Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 06

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pensando trovarvi resistenza. Ma il giudice con molta gente d’arme e
con molti Sardi, i quali aveva accolti per difendere le sue terre,
venne loro incontro del mese di settembre, e abboccatosi con loro,
vennono alla battaglia, e furono sconfitti i Catalani; de’ quali tra
nella battaglia e nella fuga rimasono morti più di millecinquecento
Catalani. E per questa sconfitta, e per la mala guardia che delle terre
nuovamente acquistate faceano, e per l’aspra signoria ch’usavano a’
paesani tutte si rubellarono, e ancora l’altre che prima vi teneano,
sicchè tutto perderono, fuori che castello di Castro detto Caglieri:
e volendole racquistare per forza, feciono maggiore oste, e un’altra
volta s’abboccarono co’ Sardi e col giudice d’Alborea; e dopo lunga
battaglia, i Catalani ritennono il campo e i Sardi l’abbandonarono, con
pochi più morti di loro che de’ loro nimici. Onde i Catalani ebbono
poco lieta vittoria, lasciando morti in questa seconda battaglia
cinquecento combattitori, benchè più ne fossono morti de’ Sardi, e
però non racquistarono alcuna terra: e dopo lunga dimora, del mese di
novembre, avendo perduti assai de’ loro prigioni genovesi ch’erano
accomandati nella Loiera, si partirono dell’isola, andandosene i
Catalani in Catalogna, e i Veneziani a Vinegia a salvamento, vinti i
Genovesi loro nimici, e abbassata con piena vittoria la loro superbia.

CAP. LXXXI.
_Come il prefetto venne a oste a Todi._
In questo tempo, la Chiesa di Roma per racquistare il Patrimonio
occupato dal prefetto da Vico avea tenuto gente d’arme a Montefiascone
guerreggiando il prefetto; e in questa guerra fra Moriale di Provenza,
grande guerriere e nomato soldato, con sue masnade avea servito la
Chiesa lungamente, senza potere avere l’intero pagamento de’ suoi
soldi, e però s’accostò col prefetto, e andò dalla sua parte con
quattrocento cavalieri. E vedendosi il prefetto sicuro dalla forza
della Chiesa, avendo in sua compagnia i Chiaravallesi usciti di Todi,
con fra Moriale e con altre sue genti d’arme di subito e improvviso se
ne venne a Todi, e con lui i Chiaravallesi, i quali si sentivano tanti
parenti e amici nella città, che si credeano, come fossono con forte
braccio ivi presso, che li vi rimetterebbono dentro o per ingegno o
per forza: ma trovaronsi ingannati, perocchè i cittadini temendo della
tirannia del prefetto e de’ loro cittadini si misono alla difesa, e il
prefetto e i Chiaravallesi ad assedio. Ma avendo i Todini aiuto da’
Perugini e dal comune di Firenze, che catuno vi mandò gente d’arme, il
prefetto perdè la speranza d’entrare nella terra; e statovi a campo di
settembre e d’ottobre, e dato il guasto intorno alla città, si partì
dall’assedio con suo poco onore.

CAP. LXXXII.
_Come fu presa e lasciata Vicorata._
Di questo mese di settembre del detto anno, il conte Guido da
Battifolle avendo accolta gente de’ suoi fedeli e del conte Ruberto,
sentendo che Andrea di Filippozzo de’ Bardi signore del contado del
Pozzo e di Vicorata era in bando del comune di Firenze per malificio,
tenendosi gravato da lui, improvviso di mezza notte venne a Vicorata,
e con alcuno trattato il dì seguente entrò in Vicorata, ed ebbe tutto
il procinto, e rinchiuso Andrea e alcuni de’ fratelli nella torre, alla
quale accostato il conte suoi dificii la faceva tagliare. Il comune
di Firenze sentendo i suoi cittadini a quello pericolo, non ostante
che fossono in bando, di presente mandarono comandando al conte Guido
che lasciasse quell’impresa. Il quale udito il comandamento de’ priori
di Firenze, essendo egli medesimo anco in bando del detto comune per
simile modo, di presente fu ubbidiente, e non lasciando alcuna cosa
torre o rubare se ne partì, e tornossi nel suo contado. La clemenza
del nostro comune poco appresso fece l’una parte e l’altra venire a
Firenze, e fatto fare pace tra loro, catuno per grazia trasse di bando.

