Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 05

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nel golfo a’ Veneziani, le quali feciono in quello grave danno di
rubare molti legni che vi trovarono, traendone l’avere sottile, e
profondando i legni in mare; e con due loro galee sottili bene armate
valicarono san Niccolò del Lido, ed entrarono nel canale grande, e
nella città saettarono molti verrettoni. E tornandosi addietro, le
galee della guardia del golfo ch’erano per novero più che le genovesi,
potendosi abboccare con loro, non ebbono ardimento, che la paura del
re d’Ungheria gl’impacciava forte più che de’ Genovesi, per tema che
non traboccasse loro addosso la sua grande potenza. Le galee genovesi
non avendo contasto s’uscirono del golfo, e andarono al loro viaggio,
avendo fatto gran vergogna a’ Veneziani.

CAP. LXVIII.
_Come i Veneziani si provvidono._
Il comune di Vinegia sentendo l’armata de’ Genovesi e le minacce del re
d’Ungheria, e non volendoli rendere le terre marine della Schiavonia,
conobbono che la necessità gli strignea a trovar modo di difendersi
per mare e per terra. E però guernite le loro terre per la difesa, con
grande e buona provvisione mandarono solenne ambasciata all’imperadore,
pregandolo che procacciasse in loro servigio che il re d’Ungheria
non movesse loro guerra a stanza de’ Genovesi; e un’altra ambasciata
mandarono in Catalogna al re d’Araona a fare lega e compagnia con lui,
acciocch’egli armasse con loro contro a’ Genovesi. In catuna parte
ebbono prosperamente loro intenzione: che l’imperadore ritenne a sua
preghiera il re d’Ungheria dal muovere guerra a’ Veneziani, non senza
alcuna speranza d’accordo in processo di tempo; e’ Catalani aontati
della sconfitta ricevuta co’ Veneziani da’ Genovesi in Costantinopoli,
lievemente si recarono per animo di vendetta a fare la volontà de’
Veneziani; e di presente misono per opera d’armare trenta galee al
loro soldo, e venti alle spese del comune di Vinegia, e i Veneziani
n’armarono altre venti a Vinegia; e catuna parte sollecitava sua armata
per essere prima in mare; i Genovesi per la vittoria avuta sopra loro
dispettando e avvilendo i nimici, e’ Catalani e’ Veneziani desiderando
la vendetta. E apparecchiandosi catuna parte, innanzi al loro
abboccamento ci occorrono altre cose a raccontare, e però al presente
soprastaremo alquanto a questa materia.

CAP. LXIX.
_Come fu guasto il castello di Picchiena, e perchè._
I signori del castello di Picchiena non ostante che si tenessono in
amistà col comune di Firenze, furono principali con gli Ardinghelli a
commuovere lo stato di Sangimignano quando furono cacciati i Salvucci,
essendo la guardia di quella terra nelle mani del comune di Firenze;
e di questo fallo non feciono scusa nè ammenda a’ Fiorentini; e però,
nel detto mese di giugno del detto anno, il comune di Firenze mandò
sue masnade co’ maestri e guastatori a Picchiena, e senza contasto
entrarono nella terra. E acciocchè quel castello non fosse più cagione
di fare sommuovere ad alcuna ribellione Sangimignano e Colle, a dì 20
del detto mese feciono abbattere le mura e la rocca, senza far loro
altro danno.

CAP. LXX.
_Come Ruberto d’Avellino fu morto dalla duchessa sua moglie._
Vedendosi la sventurata moglie che fu del duca di Durazzo, Maria
sirocchia della reina Giovanna di Gerusalemme e di Sicilia, avvilita
per lo violente matrimonio contratto con Ruberto figliuolo che fu del
conte d’Avellino della casa del Balzo, il quale dopo la morte del
padre, come addietro avemo fatta menzione, era rimaso prigione del re
Luigi; la donna, non tenendosi vedova nè maritata, pensò che per la
morte di costui tornerebbe a certa veduità, e potrebbesi maritare. E
assai apparve chiaro che a questo consentì il re e la reina; perocchè
essendo Ruberto detto in prigione altrove, fu menato nel castello
dell’abitazione reale, e collocato in una camera con certe guardie:
e valicati alquanti dì, il re e la reina feciono apparecchiare e
andarono a desinare e a cena agli scogli di mare, cosa nuova e
disusata alla corona; e in questo dì la detta duchessa Maria rimasa
nel castello prese quattro sergenti armati, e andossene alla camera
dov’era il marito, e chiamatolo traditore del sangue reale, senza
misericordia in sua presenza il fece uccidere; e fattagli tagliare la
testa dall’imbusto, non affatto, fece traboccare dal castello in su la
marina lo scellerato corpo, condotto a questo per lo malvagio pensiero
del suo prosuntuoso padre. Il re e la reina tornati a Napoli si
mostrarono turbati molto di questo fatto, usando parole che s’ella non
fosse femmina ne farebbono alta vendetta: e il corpo che giacea senza
sepoltura feciono sotterrare; e la donna rimase vedova di due mariti
tagliati a ghiado in piccolo travalicamento di tempo.

