Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 14

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restituì ne’ suoi onorie giurisdizioni e dominii personali e reali. E
concedette che il comune e popolo, e la città e contado e distretto
di Firenze si reggesse secondo gli statuti e le leggi municipali e
ordinamenti consueti del detto comune: e di singolare grazia confermò
al detto comune per suoi privilegi quello che più gli parve grave,
cioè, la confermazione delle leggi dette e statuti fatti, e che per
innanzi si facessono, approvandoli e confermandoli in quanto le comuni
leggi nominatamente non le riprovassono: dicendo, la moltitudine delle
leggi è tanta, che se a questo non hanno provveduto, io a’ Fiorentini
nol vo’ negare. Ancora, che i priori dell’arti e il gonfaloniere della
giustizia, che sono e che per li tempi saranno all’uficio del priorato,
sieno irrevocabili suoi vicari tutto il tempo della sua vita. E il
detto imperadore graziosamente, avendo affezione a volere mantenere il
pacifico stato e tranquillo riposo del comune di Firenze, acciocchè per
lo suo avvenimento in quella città non nascesse tumulto o mutazione,
promise e concedette di grazia speziale di non volere entrare nella
città di Firenze nè in alcuna sua terra murata. I sindachi predetti
a vice e a nome del comune di sopra detto feciono a lui in pubblico
la sommessione e l’ubbidienza, e giurarono liberamente riconoscendolo
per vero eletto e futuro imperadore: e la reverenza li feciono in
segno del debito omaggio; e promisongli in nome del comune di Firenze
per satisfazione intera di ciò, che obbligati fossono per lo tempo
passato infino al presente dì, a lui e a tutti i suoi antecessori, per
qualunque ragione o cagione dire o nominare si potesse, e ancora per
tutte le terre che ’l detto comune tiene, e ha tenute in suo contado e
in suo distretto, fiorini centomila d’oro in quattro paghe in cinque
mesi, finendo per tutto il mese d’agosto del detto anno 1355: e per lo
tempo avvenire promisono di dare ogni anno del mese di marzo al detto
imperadore Carlo, alla sua vita solamente, fiorini quattromila d’oro
per compensagione di censo, in quanto le città di Toscana fossono
tenute di ragione all’imperio, e oltre a ciò, per tutte e singule
quelle cose le quali il detto comune per se e per lo suo contado e
distretto dire si potesse ch’all’imperio fossono per alcuna cosa
obbligati; e di tutti i detti patti e convenienze, oltre a’ privilegi
reali, fu contento l’imperadore futuro che ser Agnolo di ser Andrea
di messer Rinaldo da Barberino, notaio pubblico imperiale, ne facesse
carta e pubblico istrumento al detto comune. Aggiugnesi qui, benchè
quello che seguita avvenisse dopo la sua coronazione, acciocchè insieme
si trovi la memoria de’ patti e de’ privilegi imperiali, e dell’arrota
della graziosa libertà del detto imperadore inverso il nostro comune.
E a dì 3 di maggio 1355 nella città di Siena, tornando l’imperadore
dalla sua coronazione, tutte le dette convenienze e promesse fatte
rinnovò, e comandò che si dessono al nostro comune sotto la fermezza
de’ suoi privilegi imperiali roborati delle bolle dell’oro. E avendo
nel processo del tempo il detto imperadore trovato il comune di Firenze
in molta fede e dirittura delle sue promesse, non ostante che i Pisani,
e’ Sanesi e gli altri Toscani l’avessono tradito e messo in grave caso
di fortuna, essendo ridotto a Pietrasanta per partirsi d’Italia, e
avendogli i Fiorentini con gran pericolo mandato là il compimento de’
centomila fiorini promessi, avendolo egli molto a grado, e commendando
l’amore e la fede del comune, in vituperio degli altri comuni
ch’aveano mostrato la libera suggezione all’imperio, e poi l’aveano
tradito, s’offerse singolarmente a’ Fiorentini, e di suo proprio
movimento privilegiò al nostro comune generalmente ciò che tenea in
suo distretto, e mandonne i suoi privilegi imperiali bollati d’oro al
nostro comune, fatti in Pietrasanta a dì 3 di giugno 1355. In questo
tempo il comune di Firenze tenea in suo distretto la Valdinievole, il
Valdarno di sotto, Pistoia, e ’l castello di Serravalle, e tutta la
montagna di sotto, e Colle, e Laterina, e Montegemmoli, e la terra di
Barga con più castella di Garfagnana, e Castel san Niccolò col suo
contado, e la montagna fiorentina, e molte altre terre e castella che
qui per brevità non si nominano, e la nobile terra di Sangimignano e di
Prato, avvegnachè già, come è detto, erano ridotte a contado di Firenze.