CAP. LXXXIII.
_Come il conte di Caserta si rubellò dal re Luigi._
Il re Luigi di Gerusalemme e di Sicilia, in questo anno, il dì della
Pentecoste, avea fatta solenne festa co’ suoi baroni per l’annuale
rinnovellamento di sua coronazione. E in quella festa ordinò cosa
nuova e disusata alla corona, ch’egli elesse sessanta tra baroni e
cavalieri, i quali giurarono fede e compagnia insieme col detto re,
sotto certo ordine di loro vita, e di loro usaggi e vestimenti: e fatto
il giuramento, si vestirono d’una cottardita e d’un’assisa e d’un
colore tutti quanti, portando nel petto un nodo di Salomone, e chi ebbe
l’animo vano più magnificò la cottardita e il nodo d’oro e d’argento, e
di pietre preziose di grande costo e di grande apparenza; e fu chiamata
la compagnia del nodo. Il Prenze di Taranto fratello del re non v’era,
ma sopravvenne, e il re gli aveva fatta fare la cottardita reale, con
un nodo di perle grosse di gran valuta, e mandogliele all’ostello: il
Prenze non la volle vestire, dicendo che ’l nodo del fraternale amore
portava nel cuore, e donolla a suo cavaliere, la qual cosa il re non
ebbe a grado. In questo tempo il duca d’Atene avea messo grande odio
tra il Prenze di Taranto e ’l conte di Caserta, figliuolo che fu di
messer Dego della Ratta Catalano conte camarlingo: e per questo amando
il re il detto conte, e avendolo trovato leale e fedele, a instigamento
del Prenze convenne che il re contra sua voglia il sbandeggiasse. Il
conte si ridusse a Caserta, e tenea il Sesto e Tuliverno, e il Prenze
col duca d’Atene gli andò addosso con cento cavalieri, e in persona
vi venne il re con trecento e con assai popolo, volendo compiacere
al fratello. E un dì stando il re nel castello di Matalona sopra lo
sporto che chiamavano Gheffo, la sua gente presono un Unghero soldato
del detto conte, e con tanta maraviglia il condussono al re, ch’ogni
gente gli traeva dietro come s’elli avessono preso il re degli Unni;
e per questa pazzia caricarono sì sconciamente il Gheffo, che gran
parte n’andò a terra, ove morirono diciassette uomini, e molti se ne
magagnarono. Il re ch’era un poco da parte apprendendosi col Prenze,
come a Dio piacque, si ritenne in quello rimanente che del Gheffo non
cadde; messer Filippo di Taranto traboccò sopra i caduti e non ebbe
male. L’oste stette sopra il conte più tempo senza avere onore di cosa
che vi si facesse, e straccata se ne partì. Il conte con sue masnade
partita l’oste cominciò a cavalcare per Terra di Lavoro, e rubare le
strade e rompere i cammini, e conturbò tutto il paese, cavalcando
alcuna volta con trecento cavalieri infino presso a Napoli senza trovar
contasto: e vendicata sua onta, si ritenne alle terre sue senza fare
più danno o guerra.