CAP. LXXI.
_Come furono cacciati i ghibellini del Borgo._
All’entrante del mese di luglio del detto anno, i guelfi del Borgo a
san Sepolcro vedendosi sottoposti a quelli della casa de’ Bogognani,
caporali ghibellini e traditori di quella terra, la quale aveano
sottoposta all’arcivescovo di Milano per trattato di messer Piero
Sacconi, e per i patti della pace era rimasa libera sotto il dominio
de Bogognani, e non potendosi atare co’ Fiorentini e’ Perugini per non
fare contro a’ patti della pace, s’accostarono con Nieri da Faggiuola
loro vicino e terrazzano del Borgo, non ostante che fosse ghibellino,
perocchè si discordava co’ Tarlati d’Arezzo e co’ Bogognani; il quale
avendo fatta sua ragunata, i guelfi del Borgo levarono il romore, e
Nieri trasse colla sua gente, e messo nella terra, ne cacciarono i
Bogognani e tutti i ghibellini di loro seguito, e rubarono le case
degli usciti; e appresso riformarono la terra a comune reggimento
di guelfi e di ghibellini, com’era loro usanza, ritenendo Nieri da
Faggiuola per alcuno tempo per loro capitano con certa limitata balìa,
il quale poi ne trassono, come innanzi si potrà trovare.

CAP. LXXII.
_Di quattro leoni di macigno posti al palagio de’ priori._
Essendo in questo tempo un uficio di priorato in Firenze, avendo
poco ad attendere ad altre cose per la quiete della pace, feciono
fare quattro leoni di macigno, e fecionli dorare con gran costo, e
fecionli porre in su’ quattro canti del palagio del popolo di Firenze,
a ciascuno canto uno. E per fare questo per certa vanagloria al loro
tempo, lasciarono di farli scolpiti, e fusi di rame e dorati, che
costavano poco più che quelli del macigno, ed erano belli e duranti per
lunghi secoli; ma le piccole cose e le grandi continovo si guastano
nella nostra città per le spezialità de’ cittadini.

