente parlamentato a
solo coll’eletto imperadore, con duemilacinquecento barbute se ne venne
a Ravenna, e con lui due fratelli della bella contessa, che l’anno
del generale perdono andando a Roma capitò in Ravenna, e ritenuta
dal tiranno per conducerla o per amore o per forza a consentire alla
sua sfrenata libidine, la valente donna vedendo non potere mantenere
la sua castità contro alla forza dello scellerato tiranno se non per
via di morte, trovò il modo di finire sua vita innanzi che volesse
corrompere la sua castità; questi cavalieri credendosi potere vendicare
dell’onta della loro sirocchia contro al tiranno, s’accostarono con la
compagnia, e furono singolare cagione di menarla in sul Ravennese, ove
stette lungamente ardendo, e predando, e guastando il paese; e dopo la
detta stanza e guasto dato, essendosi tenuto alle mura della città il
conte, gli domandò trentamila fiorini d’oro se volea si partissono di
suo terreno, e avendo il tiranno bargagnato, s’era recato il conte a
dodicimila fiorini d’oro. Allora disse il tiranno, che gli darebbe i
detti danari, se ’l conte il volesse sicurare di non partirsi con la
compagnia per spazio d’un anno continovo del contado di Ravenna: e a’
suoi cittadini fece stimare il danno ricevuto delle loro possessioni,
tenendoli in speranza di pagare loro la restituzione del danno; onde
il conte e la sua compagnia frustrata del loro intendimento si partì
di là, e andossene nella Marca. Lasceremo ora de’ fatti della gran
compagnia, e torneremo alle cose che per l’avvenimento dell’imperadore
occorsono in Toscana.

CAP. XLI.
_Come i Fiorentini per la venuta dell’imperadore a Pisa si provvidono._
Sentendo i Fiorentini l’avvenimento dell’eletto imperadore a Pisa, non
avendo alcuna cosa provveduto dinanzi quando era a Mantova, ove ciò che
avessono voluto da lui avrebbono di suo buon grado impetrato, stavano
in consiglio se dovessono ubbidire o contradiare: ed essendone la città
tutta in vari e indeterminati consigli, presono di fare dodici uficiali
ch’andassono per tutto il contado con ordinata balìa, di fare riducere
tutta la vittuaglia nelle terre murate e nelle castella forti, e ogni
altra cosa di valuta, e diedono voce di volere prendere difesa, e non
con accettare l’imperadore, per non sottomettere la franchigia del
comune ad alcuna signoria; e quanto che in fatto questa provvigione
avesse poco effetto, pure fu utilmente provveduto, per non mostrare
viltà o paura, e per dare intendere all’eletto imperadore e al suo
consiglio che il comune di Firenze s’apparecchiava alla sua difesa; e
nondimeno elessono sei cittadini per mandarli a lui come fosse riposato
in Pisa, per trattare accordo con lui, se rimanendo in libertà il
potessono trovare. E questo fu ordinato e fatto in Firenze a dì 11 di
gennaio del detto anno.

CAP. XLII.
_Come il legato prese Recanati._
In questo mese di gennaio, il legato del papa avendo la città di
Fermo, e seguitando suo processo contro a messer Malatesta da Rimini
per le città ch’egli occupava a santa Chiesa, nondimeno come signore
avvisato e pratico ne’ fatti della guerra, non stava solo a’ processi
nè al suono delle campane, anzi cercava trattati, e co’ suoi cavalieri
sollecitava gli avversari di continova guerra: e in questi dì per
trattato mise la sua cavalleria in Recanati, e racquistò la città
alla Chiesa di Roma; e in quella, perch’era povera d’abitanti, mise
gente assai a cavallo e a piè per far guerra a messer Malatesta, e per
guardare la città più sicuramente.

