Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 10

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città venisse loro presa, che per forza tutte l’altre converrebbe
che sostenessono il giogo; e sotto questo segreto consiglio tutti i
conestabili delle masnade tedesche, e’ Borgognoni e altri oltramontani
promisono e giurarono da capo la compagnia e ubbidienza a messer fra
Moriale, e per passare il verno all’altrui spese presono il soldo della
lega de’ Lombardi, e messer fra Moriale, sotto titolo di mostrare
d’avere a ordinare suoi propri fatti, rimase in Toscana: ma nel segreto
fu, che provvederebbe del luogo dove dovessono tornare al primo tempo.
Costui baldanzoso con poca compagnia, come detto abbiamo, se n’andò a
Perugia, e di là mandò i fratelli con certe masnade di suoi cavalieri
al tribuno, ch’era di nuovo ritornato in Roma, per atarlo; essendo
stato prima cacciato da’ Romani e tenuto in esilio, e’ fu prigione
dell’eletto imperadore lungo tempo, e poi per lo male stato de’
Romani di volontà del papa e del popolo fu richiamato; e rendutagli
la signoria, con più baldanza che di prima, non ostante che predetto
gli fosse, o per revelazione di spirito immondo o per altro modo, che
a romore di popolo sarebbe morto, e’ faceva rigida e aspra signoria,
e reprimendo la baldanza de’ principi di Roma, onde fu opinione di
molti che i Colonnesi s’intendessono contro a lui con fra Moriale per
abbatterlo della signoria del tribunato: ma come che si fosse, poco
appresso la mandata de’ fratelli fra Moriale andò a Roma, e il tribuno
il fece chiamare a sè, ed egli senza alcuno sospetto andò a lui; e
giuntogli innanzi, senza altro parlamento il tribuno gli mise in mano
un processo di tradimento che fare dovea contro a lui, e come pubblico
principe di ladroni, il quale aveva assalite le città della Marca e di
Romagna, e la città di Firenze, di Siena e d’Arezzo in Toscana; e fatte
arsioni, e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte
uccisioni d’uomini innocenti, delle quali cose disse che di presente
si scusasse. E non avendo scusa contro alla verità del libello, senza
voler più attendere, a dì 29 d’agosto del detto anno gli fece levare la
testa dall’imbusto: e così finì il malvagio friere, cagione di molto
male passato e di maggiore avvenire, per l’aoperazione della maladetta
compagnia; per la qual cosa s’aggiugnerebbe memoria degna di gran
lodi al tribuno se per movimento di chiara giustizia l’avesse fatto,
ma perocchè egli prese i fratelli, e’ beni di fra Moriale e’ loro e
pubblicolli a sè, parve che d’ingratitudine de’ servigi ricevuti e
d’avarizia maculasse la sua fama: e abbianne più detto che forse non
si conveniva, ma per lo malo esempio dato a’ soldati, e per la giusta
vendetta della sua morte, ne crediamo avere alcuna scusa.

CAP. XXIV.
_D’una sformata grandine venuta a Mompelieri, e della scurazione del
sole._
A dì 12 di settembre 1354 cadde sopra Mompelieri e nelle circustanze
una grandine sformata di grossezza di più d’una comune melarancia, e
fece a’ frutti e agli uomini gravissimi danni, e le bestie che trovò
ne’ campi alla scoperta uccise, e guastò molto le copriture delle
case. E poi, a dì 17 del detto mese, fu scurazione del sole, e durò a
Firenze una terza ora, coperto nella maggiore parte il corpo solare. Di
sua influenza poco potemmo vedere e comprendere, salvo che asciutto e
freddo seguitò tutto il verno singolarmente.

CAP. XXV.