CAP. LXXIII.
_Come Sangimignano fu recato a contado di Firenze._
Avvegnachè per operazione de’ Fiorentini la terra di Sangimignano
fosse riformata in pace, e che dentro vi fossono gli Ardinghelli e’
Salvucci pacificati insieme, nondimeno nell’interiore dentro era tra
loro radicata mala volontà; e non sapeano conversare insieme, e teneano
intenebrata tutta la terra. I Salvucci vedendo arse e rovinate le
loro nobili possessioni non si poteano dare pace, e gli Ardinghelli
per l’offesa fatta stavano in paura e non si fidavano non ostante la
pace, e il seguito ch’aveano avuto da’ terrazzani a cacciare i Salvucci
non rispondea loro in questo nuovo reggimento come prima. Per queste
dissensioni i popolani della terra conoscendo il loro male stato, e
non trovando rimedio tra loro, stavano sospesi e in mala disposizione;
e vedendo gli Ardinghelli il popolo commosso, e che per loro non si
potea mettere alcuno consiglio che i Salvucci non si mettessono al
contradio, furono consigliati di confortare il popolo, innanzi ch’altri
il movesse prima di loro, di darsi liberi al comune di Firenze. E
questo potea essere loro scampo, perocch’erano pochi e poveri a petto
de’ loro avversari, ch’erano assai e ricchi, e conoscendo il popolo, e
vedendolo disposto a volere uscire de’ pericoli, ove le discordie de’
loro maggiori gli conducea, fu agevole a muovere, e del mese di luglio
1353 feciono parlamento generale, nel quale deliberarono con molta
concordia di mettersi liberamente nella guardia del comune di Firenze.
I Salvucci si misono con loro amici a operare co’ cittadini di Firenze
loro amici che il comune non li prendesse, dicendo, che questa era
operazione di setta e non volontà del comune; ed ebbono tanto podere,
che il comune non li volle prendere, dicendo, che volea l’amore e la
buona volontà di tutto il comune, e non la signoria di quella terra
in divisione del popolo; per la qual cosa il popolo commosso, d’ogni
famiglia mandarono a Firenze più di dugentocinquanta loro terrazzani di
maggiore stato e autorità, i quali s’appresentarono dinanzi a’ signori
priori dicendo, come la deliberazione del loro comune era vera, e non
violenta nè mossa per alcuno ordine di setta, ma di comune movimento e
volontà di tutto il popolo, conoscendo non potere vivere sicuri se non
sotto la giurisdizione libera e protezione del comune di Firenze, e con
viva voce gridarono, e pregarono il comune di Firenze, che ricevere
li volesse al loro contado, e se questo non facesse, quel comune era
per disfarsi e distruggersi senza alcuno rimedio, in poco onore del
comune di Firenze che l’avea a guardia. In fine i signori ne feciono
proposta al consiglio del popolo, e tanto favore ebbono i Salvucci,
che si metteano al contrario delle preghiere de’ loro amici da Firenze
fatte a’ consiglieri, e del popolo, che quello che catuno doveva
desiderare per grande e onorevole accrescimento della sua patria,
avendo molti contrari al segreto squittino, si vinse solo per una fava
nera; vergognomi averlo scritto, con tanto vitupero de’ miei cittadini.
Vinto il partito, la terra del nobile castello di Sangimignano, e suo
contado e distretto, fu recato a contado del comune di Firenze, e
datogli l’estimo come agli altri contadini, e tutti i suoi cittadini e
terrazzani furono fatti cittadini e popolani di Firenze a dì 7 d’Agosto
del detto anno; e ne’ registri del comune furono notate le cautele e le
sommissioni dette; e carta ne fece ser Piero di ser Grifo, notaio delle
riformagioni del detto comune.

CAP. LXXIV.
_D’un segno apparve in cielo._
A dì 11 del mese d’agosto, tramonto il sole nella prima ora, si
mosse da mezzo il cielo fuori del zodiaco un vapore grande infocato
sfavillante, il quale scorse per diritto di levante in ponente,
lasciandosi dietro un vapore cenerognolo traendo allo stagneo,
steso per tutto il corpo suo, e durò nell’aria valicato il fuoco
lungamente; e poi cominciò a raccogliersi a onde a modo d’una serpe;
e il capo grosso stette fermo ove il vapore mosse, simigliante a capo
serpentino, e il collo digradava sottile, e nel ventre ingrossava,
e poi assottigliava digradando con ragione infino alla punta della
coda: e per lunga vista si dimostrò in propria figura di serpe, e poi
cominciò a invanire dalla coda e dal collo, e ultimamente il corpo e ’l
capo venne meno, dando di se disusata vista a molti popoli. Altro non
ne sapemmo di sua influenza scernere che diminuzioni d’acque, perocchè
quattro mesi interi stette appresso senza piovere.

CAP. LXXV.
_Come fu assediata Argenta._
Essendo Francesco de’ marchesi da Este ribellato al marchese
Aldobrandino signore di Ferrara e di Modena, figliuolo del marchese
Obizzo; questo marchese Obizzo avea acquistato suo figliuolo
Aldobrandino d’amore, avendo per moglie la figliuola di Romeo de’
Peppoli di Bologna, della quale non ebbe figliuolo, e morta la detta
donna, il marchese fece legittimare questo suo figliuolo, e la madre
si prese per moglie. E venendo a morte, lasciò la signoria di Ferrara
e di Modena a questo suo figliuolo Aldobrandino, essendo d’illegittimo
matrimonio. Il marchese Francesco figliuolo del marchese Bertoldo,
a cui parea che di ragione s’appartenesse la signoria, per la qual
cosa temette che ’l marchese Aldobrandino per tema della signoria nol
facesse morire, e però si parti di Ferrara; ed essendo rubello, trattò
con Galeazzo de’ Medici da Ferrara, ch’era potente, e del segreto
consigliò del marchese Aldobrandino, e con altri cittadini di Ferrara,
e per consiglio di costoro, per avere braccio forte, s’accostò con
messer Malatesta da Rimini. E del mese d’agosto del detto anno messer
Malatesta in persona, e il detto marchese Francesco, con cinquecento
cavalieri e quattromila pedoni valicarono per le terre del signore di
Ravenna con sua volontà, e improvviso furono ad Argenta. E stati quivi
quattro dì, attendendo risposta da coloro con cui teneano il trattato
in Ferrara, e avuto da loro come quello ch’essi credevano poter fare
non vedeano venisse loro fatto, però sanza soprastare o fare alcuno
danno di presente se ne partirono, dando voce che il signore di Ravenna
avea chiuso il passo alla vittuaglia. E Galeazzo e altri che teneano al
trattato uscirono di Ferrara, e andaronsene al gran Cane di Verona,