CAP. XLIII.
_Come il capitano di Forlì venne in Firenze._
Quello che al presente ci muove non è per lo fatto della propria
persona degno di memoria, ma all’indiscreto movimento de’ rettori di
Firenze a quel tempo, non senza ammirazione ci muove a ricordare come
nel nostro contado venne messer Luigi marito della reina Giovanna
figliuola del re Ruberto, ed egli figliuolo del prenze di Taranto
fratello carnale del detto re Ruberto, stati sempre protettori del
nostro comune, e il detto prenze capitano e conducitore delle nostre
osti, avendo il loro reale sangue e la vita, nelle persone di messer
Carlo loro fratello e di messer Piero figliuolo del detto re, sparto
nelle nostre guerre, non dimenticata la memoria di cotanti servigi,
gli fu vietato non tanto il venire nella nostra città senz’arme e
senza compagnia di gente d’arme, ma lo stare nel nostro contado gli
fu vietato; e i fratelli carnali e’ cugini tornando di prigione
d’Ungheria, e domandando di volere fare loro diritto cammino per la
nostra città, e per lo nostro contado a tornare nel Regno, fu loro
vietato e contradetto il passo, ove si doveva con singulare festa e
onore fargli ricevere e accompagnare: ma tanto fu il podere d’alquanti
cittadini che allora governavano il comune, fortificandosi con non
giusti nè veri sospetti, che contro al piacere degli altri cittadini
ebbono podere di così fare. Il capitano di Forlì antico tiranno, sempre
stato nemico di santa Chiesa e del nostro comune, caporale in Romagna
di parte ghibellina, scomunicato e dannato da santa Chiesa, volendo
andare a Pisa all’imperadore con grande compagnia di gente d’arme, fu
nella nostra città ricevuto con disordinato e sobrabbondante onore, e
convitato da’ signori e da altri cittadini stette in festa alcuni dì di
suo soggiorno: poi volendo essere nella presenza dell’eletto imperadore
a Pisa, non gli fu conceduto eziandio entrare in quella città,
perch’era in indegnazione di santa Chiesa. Non è l’onore alcuna volta
fatto al nemico da biasimare, ma molto pare cosa detestabile in luogo
del debito onore a fidatissimi amici imporre sospetto e fare vergogna;
alla matta ignoranza del vario reggimento della nostra città fu lecito
di così fare a questa volta.

CAP. XLIV.
_Come l’imperadore Carlo giunse a Pisa._
L’eletto imperadore diliberato delle mani de’ tiranni di Milano, avendo
in sua compagnia il fratello naturale patriarca d’Aquilea, giunse alla
città di Pisa domenica a dì 18 di gennaio, gli anni _Domini_ 1354
dalla sua incarnazione, in su l’ora della nona. Ed essendo i Pisani
provveduti a fargli onore, gli andarono incontro con la processione
del loro arcivescovo e di tutto il chericato, e con allegra festa i
giovani vestiti a compagnie di nuove assise andavano armeggiando, e i
rettori del comune con gli altri più maturi cittadini, e co’ soldati
senz’arme gli si feciono incontro fuori della terra facendogli somma
riverenza, e così tutto l’altro popolo a piè pieno d’allegrezza gli
si fece incontro; e addestrato da’ loro cavalieri con ricco palio
sopra capo, gridando il popolo viva l’imperadore, il condussono nella
città. L’imperadore, vestito molto onestamente d’uno paonazzo bruno
senza alcuno ornamento d’oro, o d’argento o di pietre preziose, andava
con molta umilità salutando i grandi e’ piccoli, pigliando gli animi
di molti forestieri che l’erano a vedere col suo benigno aspetto e
umile portamento, e condotto alla chiesa cattedrale, reverentemente
inginocchiato all’altare fece sue orazioni; e rimontato a cavallo, con
grande allegrezza e festa fu condotto a’ nobili abituri de’ Gambacorti,
ov’era il famoso giardino, e apparecchiato da’ detti Gambacorti le
camere e le letta di nobilissimi adornamenti, e apparecchiate le
vivande per la cena, e gli ostieri attorno per tutta la sua compagnia,
fu con somma letizia consumata la prima giornata, verificandosi
l’antico proverbio, che dice: gli stremi dell’allegrezza occupa il
pianto, come seguendo appresso in questo processo dell’imperadore si
potrà trovare.