_Come morì l’arcivescovo di Milano._
Messer Giovanni de’ Visconti arcivescovo di Milano potentissimo
tiranno in Italia, avendo dilatata la fama della sua potenza in grande
altezza, e vivuto al mondo lungo tempo in dissoluta vita secondo
prelato, vedendosi avere vinta sua punga, e soperchiata nel temporale
la Chiesa di Roma, e riconciliatosi a quella co’ suoi sformati doni,
e che tutta Italia il temeva, e l’eletto imperadore non avea ardire,
eziandio sollecitato dalla forza e’ danari della lega di Lombardia,
pigliare arme contro a lui, vaneggiante nel colmo della sua gloria,
uno venerdì sera, a dì 3 d’ottobre 1354, gli apparve nella fronte
sopra il ciglio un piccolo carbonchiello, del quale poco si curava,
e il sabato sera a dì 4 del detto mese il fece tagliare, e come fu
tagliato, cadde morto l’arcivescovo senza potere fare testamento, o
alcuna provvisione dell’anima sua o della successione de’ suoi nipoti
nella signoria; i quali feciono al corpo solenne esequie, e senza
questione con molta concordia si ristrinsono insieme, facendo grande
onore l’uno all’altro; per la qual cosa i Milanesi e tutti i loro
sudditi stettono in obbedienza de’ nuovi signori, tanto che poi con
nuova suggezione di tutti i popoli si feciono dichiarare signori, come
appresso racconteremo, rendendo prima il nostro debito alla sprovveduta
e violente morte del tribuno di Roma, e allo strano avvenimento
dell’eletto imperadore in Italia.

CAP. XXVI.
_Come il tribuno di Roma fu morto a furia di popolo._
Il primo tribuno romano dopo la sua cacciata tornato in Roma con comune
assentimento dell’incostante popolo, e ordinati statuti a franchigia e
a fortificagione del popolo, e certe entrate al comune per fortificare
la signoria, procacciava di fornirsi di cavalieri e di masnadieri di
soldo, per potere meglio raffrenare i potenti cittadini, i quali sapea
ch’erano contro al suo tribunato: e come uomo ch’avea grande animo,
credeva col favore del fallace popolo fare gran cose, e cominciato
avea, ma non bene, perocchè essendo in Roma uno valente e savio uomo
Pandolfo de’ Pandolfucci antico cittadino, e di grande autorità nel
cospetto del popolo, e temendo il tribuno di lui, solo perchè gli
pareva atto a potere muovere il popolo per la sua autorità e per la
sua eloquenza, tirannescamente e senza colpa il fece decapitare;
e per questo, e per la morte di fra Moriale, i principi di Roma,
massimamente i Colonnesi e’ Savelli, temeano forte, e procacciavano
di farlo cacciare o morire. E sparta già l’infamia della morte di
Pandolfo tra il popolo, fu più leggiere a’ Colonnesi e a Luca Savelli
venire alla loro intenzione, e con lieve movimento alquanti amici de’
Colonnesi e’ Savelli della riva del Tevere, a loro stanza cominciarono
a levare romore contro il tribuno e corsono all’arme; e con l’aiuto
de’ Colonnesi e de’ Savelli, e di certi Romani offesi per la morte di
Pandolfo, dimenticando la franchigia del popolo, a dì 8 d’ottobre del
detto anno in su la nona corsono al Campidoglio, dicendo, muoia il
tribuno. Il tribuno sprovveduto di questo subito e non pensato furore
del popolo francamente provvide come necessità l’ammaestrava, e di
presente s’armò e prese il gonfalone del popolo, e con esso in mano si
fece alle finestre, e trattolo fuori, cominciò a gridare ad alta voce,
viva il popolo, pensando che il popolo dovesse trarre al suo aiuto:
ma trovossi ingannato, che il popolo il saettava, e gridava la sua
morte: e avendo egli sostenuto con parole e con difesa l’assalto fino
al vespero, e vedendo il popolo più acerbo e più infocato contro a sè
da sezzo che da prima, e che soccorso da niuna parte aspettava, pensò
di campare per ingegno; e tramutato l’abito suo in abito di ribaldo,
fece aprire le porte del palagio alla sua famiglia al popolo perchè
intendesse a rubare, come solea essere loro usanza; e mostrandosi nella
ruberia come uno di loro, avea preso un fascio d’una materassa con
altri panni dal letto, e scendendo la prima e la seconda scala senza
essere conosciuto, dicea agli altri, su a rubare, che v’ha roba assai;
ed era già quasi al sommo di scampare la morte, quando uno cui egli
avea offeso così col fascio in collo il conobbe, e gridando, questi è
il tribuno, il fedì: e l’uno dopo l’altro trattolo fuori dell’uscio
del palazzo tutto lo stamparono co’ ferri, e tagliarongli le mani
e sventraronlo, e misongli un capestro al collo e tranaronlo fino
a casa i Colonnesi; e fatto quivi uno paio di forche v’appiccarono
lo sventurato corpo, ove più dì il tennero appeso senza sepoltura.