CAP. LXXVII.
_Come fu offesa la libertà del popolo di Roma da’ Toscani._
Vedendo i falli commessi per li comuni di Toscana, che liberamente
sottomisono la loro libertà al nuovo imperadore, ci dà materia di
ricordare per esempio del tempo avvenire, come col popolo romano i
comuni d’Italia, e massimamente i Toscani, sotto il loro principato
parteciparono la cittadinanza e la libertà di quello popolo, la cui
autorità creava gl’imperadori: e questo medesimo popolo, non da se, ma
la Chiesa per lui, in certo sussidio de’ fedeli cristiani, concedette
l’elezione degl’imperadori a sette principi della Magna. Per la qual
cosa è manifesto, avvegnachè assai più antiche storie il manifestino,
che ’l popolo predetto faceva gl’imperadori, e per la loro reità
alcuna volta gli abbattea, e la libertà del popolo romano non era in
alcun modo sottoposta alla libertà dell’imperio, nè tributaria come
l’altre nazioni, le quali erano sottoposte al popolo, e al senato e al
comune di Roma, e per lo detto comune al loro imperadore: e mantenendo
a’ nostri comuni di Toscana l’antica libertà a loro succeduta dalla
civiltà del popolo romano, è assai manifesto, che la maestà di quel
popolo per la libera sommessione fatta all’imperadore per lo comune di
Pisa, e di Siena, e di Volterra, e di Samminiato fu da loro offesa,
e dirogata la franchigia de’ Toscani vilmente, per l’invidia ch’avea
l’uno comune dell’altro, più che per altra debita cagione.

CAP. LXXVIII.
_Di quello medesimo._
Seguitiamo ancora a dire le cagioni per le quali, oltre a ciò ch’è
detto nel precedente capitolo, a’ comuni italiani, senza offesa
del sommo impero, è loro lecito anzi debito il patteggiare con
gl’imperadori. L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti, l’una,
che seguita ne’ fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato
che ha da Dio e dal santo imperio in quello, e questi sono dinominati
Guelfi, cioè guardatori di fè: e l’altra parte seguitano l’imperio,
o fedele o infedele che sia delle cose del mondo o santa Chiesa, e
chiamansi Ghibellini, quasi guida belli, cioè guidatori di battaglie,
e seguitano il fatto, che per lo titolo imperiale sopra gli altri
sono superbi, e motori di lite e di guerra. E perocchè queste due
sette sono molto grandi, ciascuna vuole tenere il principato, ma non
potendosi fare, ove signoreggia l’una, e ove l’altra, quanto che tutti
si solessono reggere in libertà di comuni e di popoli. Ma scendendo
in Italia gl’imperadori alamanni, hanno più usato favoreggiare i
ghibellini ch’e’ guelfi, e per questo hanno lasciato nelle loro città
vicari imperiali con le loro masnade: i quali continovando la signoria,
e morti gl’imperadori di cui erano vicari, sono rimasi tiranni, e
levata la libertà a’ popoli, e fattisi potenti signori, e nemici
della parte fedele a santa Chiesa e alla loro libertà. E questa non
è piccola cagione a guardarsi di sottomettersi senza patti a’ detti
imperadori. Appresso è da considerare, che la lingua latina, e’ costumi
e’ movimenti della lingua tedesca sono come barbari, e divisati e
strani agl’Italiani, la cui lingua e le cui leggi, e’ costumi, e’
gravi e moderati movimenti, diedono ammaestramento a tutto l’universo,
e a loro la monarchia del mondo. E però venendo gl’imperadori della
Magna col supremo titolo, e volendo col senno e con la forza della
Magna reggere gl’Italiani, non lo sanno, e non lo possono fare: e
per questo, essendo con pace ricevuti nelle città d’Italia, generano
tumulti e commozioni di popoli, e in quelli si dilettano, per essere
per contraversia quello ch’essere non possono nè sanno per virtù, o
per ragione d’intendimento di costumi e di vita. E per queste vive e
vere ragioni, le città e’ popoli che liberamente gli ricevono conviene
che mutino stato, o di venire a tirannia, o di guastare il loro usato
reggimento, in confusione del pacifico e tranquillo stato di quella
città, o di quello popolo che liberamente il riceve. Onde volendo
riparare a’ detti pericoli, la necessità stringe le città e’ popoli,
che le loro franchigie e stato vogliono mantenere e conservare, e non
essere ribelli agl’imperadori alamanni, di provvedersi e patteggiarsi
con loro: e innanzi rimanere in contumacie con gl’imperadori, che senza
gran sicurtà li mettano nelle loro città. Quello che di ciò abbiamo
qui di sopra fatto memoria, a beneficio e ammaestramento della libertà
de’ comuni d’Italia, si prova per gli antichi esempi, chi li vorrà
ricercare, e per li nuovi, chi li vorrà ricercare e appresso leggere il
nostro trattato.