CAP. LXXVI.
_Come si temette in Toscana di carestia._
Non è da lasciare in silenzio quello ch’avvenne in Toscana in sulla
ricolta, che nel contado e distretto di Firenze e d’Arezzo, e nelle più
contrade, fu assai ubertosa ricolta, in quello di Siena e di Ravenna fu
magra; e nondimeno sotto la vetta valse per tutto soldi quarantadue,
e poi montò in soldi cinquanta lo staio fiorentino, di lire tre soldi
otto il fiorino dell’oro. Temendo il comune di disordinata carestia
mandò in Turchia, e in Provenza e in Borgogna a comperare grano, e
molti mercati fece co’ mercatanti, che promisono di recarne di Calavria
e d’altre parti del mondo, costando lo staio posto in Firenze l’uno
per l’altro da soldi cinquanta in sessanta di piccioli: e se fosse
venuto, come si pensava, perdea il comune di Firenze più di centomila
fiorini d’oro, perocché ’l popolo mobolato, per paura della carestia
passata poco dinanzi, si fornia a calca, e feciono montare il grano
nella ricolta, e ristrignere i granai a chi n’avea conserva. Ma
sentendosi la grande quantità che ’l comune n’avea procurata d’avere
catuno temette di tenerlo, e apersono l’endiche di marzo e d’aprile
del detto anno, e davano il buono grano a soldi venticinque lo staio.
E venendone al comune dodicimila staia di Provenza venuto di Borgogna,
il volle spacciare a soldi venti lo staio, ed essendo buono grano non
si potè stribuire; e perdenne il comune fiorini trentamila d’oro, i
quali investì male all’ingrato popolo: l’altro che doveva venire di
Turchia e le compere fatte, come a Dio piacque, non ebbono effetto per
diversi accidenti. Abbianne fatta memoria per ammaestramento di coloro
c’hanno a venire, perocchè in cotali casi occorrono diversi gravi
accidenti, e spesso contradi l’uno all’altro. Le grandi compere in
così fatta carestia fanno pericolo di disordinata perdita, e certezza
non si può avere di grano che di pelago si aspetta; ma utilissima cosa
è dare larga speranza al popolo, che si fa con essa aprire i serrati
granai de’ cittadini, e non con violenza, che la violenza fa il serrato
occultare, e la carestia tornare in fame; e di questo per esperienza
più volte occorsa nella nostra città in cinquantacinque anni di nostra
ricordanza possiamo fare vera fede.