E questa fu la fine del tribuno, dal quale il popolo romano sperava
potere riprendere sua libertà.

CAP. XXVII.
_Come l’imperadore Carlo venne in Lombardia._
Messer Carlo di Luzimborgo re di Boemia e re de’ Romani, eletto
imperadore, avendo accettata la profferta del comune di Vinegia, e
del Gran Cane di Verona, e degli altri allegati di Lombardia contro
all’arcivescovo di Milano, considerò che per la sua non grande facoltà
d’avere e di potenza il fascio di cotanta impresa gli era troppo
grave, e avvisossi con grande discrezione, che a volere venire in
Italia per la corona del ferro, e appresso per l’imperiale, che gli
convenia per forza vincere i signori, e le città, e’ popoli d’Italia
che gli fossono avversi, o con senno o con amore recare a sè gli animi
loro: ricordandosi che l’imperadore Arrigo suo avolo, avendo seco
tutto il favore de’ ghibellini, e mosso con più di diecimila cavalieri
tedeschi gente eletta, guidata da grandi baroni e nobili cavalieri,
credendosi per forza sottomettere parte guelfa in Italia avendo seco
tutta la forza de’ ghibellini, passò in Italia; e non potuto per sua
forza domare gli avversari nè avere la corona, com’è la costuma,
nella basilica di san Pietro, e consumate le sue forze senza essere
ubbidito, rendè a Buonconvento il debito della carne alla terra, e
l’anima a Dio. Per lo cui esempio l’avvisato eletto Carlo imperadore
abbandonato ogni pensiero di sua potenza, e di quella che promesso
gli era, fidanza prese nel suo temperato proponimento; e non volendo
a’ collegati negare la promessa della sua venuta, nè mostrare che
contro a’ signori di Milano si movesse, veduto il tempo atto al suo
proponimento, mosse d’Alamagna con trecento cavalieri in sua compagnia
venendo in Aquilea; e giunto a Udine, a dì 14 d’ottobre del detto anno,
s’accompagnò il patriarca suo fratello con poca gente senz’arme, e
cavalcando a buone giornate giunsono in Padova a dì 4 di novembre, ove
fu ricevuto a grande onore; e fatti alquanti cavalieri de’ signori e
di loro prossimani della casa da Carrara, e lasciati i signori suoi
vicarii nella signoria della città, a dì 7 di novembre prese suo
cammino: e temendosi messer Gran Cane che non entrasse in Vicenza nè
in Verona il fece con lieve onore conducere per lo contado alla città
di Mantova, e ivi ricevuto come signore, prese a fare suo dimoro per
trattare se tra i Lombardi potesse mettere accordo, e ivi attendea s’e’
comuni e’ popoli e’ signori di Toscana gli mandassono ambasciadori per
potersi meglio provvedere alla sua coronazione. Lasceremo ora alquanto
questa materia, tanto che alcuna cosa degna di memoria occorra di ciò
al nostro proponimento, e diremo dell’altre che prima addomandano il
debito alla nostra penna.

CAP. XXVIII.