CAP. LXXIX.
_Come la gran compagnia rubò il Guasto in Puglia._
Il conte di Lando con la gran compagnia avendo soggiornato in
Abruzzi infino all’entrata di marzo, si mosse da Pescara e da san
Fabiano, e andò verso il Guasto. Que’ della terra male provveduti da
loro, e peggio dal re loro signore, trattarono con la compagnia, e
fidaronsi mattamente nelle loro promesse, che non li ruberebbono, e
che torrebbono della roba derrata per danaio, li misono nella terra;
ma come furono entrati dentro, i predoni usarono crudelmente la loro
rapina uccidendo e rubando tutta la terra, e appresso con fuoco
n’arsone gran parte: per lo cui esempio tutte l’altre terre di Puglia
si disposero a ogni pericolo per difendersi da loro, e afforzaronsi
francamente per modo, che quanto ch’elli stessono lungamente a campo
senza potere più acquistare città o castella. Appresso valicarono a
san Siverno in Puglia, e ivi s’accamparono e stettono lungamente,
scorrendo e predando e facendo danno assai a’ paesani: e dall’altra
parte il Paladino aggiuntosi gente della compagnia tribolava la marina
della Puglia, ed era palese a’ regnicoli che messer Luigi di Durazzo
favoreggiava la compagnia.

CAP. LXXX.
_Come l’imperadore richiese di lega i Fiorentini, e non l’ebbe._
Avendo l’imperadore compiuto e fermo l’accordo co’ Fiorentini, mandò
a Firenze suoi ambasciadori a richiedere il comune di Firenze con
grande stanza, che piacesse loro per bene e stato di tutte le città di
Toscana, e per levare ogni pericolo che venire potesse loro addosso per
la forza de’ tiranni e della gran compagnia, per vivere i detti comuni
insieme in unità e in pace, di fare lega insieme, e quella gente per
via di taglia che a’ Fiorentini piacesse, e offerendo l’aiuto suo ove
che fosse a ogni loro bisogno molto largamente, dicendo, che presa la
corona intendea d’andare in Lombardia o nella Magna, ove il comune di
Firenze consigliasse. I Fiorentini in più consigli privati e palesi
praticarono se questa lega fosse da fare o no: e infine considerato
il pericolo dell’imprese, e temendo di non correre ad essere indotti
a rompere la pace a’ signori di Milano, e che la gente d’arme raunata
sotto un capitano dato dall’imperadore non potesse essere cagione
di novità contro alla libertà del comune, al tutto deliberare che
la lega per lo nostro comune non si facesse, e con belle e oneste e
legittime cagioni si diliberarono di quella richiesta. L’imperadore
essendo in movimento per andare a vicitare le città e le terre che gli
s’erano date, e andare per la corona, soprastette senza accettare la
scusa, e domandò che il nostro comune apparecchiasse dugento cavalieri
che l’accompagnassono a Roma: e da Pisa si partì a dì 23 di marzo e
andossene a Volterra, ove fu ricevuto secondo la loro possa assai
onoratamente; e albergatovi una notte, l’altro dì venne a Samminiato, e
da loro fu ricevuto come signore; e a dì 23 di marzo giunse a Siena la
sera, ove fu ricevuto con singolar festa e onore.