CAP. XLV.
_Come l’imperadore bandì parlamento in Pisa, e quello n’avvenne._
Lunedì vegnente a dì 19 di gennaio, volendo l’imperadore fare
ragunare i cittadini a parlamento per ricevere il saramento della
loro ubbidienza, mandò il bando da sua parte che tutti si ragunassono
al duomo per la detta cagione, ed egli s’apparecchiò d’andare là. Il
popolo mosso per lo bando si ragunava al duomo. Erano in questo tempo
in Pisa due sette, l’una reggea lo stato del comune, della quale i
Gambacorti e Cecco Agliati erano caporali, e costoro erano chiamati
Bergolini, l’altra si chiamava la setta de’ Matraversi, e non erano
confidenti al reggimento del comune, ed essendo venuto di Lombardia
appresso all’eletto imperadore uno Paffetta della casa de’ Conti, il
quale era de’ caporali della setta de’ Matraversi, costui con certi
altri di quella setta disposti a rimuovere il reggimento della città,
il quale l’eletto imperadore aveva a Mantova promesso di conservare
e di mantenere, essendo egli già mosso per andare al parlamento,
e valicato il ponte alla Spina, cominciato fu con gran romore per
li Matraversi a dire, viva l’imperadore e la libertà, e muoia il
conservadore. Udendosi nel romore la novità del conservadore, i grandi
e’ piccoli cominciarono a sospettare per tema, e altri per mala
industria, cominciò il popolo a correre all’arme. L’eletto sentendo
questa novità, incontanente diede la volta, e avendo seco Franceschino
Gambacorti, il quale era sindaco del comune a fargli il saramento, e
con lui i soldati del comune, se ne venne al palagio degli anziani, e
di là mandò bandi per la terra, e fece a’ cittadini porre giù l’arme,
e racchetare il popolo; e lasciati i soldati del comune alcuna parte
armati in segno di guardia, in quel giorno non si fece altra novità, e
prolungossi il saramento che fare si dovea all’eletto imperadore.

CAP. XLVI.
_Come l’imperadore di Costantinopoli racquistò l’imperio._
Del detto mese di gennaio, un’altro giovane Calogianni Paleologo
imperadore di Costantinopoli, essendo, come addietro è narrato, dal suo
suocero Mega Domestico balio dell’imperio per lui cacciato di quello,
ed usurpato a se la signoria del detto imperio, aveva lui lungamente
tenuto in esilio nel reame di Salonicco: il quale giovane imperadore
avendo tenuto lungo trattato con certi de’ suoi baroni, i quali gli
dicevano che procurasse di comparire a Costantinopoli, ed essendovi
l’ubbidirebbono, costui povero d’avere e di gente, non trovando altro
aiuto, si fece ad amico un gentile uomo di Genova ch’era ricco in quel
paese, il quale co’ suoi danari e con l’industria della sua persona
segretamente il condusse in Costantinopoli; ed essendo nella città,
fu manifestato a’ baroni con cui era in trattato, i quali di presente
gli feciono braccio forte, e sommossono il popolo, che il desiderava
come loro diritto imperadore; e presa l’arme, combattendo il castello
della signoria, Mega Domestico usurpatore dell’imperio, male provveduto
di questo caso, come Iddio volle si fuggì di Costantinopoli, e il
giovane a cui si dovea l’imperio di ragione rimase imperadore, e il
suocero per paura si rendè calogo cioè eremita. E stando in quello
stato da non prender guardia di lui, trattava col figliuolo e co’
suoi amici d’abbattere l’imperadore, e scoperto il trattato si fuggì,
e cambiato abito, accolse gente, e cominciò a guerreggiare in alcuna
parte l’imperio, con lieve aiuto di sbanditi e di ribelli. L’imperadore
per rimunerare il servigio ricevuto dal Genovese, ch’aveva nome messer
... li diede l’isola di Metelino, e la sirocchia per moglie, ed ebbelo
continovo al suo consiglio.

CAP. XLVII.
_Come i Matraversi di Pisa feciono muovere l’imperadore._
Tornando alla materia de’ Pisani, il martedì a dì 20 di gennaio del
detto anno si ragunarono in Pisa col Paffetta assai della setta de’
Matraversi, e con loro gran parte d’un’altra nuova setta che si diceano
i Malcontenti, e in compagnia s’appresentarono dinanzi all’eletto
imperadore, e con grande istanza il richiesono e pregarono, che per
bene e contentamento del comune dovesse prendere a se il saramento de’
loro soldati, che i cittadini erano malcontenti che i suoi soldati
fossono all’ubbidienza di due privati cittadini, ciò era Franceschino
Gambacorti e Cecco Agliati: e Cecco Agliati per alcuna invidia presa,
vedendo che a’ bisogni i soldati andavano più a Franceschino che a
lui, sentendo questo movimento andò all’imperadore, e disse, che
dicevano bene, e che per se era contento che così si facesse. L’eletto
imperadore vedendo che il movimento di costoro s’accostava alla sua
volontà, quanto che ciò fosse contro a’ patti promessi, sott’ombra di
volere racquetare la contenzione del comune, e levare materia agli
scandali già mossi, andò al palagio degli anziani, e ivi fatti ragunare
i soldati del comune a cavallo e a piè, prese il saramento da loro, e
cominciò a venir meno allo stato che reggeva della sua promessa, e a
dare baldanza a’ suoi avversari; ma per non dimostrare che così tosto
avesse loro rotti i patti, argomentò, e fecene capitani Franceschino
Gambacorti e Cecco Agliati alla sua volontà. La cosa era già condotta
in termini che dire non s’osava contro a cosa che facesse, nè ricordare
i patti promessi, ma catuno dimostrava essere contento a ciò che
facesse per accattare la sua benivolenza.