CAP. LXXVII.
_Come in Messina fu morto il conte Mazzeo de’ Palizzi a furore, e la
moglie e due figliuoli._
Lasciando alla testimonianza del consumato regno dell’isola di
Cicilia molti micidii, incendii, violenze e prede avvenuti in quello
per sette e invidia del reggimento, mancando per debolezza d’età la
signoria reale, diremo quello che in questo tempo, del mese d’agosto
del detto anno, più notabile avvenne. Essendo il conte Mazzeo de’
Palizzi di Messina capo di setta degl’Italiani di Cicilia, contradio
a quella de’ Catalani, per sua grandezza governava il giovane e poco
virtuoso figliuolo di don Petro re di Cicilia, il quale per retaggio
doveva essere re, e tutta la corte reggeva a contrario de’ Catalani e
della loro parte per modo più tirannesco che reale; essendo l’izza e
l’invidia parziale cresciuta mortalmente, alla corte mancava l’entrata,
e a’ paesani la rendita e le ricchezze, e la guerra del diviso regno
richiedeva aiuto di moneta; e non essendovi l’entrata, il detto conte
Mazzeo gravava i Messinesi e gli altri sudditi moltiplicando gravezze
sopra gravezze. I cittadini si doleano, e vedendosi pure gravare,
negavano e fuggivano il pagamento, e odiavano chi guidava il fatto;
il conte infocando contro a’ sudditi la sua stracotata superbia, fece
decreto, che chi non pagasse fosse bandito, e dicea, che chi non volea
pagare, o non poteva, ch’egli era della setta de’ Catalani; e per
questo modo abbattea la sua parte, e crescea quella degli avversari.
Avvenne che il popolo di Messina s’accostò col conte Arrigo Rosso e
col conte Simone di Chiaramente, amendue della setta de’ Palizzi,
ma portavano invidia al conte Mazzeo perch’avea troppo usurpata la
signoria, e sotto titolo di dire che voleano pace, mossono il lieve
popolo a gridare pace: e levato il romore, con furore corsono al
palagio del re ov’abitava il conte Mazzeo: e trovandolo nella sala col
giovane duca, in sua presenza uccisono lui, e la moglie e due suoi
figliuoli, lasciando il duca con gran paura e tremore, e legati i
capestri al collo de’ morti li tranarono per la terra vituperosamente,
e poi li arsono, e la polvere gittarono al vento. E in questi medesimi
dì quelli di Sciacca feciono il simigliante a’ loro maggiori della
setta del conte Mazzeo predetto. Il duca, benchè fosse sicurato dal
popolo, per la concetta paura prese suo tempo e andossene a Catania,
accostandosi alla setta de’ Catalani. Questo repentino caso di cotanto
polente usurpatore della repubblica è da notare, per esempio di coloro
i quali colla destra della fallace fortuna in futuro monteranno a
somiglianti gradi, di non essere ignoranti de’ nascosi aguati che
nell’invidia e ne’ furori de’ non fermi stati si racchiudono.