CAP. LXXXIV.
_Come il cardinale legato venne a Firenze._
La Chiesa di Roma veggendo che ’l prefetto da Vico tirannescamente
cresciuto aveva occupato il Patrimonio, e che novellamente avea
acquistato la città d’Orvieto, il papa con deliberazione de’ cardinali
mandò legato in Toscana messer Gilio di Spagna cardinale, il quale
era stato al secolo pro’ e valente cavaliere e ammaestrato in guerra,
acciocchè con l’aiuto degl’Italiani racquistasse le terre di santa
Chiesa occupate nel Patrimonio. E datagli grande legazione il mandò
per terra in Lombardia, ove dall’arcivescovo di Milano fu ricevuto a
grande onore, facendogli fare per tutto suo distretto le spese con
largo apparecchiamento; ma in Bologna non volle ch’egli entrasse, e
però tenne la via da Pisa, e a dì 2 d’ottobre del detto anno giunse in
Firenze, ove fu ricevuto con grande onore, e con solenne processione e
festa, con un ricco palio di seta e d’oro sopra capo portato da nobili
popolani, e addestrato al freno e alla sella da gentili cavalieri di
Firenze, sonando tutte le campane delle chiese e del comune a Dio
laudiamo; e condotto per la città fu albergato in casa gli Alberti,
ove fece suo dimoro: e presentato dal comune confetti, e cera e biada
abbondantemente, e tre pezze di fini panni scarlatti di grana, e
datogli centocinquanta cavalieri in aiuto alla sua guerra, a dì 11
d’ottobre si partì, e andò a suo viaggio. E in questi dì Cetona si
rubellò al prefetto, e presela il conte di Sarteano con aiuto ch’ebbe
da’ Fiorentini, e poi la rassegnò al legato.

CAP. LXXXV.
_Rinnovazione del palio di santa Reparata._
In questi dì vacando in pace i Fiorentini, i priori vollono chiarire
perchè la chiesa cattedrale di Firenze era dinominata santa Reparata,
e perchè per antico costume in cotal dì s’è corso il palio in Firenze;
e trovossi per alcune scritture, come Radagasio re de’ Goti, e Svezi e
Vandali, avendo assalito l’imperio di Roma, e guaste in Italia molte
città e consumati gli abitanti, s’era messo ad assedio alla città
di Firenze con dugentomila cavalieri, essendo vescovo di Firenze il
venerabile san Zenobio della casa de’ Girolami nostro cittadino, il
quale avea seco due santi cappellani; e stando all’assedio, come a
Dio piacque, Onorio imperadore di Grecia in Italia venne al soccorso
dell’imperio di Roma, e in sua compagnia non avea oltre a tremila
cavalieri; e venendo incontro a’ nimici, tanta paura gli occupò, che
raccogliendosi dall’assedio, senza provvisione si misono ad entrare
tra le circustanti montagne, passando tra Fiesole e Monterinaldi, e
rattennonsi nella valle di Mugnone. Credesi, avvegnachè Onorio fosse
fedele cristiano, che Iddio facesse questo per le preghiere di san
Zenobio e de’ suoi santi cappellani. I barbari essendo rinchiusi
da aspre montagne, senza acqua e senza vittuaglia, dalla gente
dell’imperadore e da’ fiorentini paesani che sapeano i passi furono
ristretti per modo che uscire non ne poteano. Il loro re furandosi dal
suo esercito fu in Mugello preso e morto: e morendo i barbari di fame
e di sete, sentendo morto il loro re, gittate l’armi s’arrenderono,
e per fame e per ferro infine tutti perirono; e questo avvenne il
dì della festa della vergine benedetta santa Reparata, per la cui
reverenza s’ordinò e fece nuova chiesa cattedrale alla nostra città
intitolata del suo nome. E perocchè i nostri antichi non erano in
troppa magnificenza in que’ tempi, ordinarono che in cotal dì si
corresse un palio di braccia otto d’uno cardinalesco di lieve costo a
piede tenendosi al duomo, e movendosi i corridori di fuori della porta
di san Piero Gattolino: e per la rinnovazione di questa memoria il
comune l’ordinò di braccia dodici di scarlatto fine, e che si corresse
a cavallo.