CAP. XLVIII.
_Come procedettono i fatti in Pisa._
Avvedendosi i Gambacorti e i loro seguaci che l’eletto assentiva di
grado le novità che moveano i loro avversari, e non vi volea mettere
riparo, conobbono che il loro stato si veniva abbattendo, e non vi
poteano riparare con alcuno salutevole consiglio. E però vedendosi a
mal partito, strignendosi insieme, per lo meno reo presono di volere
essere motori, innanzi che fatto venisse alla setta contraria a loro
di dare la libera signoria del comune all’imperadore, pensando che per
i patti egli era loro obbligato, e per questa libertà sarebbe più:
e così deliberati furono all’eletto, e con belle e riverenti parole
dissono, ch’aveano provveduto, per levare gli scandali della città di
Pisa e del suo contado e distretto, darli la signoria; l’imperadore
che per via indiretta cercava questo, si mostrò molto contento, e di
presente prese la signoria, e levò le guardie dalle porte che v’avevano
i Pisani e mise vi la sua gente, e il dì e la notte faceva guardare la
terra alla sua cavalleria tanto che vi fosse più forte, e l’entrate del
comune recò a sua stribuizione, e mandò bando da sua parte, che chi
si sentisse offeso del tempo passato, o per l’avvenire, andasse per
giustizia a lui e alla sua corte, dicendo, che intendea che l’agnello
pascesse allato al lupo senza lesione o paura. Tutto questo processo
per la fretta delle sette e per la volontà dell’imperadore, sotto ombra
di volere conservare il comune in pacifico stato, fu aoperato di fatto,
senza deliberazione di comune consentimento.

CAP. XLIX.
_Come gli ambasciadori del comune di Firenze andaro all’imperadore._
Il comune di Firenze avendo lungamente praticato con quello di Siena
e di Perugia per la comune libertà del reggimento delle dette città,
e trovato che i Perugini si poteano diliberare dalla suggezione
dell’imperio, sotto titolo d’essere uomini di santa Chiesa, nondimeno
di loro consiglio s’unirono insieme co’ Sanesi a dovere seguitare
uno sì e uno nò nel cospetto dell’imperadore a mantenere loro stato
e la franchigia de’ loro comuni; e avendo presa questa concordia,
i Fiorentini ch’aveano eletti sei cittadini d’autorità a questo
servigio, gl’informarono della volontà del loro comune, dicendo, che
i Sanesi seguirebbono quello medesimo, secondo la promessa ch’aveano
dall’ordine de’ nove, che governava e reggeva quello comune; ed avendo
i capitoli scritti della loro commissione, a dì 22 di gennaio si
partirono di Firenze vestiti d’un’assisa tutti di doppi vestimenti,
l’uno di fine scarlatto, l’altro di fine mescolato di borsella, con
ricchi adornamenti, e con otto famigli a cavallo per uno tutti vestiti
d’un’assisa, e nel cammino attesono più giorni gli ambasciadori
perugini e’ sanesi per comparire tutti insieme nella presenza
dell’imperadore, come ordinato era, sperando dovere impetrare ogni loro
domanda con la benevolenza del signore, ove i Sanesi tenessono la fede
promessa a’ Fiorentini e a’ Perugini, la qual cosa venne mancata per la
corrotta intenzione de’ Sanesi, come poco appresso racconteremo.

CAP. L.
_Di novità stata in Montepulciano._
Mercoledì notte a dì 21 di gennaio, messer Niccolò de’ Cavalieri uscito
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