CAP. LXXXI.
_Come si mutò lo stato de’ nove di Siena._
E’ pare degna cosa, che coloro i quali ingannano in comune i loro
cittadini, e rompono la fede a’ loro amici, che alcuna volta per quella
medesima sieno puniti, e portino pena de’ peccati commessi. L’ordine
de’ nove di Siena, avendo per lungo tempo ingannati e detratti dagli
ufici del comune con malo ingegno i loro cittadini, come già abbiamo
narrato, e tradito il comune di Firenze nel cospetto dell’imperadore,
seguitando la rea intenzione della setta di Giovanni d’Agnolino Bottoni
loro caporale, quando liberamente si dierono all’imperadore, credendo
per quello essere esaltati, e avere abbattuto lo stato e la libertà del
comune di Firenze; il comune di Firenze per la sua costanza e savia
provvisione rimase grande nel cospetto dell’imperadore e privilegiato
da lui, e mantenea accrescendo suo stato, la sua libertà e il suo
onore. Entrato l’imperadore in Siena il martedì sera, il mercoledì
vegnente, il dì dell’Annunziazione di nostra Donna, gli _anni Domini_
1355 a dì 25 di marzo, Tolomei, Malavolti, Piccolomini, Saracini, e
alcuno de’ Salimbeni, contrari a Giovanni d’Agnolino Bottoni loro
consorto, con seguito del minuto popolo levarono il romore nella città,
dicendo: Viva l’imperadore, e muoiano i nove e le gabelle: e in questa
furia furono morti due cittadini: e corsi alle case del capitano
della guardia, e trovandolo gravemente malato in sul letto, rubarono
tutto l’ostiere e ciò che aveva la famiglia, e l’arme e’ cavalli, e
lasciato il capitano in sulla paglia in terra, in poch’ore appresso
morì: e di là corsono al palagio de’ nove, e cacciatine in furia i
nove e la loro famiglia vi misono l’imperadore, e feciono mandare per
la cassa dov’erano insaccati i cittadini dell’ordine de’ nove e gli
altri loro uficiali, e usando la loro besseria, con grande dirisione
la feciono tranare per la terra, andandola scopando, e poi impetrato
il comandamento dall’imperadore l’arsono con gran romore in sul campo,
e appresso tutti gli atti e ordini de’ nove, e tutti gli ufici della
città; e le persone di coloro ch’aveano avuti gli ufici furono in
persecuzione e in pericolo grande nella cittadinanza, come leggendo si
potrà trovare.

CAP. LXXXII.
_Di quello medesimo._
Avendo veduto l’eletto imperadore il romore e le novità fatte nella
città di Siena con dimostrazione d’esserne stato contento, con poco
onore dell’imperiale fama, il seguente dì fece ragunare tutti i
cittadini a parlamento; e quando gli ebbe ragunati, fece separare i
grandi dal popolo, e i popolani maggiori dal minuto popolo, e a catuno
per se fece fare un sindaco con pieno mandato a sottomettersi da capo
liberamente senza alcuno eccetto, e da capo si diedono all’imperadore,
sottomettendo all’imperiale signoria il comune, il popolo, e la città,
e il contado, e il distretto e la giurisdizione di Siena, dandogli in
tutto il misto e mero imperio di quella città, contado e distretto: e
incontanente licenziati tutti gli uficiali e rettori della terra ne
fece suo vicario l’arcivescovo di Praga: e fatta pigliare la tenuta
e la guardia di tutte le loro terre e castella, per decreto cassò,
e annullò, e vietò in perpetuo l’uficio e ordine de’ nove. Coloro
ch’erano stati di quell’ordine, villaneggiati da’ cittadini, veggendosi
a pericolo stando nella terra, chi se n’andò in una parte e chi in
un’altra partendosi della città; ed essendo dalle loro vicinanze con
giusta infamia guardati come traditori della propria patria e de’ loro
vicini, con grande vituperio traevano la loro vita nell’altrui terre.