_Come i tre fratelli de’ Visconti di Milano furono fatti signori, e
loro divise._
Tornando a’ fatti de’ Visconti di Milano, dopo la morte
dell’arcivescovo messer Maffiolo, e messer Bernabò, e messer Galeazzo,
figliuoli che furono di messer Stefano nipote dell’arcivescovo, essendo
forniti di molti cavalieri e masnadieri per difendersi e abbattere
giusto loro podere la forza degli altri Lombardi collegati contro a
loro, e da resistere all’imperadore se muover si volesse contro a
loro, stare facevano tutte le loro città e castella in buona guardia
e sollecita; ed essendo tutti e tre in Milano, si feciono eleggere
signori indifferentemente a dì 12 d’ottobre, e appresso si feciono
fare a tutte le città del loro distretto il simigliante; ed essendo da
tutti confermati nella signoria, si partirono tra loro il reggimento
in questo modo: che Milano fosse comune a tutti, e dell’altre città
feciono di concordia tre parti, salvo la città di Genova, che vollono
che rimanesse comune in fra loro come Milano, e gittarono le sorte, per
le quali a messer Maffiolo, ch’era il maggiore, toccò Parma, Piacenza,
Bologna, e Lodi: a messer Bernabò Cremona, Brescia, e Bergamo: e a
messer Galeazzo Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona, e Alessandria,
con tre altre terre di Piemonte; e nondimeno a comune ne’ cominciamenti
manteneano la spesa de’ soldati, e molto onorava l’uno l’altro, e di
gran concordia faceano le loro imprese. A messer Maffiolo, perch’era
di più tempo e di minor virtù, rendeano onore di metterlo innanzi ne’
titoli e ne’ consigli. I fatti della cavalleria e dell’arme erano
contenti che guidasse messer Bernabò che n’era più sperto, e messer
Galeazzo ne prendea alcuna volta parte come a lui piacea. Essendo
questi signori di Milano così ordinati tra loro, sopravvenuto l’eletto
imperadore in Mantova, stavano apparecchiati in loro senza fare altro
movimento di guerra contra a’ loro avversari, e gli allegati anche
stavano a vedere che l’imperadore facesse senza muovere la loro gente a
far guerra.

CAP. XXIX.
_Come l’imperadore stando a Mantova trattava la pace de’ Lombardi._
L’imperatore avendosi avvisatamente condotto in Lombardia di verno,
e sapendo la gran forza di gente ch’aveano i signori di Milano, e la
potenza del loro tesoro e delle loro entrate, fece venire a se in
Mantova gli ambasciadori del comune di Vinegia e di tutti i signori
collegati, e con loro insieme vide che la sua forza e la loro in que’
tempi non era sufficiente a tanto fatto quanto volevano imprendere.
Ancora considerò che stando egli a Mantova niuno signore o comune
d’Italia, salvo che i collegati, era venuto o avea mandato a lui
contro a’ signori di Milano, e però gli parve che le cose fossono
assai bene disposte al suo proponimento col quale s’era messo a farsi
trattatore di pace, per accattare da ogni parte benevolenza, e non
prendere nimicizia con alcuno, e però cominciò a trattare della pace; e
parendogli che catuno si disponesse a volerla, acciocchè quelli della
lega non portassono la gravezza del soldo della gran compagnia, la
fece licenziare a dì 8 di novembre, e quelli della compagnia ne furono
contenti: ed essendo in sul Bresciano, parte ne condussono i signori
di Milano, e parte la lega, e il rimanente si ritenne in compagnia col
conte di Lando. L’imperadore seguiva con sellecitudine che la pace si
facesse, e in lungo processo di trattato più volte corse la voce che la
pace era fatta. Ma nascendo ora dall’una parte ora dall’altra cagione
di tirare, la pace non veniva a perfezione, e in questo soprastare,
vennono accidenti che non la lasciarono venire a perfezione, i quali
diviseremo nel tempo ch’avvennono secondo l’ordine del nostro trattato.

CAP. XXX.
_Come furono presi i legni ch’andavano a Palermo._
Del mese d’ottobre del detto anno, il re Luigi sentendo la città di
Palermo in gran bisogno di vittuaglia e di gente d’arme per la difesa
contro a’ nimici, fece armare tre galee, e uno panfano, e dodici
legnetti e una nave, e tutte le fece caricare di grano e d’altra
vittuaglia, e fece ammiraglio il conte di Bellante Potarzio d’Ischia,
e comandogli che le conducesse in Palermo; ed essendo nel mare di
Calabria si vidono contra galee di Messinesi, che stavano alla guardia
per procacciare di vittuaglia, di che aveano gran bisogno, le quali
vedendo quelle del Regno con legni armati, e conoscendo la loro poca
virtù, s’addirizzarono verso loro. Il conte vedendole venire, come
codardo non prese alcuna difesa, ma la sua propria galea abbandonò
perch’avea del grano in corpo, e montato su un legno armato, innanzi
che i nemici s’appressassono si fuggì. Le galee de’ Messinesi giugnendo
a quelle del Regno le trovaron senza capitano e senza difesa, e però
le si presono col carico e colla gente, e con gran festa e gazzarra
questa utile preda al bisogno della loro città misono in Messina, ove
furono ricevuti a grande onore, più per loro bisogno che per la piccola
vittoria.