CAP. LXXVIII.
_Come fu creato nuovo tribuno in Roma._
Egli è da dolersi per coloro c’hanno udito e inteso le magnifiche
cose che far solea il popolo di Roma, con le virtù de’ loro nobili
principi, in tempo di pace e di guerra, le quali erano specchio e luce
chiarissima a tutto l’universo, vedendo a’ nostri tempi a tanta vilezza
condotto il detto popolo e’ loro maggiori, che le novità che occorrono
in quell’antica madre e donna del mondo non paiono degne di memoria
per i lievi e vili movimenti di quella, tuttavia per antica reverenza
di quel nome non perdoneremo ora alla nostra penna. Essendo il popolo
romano ingrassato dell’albergherie de’ romei, e fatto e disfatto in
breve tempo l’uficio de’ loro rettori, i loro principi cominciarono
a tencionare del senato, e il popolo lieve e dimestico al giogo,
dimenticata l’antica franchigia, seguitava la loro divisione. Faceva
parte ovvero setta Luca Savelli con parte degli Orsini e co’ Colonnesi,
e gli altri Orsini erano in contradio: e per questo vennero all’arme, e
abbarrarono la città, e combatteronsi alle barre tutto il mese d’agosto
del detto anno. In fine il popolo abbandonò d’ogni parte la gara de’
loro principi, e fece tribuno del popolo lo Schiavo Baroncelli, il
quale era scribasenato, cioè notaio del senatore, uomo di piccola e
vile nazione, e di poca scienza. Tuttavia, perch’egli non conosceva
molto i Romani e i vizi loro, cominciò con umiltà a recare ad alcuno
ordine il reggimento al modo de’ comuni di Toscana; e per partecipare
il consiglio de’ popolani, per segreto squittino elesse e insaccò assai
buoni uomini cittadini romani di popolo per suoi consiglieri, de’ quali
ogni capo di due mesi traeva otto, e con loro deliberava le faccende
del comune; e fece camarlinghi dell’entrata del comune, e cominciò a
fare giustizia, e levare i popolani del seguito de’ grandi, e molto
perseguitava i malfattori: sicchè alcuno sentimento di franchigia
cominciò a gustare quel popolo, la quale poi crebbe a maggiori cose,
come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. LXXIX.
_Come furono sconfitti in mare i Genovesi alla Loiera._
Essendo venuto il tempo che la furiosa superbia de’ Genovesi per far
guerra a’ Veneziani e Catalani avea da catuna parte apparecchiate in
mare le loro forze, del mese d’agosto del detto anno i Genovesi si
trovarono con sessanta galee armate, avendo per loro ammiraglio messer
Antonio Grimaldi, nella quale erano tratti di tutte le famiglie la
metà de’ più chiari e nobili cittadini di Genova e della Riviera, il
quale ammiraglio si trasse con l’armata a Portoveneri, per non lasciare
mettere scambio a’ cittadini che ’l procacciavano, dicendo, che col
loro aiuto e consiglio sperava d’avere la vittoria de’ loro nimici,
e aspettava lingua di loro sollecitamente. I Catalani aveano armate
trenta galee tra sottili e grosse e uscieri, e venti galee alle spese
de’ Veneziani, con cinquanta galee e tre grandi cocche incastellate, e
armate di quattrocento combattitori per cocca, avendo caricati cavalli
e cavalieri assai per porli in Sardegna, del detto mese d’agosto si
partirono di Catalogna, facendo con prospero tempo la via di Sardegna,
ove con l’armata de’ Veneziani si doveano raccozzare. E i Veneziani in
questi medesimi dì con venti galee armate di buona gente si dirizzarono
alla Sardegna. I Genovesi avuta lingua che catuna armata era in pelago,
avvisarono d’abboccarsi con l’una armata innanzi che insieme si
congiugnessono. E perocchè le sessanta loro galee non erano pienamente
armate, lasciarono otto corpi delle sessanta, e delle ciurme e de’
soprassaglienti fornirono ottimamente le cinquantadue, e con quelle
senza arresto, atandosi con le vele e co’ remi, con grande baldanza
si dirizzarono alla Sardegna. Ed essendo giunti presso alla Loiera,
ebbono lingua che l’armate de’ loro nimici s’erano raccozzate insieme;
e passato ch’ebbono una punta scopersono l’armata de’ Veneziani e de’
Catalani, i quali s’erano ristretti insieme, e le sottili galee aveano
nascose dietro alle grosse per mostrarsi meno che non erano a’ loro
nimici, e ancora s’incatenarono e stavano ferme senza farsi incontro
a’ Genovesi, mostrando avvisatamente paura, acciocchè traessono a loro
la baldanza de’ Genovesi con loro vantaggio. I Genovesi non ostante
ch’avessono perduta la speranza di non aver trovate l’armate partite, e
ingannati dalla vista, che pareva loro che le galee de’ loro avversari
fossono meno che non erano, e poco più che le loro, baldanzosi della
fresca vittoria avuta sopra i detti loro nimici in Romania, si misono
ad andare contro a loro vigorosamente. E valicata certa punta di mare,
si trovarono sopra la Loiera sì presso a’ loro nimici, ch’elli scorsono
ch’elli erano troppo più ch’elli non estimavano, e vidongli acconci
e ordinati alla battaglia, e che presso di loro aveano le tre cocche
incastellate e armate di molta gente da combattere; per la qual cosa
l’animo si cambiò a’ Genovesi, e la furia prese freno di temperanza,
e vorrebbono non essere sì presso a’ loro nimici, e tra loro ebbono
ripitio di non savia condotta: tuttavia presono cuore e franchezza
di mettersi alla battaglia, sentendosi l’aiuto del vento in poppa, e
alquanto contrario a’ loro avversari, conoscendo che l’aiuto delle