CAP. LXXXVI.
_Come i Genovesi si misono in servaggio dell’arcivescovo._
Nuova e mirabile cosa seguita a raccontare, in considerazione del gran
cambiamento che fortuna fa degli stati del mondo. La nobile città di
Genova, e i suoi grandi e potenti cittadini, signori delle nostre
marine, e di quelle di Romania, e del Mare maggiore, uomini sopra gli
altri destri e sperti, e di gran cuore e ardire nelle battaglie del
mare, e per molti tempi pieni di molte vittorie, e signori al continovo
di molto navilio, usati sempre di recare alla loro città innumerabili
prede delle loro rapine, temuti e ridottati da tutte le nazioni
ch’abitavano le ripe del Mar tirreno e degli altri mari che rispondono
in quello, ed essendo liberi sopra gli altri popoli e comuni d’Italia,
per la sconfitta nuovamente ricevuta in Sardegna da’ Veneziani e
Catalani, con non disordinato danno, vennono in tanta discordia e
confusione tra loro nella città, e in tanta misera paura, che rotti
e inviliti come paurose femmine, il loro superbo ardire mutarono in
vilissima codardia, non parendo loro potere atarsi: eziandio avendo
il comune di Firenze mandato là suoi ambasciadori a confortarli, e a
profferere loro con grande affezione il suo aiuto, e consiglio e favore
largamente a mantenere e ricoverare loro franchigia e buono stato,
tanto erano con gli animi dissoluti per quella sconfitta e per loro
discordie, che non seppono conoscere rimedio al loro scampo, se non di
sottomettersi al servaggio del potente tiranno arcivescovo di Milano;
e di comune concordia il feciono loro signore, dandogli liberamente
la città di Genova e di Savona, e tutta la Riviera di levante e di
ponente, e l’altre terre del loro contado e distretto, salvo Monaco
e Metone e Roccabruna, le quali tenea messer Carlo Grimaldi, che non
le volle dare. E a dì 10 d’ottobre 1353, il conte Pallavicino vicario
dell’arcivescovo con settecento cavalieri e con millecinquecento
masnadieri entrò in Genova, ricevuto come loro signore; e disposto il
doge, e ’l consiglio, e tutti gli altri reggimenti del comune, prese la
signoria e il governamento delle dette città e de’ loro distretti, e
aperte le strade di Lombardia con sollecitudine, procacciò abbondanza
di vittuaglia a’ suoi servi, e prestanza al comune per armare alquante
galee in corso, ebbe fornito il prezzo di cotanto acquisto.

CAP. LXXXVII.
_Come i Pisani feciono confinati._
I Pisani vedendosi il tirannesco fuoco a’ loro confini, temettono de’
loro cittadini animosi di parte ghibellina, che per invidia de’ loro
reggenti avrebbono voluto la signoria dell’arcivescovo di Milano. E
temendo per questo i Gambacorti e i loro seguaci perdere lo stato,
di presente votarono la città d’ogni sospetto, mandando a’ confini
de’ loro cittadini, e prendendo buona guardia dentro e di fuori,
intendendosi co’ Fiorentini amichevolmente per la comune franchigia. In
questi medesimi dì, avendo il tiranno preso sdegno contro a’ Fiorentini
per gli ambasciadori ch’aveano mandati a confortare i Genovesi della
loro franchigia, mosse loro lite dicendo, ch’aveano rotta la pace,
perocchè non avevano disfatto Montegemmoli nell’alpe, avendo egli
voluto assegnare la Sambuca e ’l Sambucone, come diceano i patti della
pace, a Lotto Gambacorti come amico comune, non ostante che per lui non
fosse voluto ricevere, parendogli avere osservato dalla sua parte: per
la qual cosa s’accozzarono ambasciadori di catuna parte a Serezzana,
e mostrato fu per ragione che per quella offerta e’ non era scusato,
nè aveva adempiute le convenenze, e però i Fiorentini non erano in
colpa. La cagione che acquetò l’arcivescovo fu, che non gli parve tempo
utile a muovere guerra a’ Fiorentini, e però s’acquetò, e consentì
alla loro ragione. Poco tempo appresso nel detto verno l’arcivescovo
mise cinquecento uomini al lavorio, e fece tutto il cammino per terra
da Nizza a Genova, ch’era scropuloso e pieno di molti stretti e mali
passi, appianare e allargare, tagliando le pietre per forza di picconi,
e facendo fare molti ponti ov’erano i mali valichi, sicchè gli uomini a
cavallo due insieme, e le some per tutto il cammino potessono andare,
cosa assai utile e notevole se fatto fosse a fine di bene; ma che che
l’arcivescovo e’ suoi s’avessono nell’animo, a’ Provenzali n’entrò
grande gelosia, e stettonne a Nizza e nell’altre terre in lunga
guardia, e poco lasciavano usare quello cammino, temendo della potenza
del tiranno.