CAP. LXXXIII.
_Il modo trovò il comune di Firenze per avere danari._
E’ non sarebbe da fare memoria di quello che seguita, se il modo
col quale il comune di Firenze ebbe i danari con agevolezza non ce
ne sforzasse, per buono esempio delle cose avvenire. Incontanente
che l’imperadore fu riposato in Siena, i Fiorentini non aspettando
il termine della prima paga, gli mandarono contanti a Siena fiorini
trentamila d’oro, i quali si pagarono a dì 27 di marzo 1355; della
qual cosa l’imperadore si tenne molto contento, perocchè li vennono a
gran bisogno, perchè era in su l’andare da Roma, e avea necessità di
provvedere a’ suoi baroni per aiuto alle spese. Il comune di Firenze
per avere questi danari e gli altri, ordinò nella città a’ suoi
cittadini un estimo che si chiamò la sega, che fu posto a’ cittadini
per casa certi danari il dì: e fatta la sega, si fece pagare soldi
quindici per ogni danaio, e catuno pagava questa piccola somma a
colta. Nondimeno, perchè i meno possenti parevano troppo gravati a
rispetto degli altri, il comune elesse d’ogni gonfalone certi uomini,
e commise loro ch’abbattessono il quarto di quello che montava la loro
sega sgravandone gl’impotenti; e questo si fece subito e comunalmente
bene: e però appresso la detta paga si raccolse un’altra volta a soldi
trenta il danaio per modo, che in termine di due mesi, o in meno,
ebbono contanti i fiorini centomila che si diedono all’imperadore,
senza andare alcuni esattori per la città, o essere alcuno gravato
per forza. È vero che leggi s’ordinarono per lo comune, che chi non
pagasse la sega per se o altri per lui non potesse avere uficio di
comune, nè dovesse essere udito in alcuno uficio in suo beneficio: e
ordinò il comune, che catuno che prestasse danari di questa sega, fosse
in certo tempo assegnato in su le sue gabelle con provvisione a dieci
per centinaio l’anno: e per questo molti cittadini mobolati pagavano
per chiunque volea dar loro alcuno vantaggio, e così gl’impotenti per
piccola cosa che si cavavano di borsa trovavano chi pagava per loro
e prendevano l’assegnamento. Il comune mantenne la fede di pagare a’
termini ch’avea promesso, e però a molti cittadini era grande guadagno,
e agli altri non era gravezza; e per questo, quanti danari fossono
bisognati al comune avea senza alcuna fatica, e il merito che pagava
tornava nelle mani de’ suoi cittadini, non però senza alcuna invidia.
Abbianne fatta questa memoria per li tempi avvenire, a dimostrare
quanto è utile al soccorso della repubblica mantenere il comune la
fede a’ suoi cittadini, e quanto bene seguita al comune l’ordine di
restituire le prestanze: perocchè nella nostra ricordanza è di veduta,
che il comune soleva fare libbre ed imposte le quali generavano molte
mortali nimicizie tra’ cittadini, perocchè si facevano disordinatamente
sconce, e se pure ventimila fiorini imponeva il comune, più di cento
case se n’abbattevano in Firenze, e recavansi i beni tra quelli de’
rubelli per cessanti delle fazioni del comune, e i cittadini erano
pegnorati o presi, e molti s’uscivano in bando per le dette cagioni, e
gli esattori e’ messi se n’andavano per loro col quarto dell’imposta,
in grave confusione della cittadinanza.

CAP. LXXXIV.
_L’ordine diede l’imperadore agli Aretini._
Gli ambasciadori del comune d’Arezzo avendo sostenuto molte battaglie
in giudicio da’ Tarlati e dagli Ubertini nell’udienza dell’imperadore e
del suo consiglio, che domandavano di volere tornare nella loro città
d’Arezzo, e avendoli gli ambasciadori convinti con ragione come non
erano degni di tornare cittadini in quella città, dov’avevano per loro
sfrenata potenza usate le tirannie manifeste e l’ingiuste operazioni,
per le quali aveano per più riprese fatto manifesto all’imperadore e
al suo consiglio, che quello comune sosterrebbe innanzi ogni altro
pericolo di fortuna, che coloro consentissono di rimettere nella città
sotto alcun patto. L’imperadore avendo assai sostenuto a riceverli in
servigio de’ Tarlati e degli Ubertini, vedendo la giusta costanza degli
ambasciadori, diliberò che tutti i cittadini non ribelli di quello
comune raccomunassono gli ufici, e che tanti vi fossono de’ ghibellini
quanto de’ guelfi; ma che le due castella della città si guardassono
solo per i guelfi, com’erano usate di guardare, per più fermezza dello
stato della città; e che catuno dovesse avere il frutto de’ suoi
propri beni, e non potessono domandare altro a quello comune. Gli
ambasciadori col sindacato del loro comune gli feciono la sommessione
di quello comune e l’omaggio, promettendoli ogni anno per censo fiorini
quattrocento d’oro del mese di marzo: e oltre a ciò gli donarono per
aiuto alla sua coronazione fiorini cinquemila d’oro, e l’imperadore
futuro per suoi privilegi reali privilegiò loro tutto il contado: e
questo fu fatto nella città di Siena all’uscita del mese di marzo 1355.