CAP. XXXI.
_Come si cominciò guerra in Puglia tra loro._
Messer Luigi di Durazzo cugino carnale del re Luigi, vedendo che
il detto re avea dato al prenze di Taranto e a messer Filippo suoi
fratelli carnali grandi baronaggi in Puglia e nel Regno, nè a lui
nè a messer Ruberto non avea data nulla cosa, con giusto sdegno,
vedendosi in povero stato, si tenea dal re e dalla reina malcontento:
e il conte di Minerbino tenendosi anche male del re e della reina
s’accostò con messer Luigi, e propuosono di volere fare guerra nel
paese di Puglia. Per questa tema il re e la reina andarono in Puglia
cercando riconciliarli con parole, e mandaronli pregando che venissono
a loro; e consigliati insieme, ordinarono che il conte v’andasse,
avendo prima per sua sicurtà per stadichi il vescovo di Bari e messer
Giannotto dello Stendardo in Minerbino, e così fu fatto. E stando col
re e con la reina non si trovò modo d’accordo, nè che messer Luigi si
volesse assicurare di andare a loro. In questo stante, gente d’arme
acconcia a far male percossono alla strada, e presono settanta muli
che tornavano da Barletta con poca roba, e menargli via in vergogna
della corona, essendo la persona del re nel paese. E tornandosi il re
e la reina a Napoli, messer Luigi e il Paladino presono ardire di più
aperta rubellione, e accolsono gente d’arme, e correano per lo paese.
Ma sentendosi di piccola possanza, entrarono in trattato col conte
di Lando, che dovesse conducere la compagnia nel Regno. Soprastaremo
alquanto al presente a questa materia, parandocisi innanzi più notevole
avvenimento di grave fortuna.

CAP. XXXII.
_Come i Genovesi sconfissono i Veneziani a Portolungo in Romania._
Avendo la non domata rabbia del comune di Genova e di quello di Vinegia
condotto le loro armate in Romania, essendo messer Paganino Doria di
trentatre galee genovesi ammiraglio, e messer Niccolò da ca Pisani
ammiraglio di trentacinque galee de’ Veneziani, e tre panfani e un
legno armato, e venti tra saettie e barche, e cinque navi di carico
tutte armate e incastellate, e navicando l’una armata e l’altra per
lo mare di Romania a fine d’abboccarsi insieme, non vi si poterono
trovare: l’ammiraglio de’ Veneziani con tutte le galee e gli altri
navilii della sua armata si ridusse nel porto di Sapienza nella Romania
bassa, e ivi s’ordinò, avendo lingua de’ suoi nemici ch’erano nel mare
di Romania, in questo modo: che le navi mise nella bocca del porto
incatenate insieme, e con esse venti galee alla guardia, e molto le
fece bene armare e acconciare alla difesa della bocca del porto, e con
queste rimase il loro ammiraglio; l’altre quindici galee co’ legni
armati e con le saettie accomandò a uno da ca Morosini di Vinegia, e
misele dentro nel Portolungo, acciocchè stessono più salve, e potessono
contastare a’ nemici dinanzi e l’ammiraglio di dietro, se caso venisse
che l’armata de’ Genovesi si mettesse nel porto. L’ammiraglio de’
Genovesi avendo in Romania sentito lingua dell’armata de’ Veneziani, e
com’erano più galee e assai legni di carico incastellati più di loro,
e che fatto aveano la via di Portolungo di Sapienza nella Romania
bassa, come uomo di gran cuore e ardire, avvilendo i suoi nemici che
non aveano cercato d’abboccarsi con lui, ma piuttosto fatto vista di
schifarlo, di presente s’addirizzò con la sua armata verso il porto
di Sapienza per richiedere i Veneziani di battaglia; e come giunto fu
sopra il porto di Sapienza, vide come i Veneziani co’ loro navilii
incastellati e incatenati e con le galee s’erano afforzati alla bocca
del porto, e parvegli segno che non volessono combattere; nondimeno per
mostrarsi a’ nemici senza paura, non credendosi venire a battaglia,
stando aringati sopra il porto, mandò a richiedere l’ammiraglio de’
Veneziani di battaglia, dicendo, come l’attendea fuori del porto, per
porre fine a’ travagli e alle tribulazioni che gli altri navicanti e
tutto il mare portava della loro guerra. L’ammiraglio de’ Veneziani
rispose, ch’era in casa sua, e non intendea combattere a richiesta
de’ suoi nemici, ma quando a lui paresse prenderebbe la battaglia.