CAP. LXXXVIII.
_Come i Sanesi ruppono i patti a Montepulciano._
Potendosi catuno dolere con ragione in se della corrotta fede odiosa a’
popoli, mercatanzia de’ tiranni, cagione nascosa di gravi pericoli, ci
muove a dire con vergogna, come reggendosi il comune di Siena sotto il
governamento occupato dall’ordine de’ nove, ruppono la fede promessa
a’ signori di Montepulciano, essendone stati mezzani i Fiorentini
e’ Perugini, e mallevadori alla richiesta di quello comune. E per
giustificarsi della corrotta fede, aggiunsono una corrotta dannazione,
mettendo il detto messer Niccola senza colpa in bando per traditore,
acciocchè non paressono tenuti a dargli fiorini seimila d’oro che
promessi gli aveano, quando diede loro la signoria di Montepulciano.
Della qual cosa turbato il comune di Firenze e quello di Perugia,
mandarono loro ambasciadori a Siena per far loro con preghiere
addirizzare questo torto; e avuto sopra ciò più volte udienza, e menati
lungamente per parole da’ signori, e straziati da’ loro consigli,
insieme mostrando coll’opere la corruzione conceputa contro a’ detti
comuni per lo detto ordine de’ nove. Agli ambasciadori di catuno comune
fu fatta vergogna, e gittato loro addosso cavalcando per la città
vituperoso fastidio, e udendosi dire dietro villane parole: a quelli
di Perugia furono gittati de’ sassi, e minacciati di peggio: e così
senza altro comiato, con accrescimento d’onta e di disonore, catuni
ambasciadori tornarono a’ loro comuni; i quali conoscendo doppiamente
essere offesi, per lo migliore dissimularono il fatto, comportando con
senno la loro ingiuria. E questo avvenne del mese di febbraio del detto
anno.

CAP. LXXXIX.
_Come si cominciò la gran compagnia nella Marca._
Il friere di san Giovanni fra Moriale, vedendo che il prefetto da Vico,
con cui era stato all’assedio di Todi, nol potea sostenere a soldo,
avendo l’animo grande alla preda, si propose d’accogliere gente d’arme
d’ogni parte d’Italia, e fare una compagnia di pedoni con la quale
potesse cavalcare e predare ogni paese e ogni uomo. E qui cominciò il
maladetto principio delle compagnie, che poi per lungo tempo turbarono
Italia, e la Provenza, e il reame di Francia e molti altri paesi, come
leggendo per li tempi si potrà trovare. Questo fra Moriale incontanente
co’ suoi messaggi e lettere mosse in Italia gran parte de’ soldati
ch’erano in Toscana, e in Romagna e nella Marca senza soldo, a cavallo
e a piè, dicendo, che chi venisse a lui sarebbe provveduto delle spese
e di buono soldo; e per questo ingegno in breve tempo accolse a se
millecinquecento barbute e più di duemila masnadieri, uomini vaghi
d’avere loro vita alle spese altrui. E avendo messer Malatesta da
Rimini assediata per lungo tempo la città di Fermo e condotta agli
ultimi estremi, ed essendo per averla in breve tempo, fra Moriale,
ricordandosi del servigio che da lui avea ricevuto quando l’assediò
nel castello d’Aversa, avendo movimento da Gentile da Mogliano che
tiranneggiava Fermo, e dal capitano di Forlì ch’era nimico di messer
Malatesta, fidandosi alle loro promesse e a’ loro stadichi, del mese
di novembre con la sua compagnia entrò nella Marca, e costrinse messer
Malatesta a levarsi da oste da Fermo, e liberò la città dall’assedio, e
rimasesi nel paese. E per lo nome sparto di questo primo cominciamento
la compagnia crebbe e fece grandi cose in questo verno, e poi maggiori,
come al suo tempo racconteremo, tornando prima all’altre cose che
domandono la nostra penna.