CAP. LXXXV.
_Come fu preso Montepulciano dalla casa de’ Cavalieri._
Essendo per lunga esperienza certificati messer Niccolò e messer
Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, che la loro discordia gli avea
abbattuti della signoria, e cacciati in esilio della loro terra e della
città di Siena, si ridussono a pace e a concordia; e innanzi che il
bollore del popolo sanese s’acchetasse in fermo stato, messer Niccolò
di volontà di messer Iacopo suo consorto tornò in Montepulciano,
ricevuto da’ terrazzani che dentro v’erano con allegra faccia, perocchè
volentieri tornavano al loro antico reggimento: nondimeno la rocca
ch’era in mano e in guardia de’ Sanesi non potè avere. La novella
venne a Siena di presente dov’era l’imperadore, e messer Iacopo de’
Cavalieri ch’era di ciò avvisato, avendo in sua compagnia alquanti
grandi uomini di Siena, incontanente fu in presenza dell’imperadore,
e informollo pienamente del manifesto torto che il popolo di Siena
avea fatto loro, non attenendo i patti nè le convenienze ch’aveano
promesse per la corrotta fede de’ nove; e que’ grandi cittadini
ch’erano con lui feciono chiaro l’imperadore che quello che diceva era
in fatto vero: e però in quello stante, quanto ch’e’ s’avesse altro in
cuore, disse ch’era contento che tenessono la terra di Montepulciano
come suoi vicari; e il terzo dì appresso, cavalcando l’eletto verso
Roma, volle andare a desinare nella terra. I signori allegramente
gli apparecchiarono la desinea; e com’ebbe mangiato ne menò seco a
Roma l’uno e l’altro, e nella terra mise altra gente alla guardia: ed
essendo in Roma, e sentendo alcuna cosa contro a messer Niccolò, o
che per sospetto si movesse, il fece citare, ed egli ingelosito per
sospetto della sua persona si partì di Roma, senza comparire e senza
prendere comiato.

CAP. LXXXVI.
_Come il papa riprese in concistoro certi dissoluti cardinali._
Il cardinale di Pelagorga di Guascogna baldanzoso e superbo, non meno
per la potenza dei suo legnaggio che per lo cappello rosso, oltre a
molte grandi e sconce cose fatte per la sua arroganza, singolari nella
corte di Roma, in questi dì del mese di marzo, nella santa Quaresima,
essendo per loro bisogne venuti a corte nella città d’Avignone alquanti
cavalieri guasconi, disordinati, della setta sua e di suo lignaggio,
senz’altra singolare cagione ne fece uccidere tre, che niuna guardia
si pensavano avere a fare, non guardando alla reverenza de’ pastori
di santa Chiesa, nè a’ santi giorni quaresimali. E altri giovani
fatti cardinali per papa Clemente erano stati, e in questi dì erano
in tanta disonesta e dissoluta vita, che niuni giovani dissoluti
tiranni gli avanzavano: e intra l’altre cose (con vergogna il dico)
facevano nella città a’ loro scudieri rapire le giovani donne a’ loro
mariti manifestamente, e senza vergogna le teneano palesi nelle loro
livree; e molte cose violenti usavano in vituperio di santa Chiesa.
Onde papa Innocenzio sesto udendo molta infamia nella corte di questi
cardinali, facendo dell’edima santa singolare consistoro per questa
cosa, li riprese in pubblico aspramente, dicendo: Voi vi portate sì
dissolutamente in vituperio di santa Chiesa, che mi conducerete a
essere in parte, ch’io farò abbassare la vostra superbia; minacciandoli
di tornare la corte in Italia: ma poco se n’ammendarono; e il tempo non
era ancora ordinato da Dio di tornare alla sedia apostolica di Roma i
suoi pontefici per l’antico peccato de’ prelati italiani, che ancora
non si mostravano soperchiati dagli oltramontani.