I Genovesi più inanimati, veggendo ricusavano la battaglia, da capo
la dimandarono, vituperando i loro avversari, sonando e risonando
trombe e nacchere, e vedendo che niuno segno si facea pe’ Veneziani di
muoversi, ad alcuno atto, presono un folle ardimento, se i Veneziani
avessono aoperato come poteano l’armi, perocchè Giovanni Doria nipote
dell’ammiraglio mattamente si mise con una galea ad entrare nel porto,
e appresso di lui il figliuolo dell’ammiraglio con la sua, entrando
sotto la guardia delle navi e delle galee. I Veneziani vedendoli
entrare, follemente li lasciarono entrare, sperando rinchiuderli nel
porto e averli tutti a man salva; e così senza contasto per atare i
giovani che s’erano messi a quello pericolo v’entrarono tredici galee
di Genovesi l’una dopo l’altra, senza essere impedite o combattute
dall’ammiraglio o dalla sua armata ch’era alla guardia della bocca
del porto; e trovandosi nel porto, si dirizzarono con ordine e con
grande ardimento a combattere le quindici galee de’ Veneziani e’ legni
armati ch’erano nel porto, le quali aveano le prode a terra per loro
agiamento, ed erano più atte alla difesa. I Genovesi l’assalirono con
aspra battaglia, ma quale che fosse la cagione, o per sdegno preso
contro all’ammiraglio che non avea impedito la loro entrata, e non
s’era mosso alla loro difesa, o per molta codardia, a quel punto
feciono piccola difesa, e però nel primo assalto furono assai de’
Veneziani fediti e morti: e pignendo i Genovesi, con piccola resistenza
de’ loro avversari montarono in sulle galee, e in poca d’ora tutti gli
ebbono presi e sbarattati, ne’ quali molti più annegarono gittandosi
in mare per fuggire, che quelli che morirono di ferro. Avendo queste
tredici galee avuta piena vittoria delle quindici del porto, feciono
segno al loro ammiraglio e all’altre galee ch’erano fuori del porto
della loro vittoria, le quali con grande baldanza e ardire si misono
innanzi, per volere combattere le venti galee e le navi ch’erano
alla guardia della bocca del porto, e le tredici vittoriose vennono
dall’altra parte, avendo due corpi di galee veneziane affocate per
metterle loro addosso. Strignendosi d’ogni parte la battaglia,
l’ammiraglio veneziano ingannato per molta viltà del primo suo avviso,
e sbigottito delle quindici galee perdute, e della battaglia che d’ogni
parte si vedea apparecchiare, s’arrendè alla misericordia de’ Genovesi,
e da quel punto innanzi più non v’ebbe morto o fedito alcuno Veneziano;
tutti furono prigioni, perocchè in porto e tutto in mare di lungi dalla
terra ferma niuno dell’armata de’ Veneziani campò che non fosse preso
o morto, e i prigioni furono per novero cinquemilaottocentosettanta,
i quali con tutte le galee, e altri legni e navilii, con grande
vittoria quasi senza loro danno menarono a Genova, lasciati nel porto
e nella marina di Sapienza quattromila o più corpi di Veneziani morti
e annegati in quella battaglia, la quale fu a dì 3 di novembre 1354.
Della quale vittoria i Genovesi ripresono cuore e ardire di loro stato,
e i Veneziani molto ne dibassarono; e questo fece la mala provvedenza
del loro ammiraglio, che avendo guardata la bocca del porto come potea,
le galee de’ Genovesi non v’entravano, e l’entrate se l’avesse volute
combattere di dietro con parte delle sue galee, come poteva, avrebbe
vinti i Genovesi, come i Genovesi vinsono lui. Ma la guerra è di questa
natura, che commesso il fallo seguita la penitenza senza rimedio le più
volte.

CAP. XXXIII.