cocche non poteano avere durando quel vento, tuttavia più per temenza
che per franchezza legarono e incatenarono la loro armata, lasciando
d’ogni banda quattro galee sottili, libere d’assalire e da sovvenire
all’altre secondo il bisogno. I Veneziani e’ Catalani avendo a petto i
loro nimici, trassono della loro armata sedici galee sottili, e misonne
otto libere da catuna parte della loro armata, la quale aveano ordinata
e incatenata per essere più interi alla battaglia, ricordandosi che
l’essersi sparti in Romania gli avea fatti sconfiggere; e così ordinati
l’una gente e l’altra con lento passo si veniano appressando, e le
libere galee cominciarono l’assalto molto lentamente, che catuno stava
a riguardo per attendere suo vantaggio; e nonostante che i Veneziani
e’ Catalani fossono molti più che i Genovesi, tanto gli ridottavano,
che non s’ardivano ad afferrare con loro: è vero che il vento alquanto
gli noiava, più per non potere avere l’aiuto delle loro cocche, che per
altro, e però soprastavano. Dall’altra parte i Genovesi già impediti
per lo soperchio de’ loro nimici non s’ardivano a strignersi alla
battaglia, e così consumarono il giorno dalla mezza terza alla mezza
nona, con lieve badalucco delle loro libere galee. I Genovesi vedendo
che i loro nimici più potenti non li ardivano ad assalire, presono
più baldanza, e metteronsi in ordine d’andarli ad assalire con più
aspra battaglia. Ma colui che è rettore degli eserciti, avendo per
lungo tempo sostenuta la sfrenata ambizione de’ Genovesi, per lieve
spiramento di piccolo vento abbattè la loro superbia; che stando catuna
parte alla lieve battaglia si levò un vento di verso scilocco, il quale
empiè le vele delle tre cocche. I Catalani animosi contro a’ Genovesi,
vedendosi atare dal vento, apparecchiate loro lance, e dardi e pietre,
con ismisurato romore, levate l’ancore del mare, con tutte e tre le
cocche si dirizzarono contro all’armata de’ Genovesi, e con l’impeto
del corpo delle cocche sì fedirono nelle galee de’ Genovesi, e nella
prima percossa ne misono tre in fondo, e seguendo innanzi, alcuna
altra ne ruppono: e di sopra gittavano con tanta rabbia pietre lance e
dardi sopra i loro nimici, che parea come la sformata grandine pinta
da spodestata fortuna d’impetuosi venti, e molti Genovesi n’uccisono
in quel subito assalto, e annegaronne assai, e più ne fedirono e
magagnarono. L’armata de’ Veneziani e Catalani vedendosi fatta la via
a’ loro navilii, con più ardire si misono innanzi strignendosi alla
battaglia. I Genovesi, uomini virtuosi e di grande cuore, sostennono
francamente il grave assalto delle cocche, atandosi con l’arme e con le
balestra, magagnando molti de’ loro nemici, e alle galee rispondeano
con sì ardita e folta battaglia, che per vantaggio ch’e’ loro nimici
avessono non poteano sperare vittoria. Ma l’ammiraglio de’ Genovesi
invilito nell’animo suo di questo primo assalto, fece vista di
volere ricoverare la vittoria per maestria di guerra; e sollevata la
battaglia, in fretta fece sciogliere undici galee della sua armata,
e con quelle aggiunse l’otto sottili ch’erano libere dalle latora
dell’armata, e diede voce di volere volgere e girare dalle reni de’
nimici: e per questa novità i Veneziani e’ Catalani ebbono paura, e
sollevarono la battaglia, e stettono in riguardo, per vedere quello
che le dette galee volessono fare. Ma l’ammiraglio abbandonata la
battaglia, e lasciate l’altre galee insieme alla fronte de’ nimici,
fece la via di Genova senza tornare all’oste, e già si cominciava a
tardare il giorno. Vedendo i Veneziani e’ Catalani che l’ammiraglio
de’ Genovesi non avea girato sopra loro, ma era al disteso fuggito
con diciannove galee, con certezza di loro vittoria vennono sopra i
Genovesi; i quali vedendosi abbandonati dal loro ammiraglio, senza
resistenza chi non potè fuggire si renderono prigioni. Così i Veneziani
e’ Catalani senza spandimento di loro sangue ebbono de’ Genovesi piena
vittoria: ed ebbono trenta corpi di galee e più di tremilacinquecento
prigioni, fra i quali furono molti nominati grandi e buoni cittadini
di Genova. E morti ne furono e annegati con le ciurme più di duemila.
La detta sventurata battaglia per i Genovesi fu il dì di san Giovanni
dicollato, a dì 29 d’agosto del detto anno.

CAP. LXXX.
_Come i Catalani perderono loro terre in Sardegna._
Con piccolo travalicamento di tempo sosterremo alquanto l’altre cose,
raccogliendo i fatti che nell’isola di Sardegna avvennono dopo la detta
vittoria. I Catalani e’ Veneziani con la loro armata, e con le tre
cocche, e con le galee prese de’ Genovesi e co’ prigioni arrivarono in
Sardegna, e nella loro giunta avendo messo in terra i loro cavalieri,
e gli altri soprassaglienti, e molti delle ciurme, il castello della
Loiera, e ’l castello Lione, e il castello Genovese, e Sasseri e più
altre terre che teneano i Genovesi s’arrenderono a’ Catalani. Avendo
senza fatica fatto l’acquisto delle dette castella, aggiunte alla
loro vittoria, pensarono d’acquistare tutto il rimanente dell’isola
che si possedea per lo giudice d’Alborea, e con più baldanzosa che
provveduta volontà, o buon ordine, se n’andarono verso Arestano, non
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