CAP. LXXXVII.
_Di alcuna novità di Pisa per gelosia._
Essendo l’imperadore a Siena, era in Pisa rimaso un suo vicario con
seicento cavalieri tedeschi: i Pisani per le divisioni e per l’invidia
delle loro sette mormoravano l’uno contro l’altro, e catuno contro
all’imperadore. Il vicario per reprimere la volontà de’ malcontenti, e
per accrescersi favore del minuto popolo ch’era tutto imperiale, a dì
29 di marzo 1355 fece improvviso a’ Pisani di subito armare tutte le
sue masnade tedesche, e con loro insieme corse tutta la città gridando,
viva l’imperadore, e il popolo rispondea per tutte le contrade, viva
l’imperadore; e senza alcuna altra novità fare s’acquetarono: e tornati
a’ loro alberghi puosono giuso l’armi, e a’ Pisani delle sette crebbe
il mal volere contro all’imperadore.

CAP. LXXXVIII.
_Della gente che i Fiorentini mandarono con l’imperadore._
L’eletto imperadore volendo andare a prendere la corona a san Piero
a Roma, si pensò, che non ostante la sua copiosa compagnia, grande
sicurtà gli sarebbe per tutto ad avere in sua condotta l’insegna del
comune di Firenze, e alla guardia della sua persona de’ suoi cittadini
con parte della loro gente d’arme; e però richiese i Fiorentini che
gli mandassono de’ loro cavalieri dugento con l’insegna del comune, e
con alcuni cittadini alla sua compagnia. Il comune elesse di presente
due cittadini, uno grande e uno popolare, ambedue cavalieri, e dugento
barbute di gente eletta molto bene montati e armati nobilemente, e bene
guerniti di robe e d’arnesi, e diedono l’insegna del popolo, il giglio
e il rastrello, senza alcuna aguglia: e giunti a Siena, l’imperadore
li ricevette graziosamente, e costituilli alla guardia del suo corpo,
perocchè gran confidanza avea de’ Fiorentini, e tra tutta sua gente
non avea altrettanti cavalieri sì bene a cavallo nè sì bene armati:
e in sua compagnia andarono, e stettono, e tornarono da Roma infino
alla città di Siena, e ivi licenziati dall’imperadore si tornarono a
Firenze. Abbiamo di questa lieve cosa fatta memoria, non tanto per lo
fatto, quanto che fu cosa disusata e strana per lunghi tempi passati,
vedere l’insegna del comune di Firenze a guardia dell’imperadore.

CAP. LXXXIX.
_Come l’imperadore si partì da Siena._
Avendo l’imperadore veduto la subita revoluzione fatta per i cittadini
di Siena, d’avere disfatto e abbattuto il loro antico reggimento e
l’ordine de’ nove, avendo di presente ad essere a Roma il dì della
Pasqua della santa Resurrezione a dì 5 d’aprile, prese sospetto di
lasciarla in libertà, e lasciovvi l’arcivescovo di Praga cui n’avea
fatto vicario, prelato di grande autorità, e sperto delle cose del
mondo, e pro’ e ardito in fatti d’arme, e in sua compagnia e per suo
consiglio lasciò il signore di Cortona, e i Tarlati d’Arezzo, e’ conti
da Santafiore, e più altri caporali di parte ghibellina, mostrando più
confidanza in loro che nelle case guelfe di Siena, che liberamente
gli aveano data la signoria di quella città: per la qual cosa i
gentili uomini di quella terra e i popolani grassi molto si turbarono
e rimasono malcontenti, benchè in apparenza allora non ne feciono
dimostrazione; e a dì 28 di marzo 1355 l’eletto si partì da Siena, e
seguitò a gran giornate il suo viaggio, e infino alla sua tornata i
Sanesi vivettono senza niuno loro ordine sotto il volontario reggimento
del vicario.

CAP. XC.
_Della gran compagnia ch’era in Puglia._
In questo tempo, all’entrare d’aprile del detto anno, la compagnia
del conte di Lando era cresciuta nel Regno in quattromila barbute, e
in molti masnadieri, e in grande popolo di bordaglia, e tenendo loro
campi sopra Nocera e sopra Foggia correvano la Puglia piana predando
e pigliando uomini e femmine, e bestiame e roba ovunque ne poteano
giungnere, e strignevano per paura i casali e le ville a portare
vittuaglia al campo. Nel paese faceano danno assai; ma niuna terra
murata poterono acquistare, perocchè non aveano argomenti da vincerle
per battaglia, e per la fede ch’aveano rotta a quelli del Guasto quando
si dierono loro, niuna terra si volea più confidare alle loro promesse,
ma tutte s’erano armate e afforzate alla difesa. Stando la compagnia
per questo modo in Puglia, il re Luigi poco mostrava che si curasse
della compagnia, e meno del danno de’ suoi sudditi, con mancamento
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