CAP. XC.
_Dice de’ leoni nati in Firenze._
E’ non pare cosa degna di memoria a raccontare la natività de’ leoni,
ma due cagioni ci stringono a non tacere: l’una si è, perchè antichi
autori raccontano che in Italia non nascono leoni, l’altra, che
dicono che i leoni nascono del ventre della madre morti, e che poi
sono vivificati dal muggio della madre e del leone fatto sopra loro:
e noi avemo da coloro che più volte gli vidono nascere, che il loro
nascimento è come degli altri catelli che nascono vivi: all’altra parte
è risposto per lo loro nascimento, più e diverse volte avvenuto nella
nostra città, e in questo anno, del mese di novembre, ne nacquero in
Firenze tre, de’ quali l’uno si donò al duca di Osteric, che per grazia
il domandò al nostro comune; e il leone padre vedendosi tolto l’uno de’
suoi leoncini se ne diè tanto dolore, che quattro dì stette che non
volle mangiare, e temettesi che non morisse. E perch’elli stavano in
luogo stretto ove si batte la moneta del comune, ne furono tratti, e
dato loro larghezza di case, e di cortili, e di condotti nelle case che
il duca d’Atene avea fatte disfare per incastellarsi, che furono de’
Manieri, dietro al palagio del capitano e dell’esecutore in su la via
da casa i Magalotti, ove stanno al largo, e bene.

CAP. XCI.
_Come i Romani si dierono alla Chiesa di Roma._
Il popolo romano non sappiendosi reggere per li suoi tribuni e per li
rettori, sentendo il cardinale di Spagna a Montefiascone legato del
papa, valoroso signore nell’arme e di grande autorità, trattò con lui
d’accomandarsi alla Chiesa di Roma sotto singolare condizione e patto.
E ricevuto in protezione del legato con quello lieve legame, con lui
si convenne, e con furia lo mosse a far guerra e danneggiare di guasto
i Viterbesi; della qual cosa, cresciuta la forza e ’l numero de’
cavalieri al legato, seguirono poi maggiori cose, come seguendo nostra
materia racconteremo.

CAP. XCII.
_Le novità seguite in Pistoia._
Essendo ordine in Pistoia che balia per li fatti del comune non si
potesse dare a’ suoi cittadini, nato da sospetto delle loro sette,
trovandosi capitano della guardia per lo comune di Firenze messer
Gherardo de’ Bordoni il quale favoreggiava i Cancellieri e la loro
parte, era in que’ dì fatto un processo per l’inquisitore de’ paterini
contro a certi cittadini di Pistoia, di che tutto il comune si gravava;
e a riparare a questo, convenne che balìa si desse a certi cittadini.
L’industria de’ Cancellieri, coll’aiuto del capitano, fece tanto, che
la balìa fu data a certi uomini tutti della parte de’ Cancellieri,
i quali intesono ad abbattere in comune lo stato de’ Panciatichi, e
di presente aggiunsono al numero del consiglio del comune, che avea
quaranta uomini, della parte de’ Cancellieri; e intendendo di fare
più innanzi, i Panciatichi per paura, e per non essere criminati
dal capitano se ne vennono a Firenze: gli altri cittadini vedendosi
ingannati da quelli della balìa corsono all’arme, e abbarrarono le vie,
e catuno s’afforzava per combattere e per difendere. In questo tempo
de’ romori di Pistoia, messer Ricciardo Cancellieri fu notificato a
Firenze per lo Piovano de’ Cancellieri suo consorto, ch’egli volea fare
al comune certo tradimento. E chiamato in giudicio a Firenze l’uno
e l’altro, e dato balìa per lo comune al capitano della guardia di
Firenze di potere conoscere sopra la causa, furono messi in prigione, e
trovato che non era colpevole messer Ricciardo, fu liberato, e ritenuto
il Piovano, e mutato in Pistoia nuovo capitano. Il comune di Firenze
mandò in Pistoia ambasciadori, e con loro i Panciatichi, e racquetato
lo scandalo tra i cittadini, si riposarono in pace.

CAP. XCIII.
_Come l’arcivescovo richiese di pace i Veneziani._
L’arcivescovo di Milano avendo sottomesso a sua signoria la città
di Genova e di Savona, e tutta la Riviera e il loro contado, i cui
abitanti erano nimici de’ Veneziani, mandò suoi ambasciadori al doge
e al comune di Vinegia, per li quali significò a quello comune come
i Genovesi erano suoi uomini, e le loro città e contado erano suo
distretto; e tenendosi amico de’ Veneziani, e sapendo che per addietro
i Genovesi erano stati loro nimici, intendea, quando al doge piacesse
e al comune di Vinegia, che per innanzi fossono fratelli e amici: e
intorno a ciò usarono belle e suadevoli ragioni. Il doge e il suo
consiglio presono tempo d’avere loro consiglio, e di rispondere la
mattina vegnente: e venuto il giorno, di gran concordia risposono la
mattina dicendo: che ’l comune di Vinegia si tenea gravato e offeso
dall’arcivescovo, il quale avea preso ad aiutare i Genovesi loro
capitali nemici, e però non intendeano di volere pace e concordia con
lui nè col comune di Genova, ma giusta loro podere tratterebbono lui e
i suoi sudditi come loro nemici. E conseguendo al fatto, incontanente
feciono accomiatare e bandeggiare di Vinegia, e di Trevigi, e di
tutte le loro terre e distretti tutti coloro che fossono sotto la
giurisdizione dell’arcivescovo di Milano; e simigliantemente fece nelle
sue terre l’arcivescovo de’ Veneziani: e così fu manifesta la guerra
tra loro, del mese di novembre del detto anno, per tutta la Lombardia e
Toscana.

CAP. XCIV.
_Come i Veneziani ordinarono lega contro al Biscione._
Incontanente che agli altri signori lombardi fu palese la risposta
fatta pe’ Veneziani all’arcivescovo, il gran Cane di Verona, e’ signori
di Padova, e que’ di Mantova, e il marchese da Ferrara e i Veneziani,
feciono parlamento per loro solenni ambasciadori, ove si propose di
fare lega insieme, e taglia di gente d’arme contro all’arcivescovo di
Milano, il quale parea loro che fosse troppo montato; e non fidandosi
tutti insieme di potere resistere alla grande potenza dell’arcivescovo,
s’accordarono di fare passare a loro stanza l’imperadore in Italia.
E dopo più parlamenti sopra ciò fatti fermarono compagnia e lega
tra loro, e taglia di quattromila cavalieri, e fecionla piuvicare
in Lombardia, e con grande istanza per loro segreti ambasciadori
richiesono e pregarono il comune di Firenze che si dovesse collegare
con loro, prendendo ogni vantaggio che volesse: ma perocchè il detto
comune era in pace coll’arcivescovo, per alcuna preghiera o promessa di
vantaggio che fatta fosse, non potè essere recato che la pace volesse
contaminare. I collegati incontanente mandarono ambasciadori solenni
in Alamagna all’imperadore, per inducerlo a passare in Lombardia
contro all’arcivescovo di Milano, offerendogli tutta la loro forza,
e danari assai in aiuto alle sue spese, acciocchè meglio potesse
tenere la sua cavalleria; e per tutto fu divulgata la fama, che in
quest’anno l’imperadore passerebbe a istanza della detta lega. Queste
cose furono ferme e mosse del mese di dicembre del detto anno. E stando
gli allegati in aspetto, non si provvidono di fare la gente della
taglia infino al primo tempo, nè d’avere capitano; e però lasceremo al
presente questa materia, tanto che ritornerà il suo tempo, e diremo di
quelle che ci occorrono al presente a raccontare.

CAP. XCV.
_Come il conestabile di Francia fu morto._
Era messer Carlo, figliuolo che fu di messer Alfonso di Spagna,
accresciuto dall’infanzia in compagnia del re Giovanni di Francia, ed
era divenuto cavaliere di gran cuore e ardire, e valoroso in fatti
d’arme, pieno di virtù e di cortesia, e adorno del corpo, e di belli
costumi, ed era fatto conestabile di Francia, ed il re gli mostrava
singolare amore, e innanzi agli altri baroni seguitava il consiglio
di costui; e chi volea mal parlare, criminavano il re di disordinato
amore in questo giovane: e del grande stato di costui nacque materia di
grande invidia, che gli portavano gli altri maggiori baroni. Avvenne
che il re Giovanni provvidde il re di Navarra suo congiunto d’una
contea in Guascogna, la quale essendo a’ confini delle terre del re
d’Inghilterra, era in guerra e in grave spesa per la guardia, più che
’l detto re non avrebbe voluto, e però la rinunziò, e il re poi la
diede al conestabile, ch’era franco barone e di gran cuore in fatti
d’arme. Il re di Navarra che già avea contro al conestabile conceputo
invidia, mostrò di scoprirla, prendendo sdegno perch’egli avea
accettata la sua contea, nonostante ch’egli l’avesse rinunciata. Ed
essendo genero del re di Francia, con più audace baldanza, in persona,
con altri baroni che simigliantemente invidiavano il suo grande stato,
una notte andarono a casa sua, e trovandolo dormire in sul letto suo
l’uccisono a ghiado; della qual cosa il re di Francia si turbò di cuore
con ismisurato dolore, e più di quattro dì stette senza lasciarsi
parlare. La cosa fu notabile e abominevole, e molto biasimata per tutto
il reame, e fu materia e cagione di gravi scandali che ne seguirono,
come seguendo ne’ suoi tempi si potrà trovare. E questo micidio fu
fatto in questo verno del detto anno 1353.

CAP. XCVI.
_Come si cominciò la rocca in Sangimignano, e la via coperta a Prato._
In questo medesimo tempo, il comune di Firenze per volere vivere più
sicuro della terra di Sangimignano, e levare ogni cagione a’ terrazzani
suoi di male pensare, cominciò a far fare, e senza dimettere il lavorio
alle sue spese, e compiè una grande e nobile rocca e forte, la quale
pose sopra la pieve dov’era la chiesa de’ frati predicatori, e quella
chiesa fece maggiore e più bella redificare dall’altra parte della
terra più al basso. E in questo medesimo tempo nella terra di Prato
fece fare una larga via coperta, in due alie di grosso muro d’ogni
parte, con una volta sopra la detta via, e un corridoio sopra la detta
volta, largo e spazioso a difensione; la quale via muove dal castello
di Prato fatto anticamente per l’imperatore, e viene fino alla porta;
ove si fece crescere e incastellare la torre della porta a modo d’una
rocca; e in catuna parte tiene il comune continova guardia di suoi
castellani.
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