_Come Gentile da Mogliano diede Fermo al legato._
Innanzi che noi procediamo ad altri effetti della detta sconfitta,
Gentile da Mogliano signore della città di Fermo nella Marca ci ritiene
alquanto, perocchè essendo tirannello oppressato da messer Malatesta
da Rimini maggiore tiranno, per cui s’era messo a soldare la compagnia
per liberare Fermo dall’assedio, come già è detto, rimase povero
d’avere e d’aiuto, conobbesi impotente da difendersi dal nimico suo,
non che dal legato, che per riavere la Marca occupata a santa Chiesa
s’apparecchiava di venire a oste alla sua occupata città di Fermo, e
però si pensò di riconciliar col legato e d’abbattere messer Malatesta
suo nimico, e andossene in persona al legato ch’era a Fuligno, e
promiseli di renderli la città di Fermo, e d’essere fedele al servigio
di santa Chiesa e del legato. Il legato ebbe tanto a grado la venuta
e l’offerta di Gentile, che di presente il ricevette con grande
allegrezza, e per onorarlo e fargli bene, comunicatosi insieme con lui
alla messa, il fece gonfaloniere di santa Chiesa, e promisegli que’
danari che volle a certo termine, dicendogli ch’era contento tenesse
la rocca di Fermo infino che fosse pagato. Il legato mandò della sua
gente da cavallo e da piè, e furono ricevuti da’ Fermani con grande
allegrezza e festa, pensando che uscivano di pericoloso servaggio, che
Gentile era bisognoso e gravavagli troppo, e non gli poteva difendere
nè aiutare. E il legato pensava fare in Fermo sua frontiera al primo
tempo, perocch’era vicino alle città della Marca occupate per messer
Malatesta, e avendo fatto contro a lui e contro agli altri tiranni di
Romagna gravi processi, pensava volere fare l’esecuzione con altro che
col suono delle campane e con le candele spente, ma da’ baratti e da’
tradimenti de’ Romagnuoli e de’ Marchigiani non si potè guardare, come
innanzi racconteremo.

CAP. XXXIV.
_Come il re di Araona ebbe la Loiera, e fece accordo col giudice._
Tornando a’ fatti di Sardegna, il re di Araona con la sua cavalleria
e con l’armata delle sue galee avendo mantenuto assedio alla Loiera
dal luglio al novembre, e fatto continova guerra al giudice d’Alborea
con piccolo acquisto, essendo la Loiera a grande stretta, e non
vedendo d’essere soccorsa, trattavano col re, e similmente il giudice
d’Alborea rincrescendogli la guerra. Il re si teneva duro, e voleva
maggiori cose che offerte non gli erano. In questo stante sopravvenne
la sconfitta de’ Veneziani ricevuta da’ Genovesi, la novella della
quale fu in segreto molto tosto a Vinegia. Il doge e ’l consiglio
che questo seppono, tennono la cosa celata per modo, che i loro
cittadini non poterono alcuna cosa sentire, e di presente armarono
un legno sottile, e mandarono significando al re d’Araona il loro
fortunoso caso, e avvisandolo che innanzi che la novella si spargesse
sapesse pigliare suo vantaggio, e guardare la sua armata. Il legno
portò volando la mala novella al re d’Araona, ed egli con maestrevole
avviso con molta festa manifestò la novella per lo contradio, facendo
assapere al giudice e agli assediati che i Veneziani aveano sconfitti
i Genovesi. Per questo i Genovesi ch’erano a guardia della Loiera
perderono ogni ardire, e procacciavano l’accordo, e il giudice si
dichinò più che fatto non avrebbe, e il re mostrandosi di buona aria
più che non solea, di presente venne alla concordia della pace, e fu
fatta in questo modo: che il re avesse la Loiera andandosene sani e
salvi i Genovesi e gli altri forestieri che la guardavano, e il giudice
d’Alborea riconobbe ritenere tutte le terre dal detto re, e feceli il
saramento, e promiseli dare ogni anno certa moneta per l’omaggio delle
dette terre; e fatta la pace, e fornita la Loiera di sua gente d’arme,
per lo beneficio dell’affrettata novella, e per lo savio consiglio
del re, si tornò in Catalogna, con acquisto, e con pace, e con onore.
Ove se la novella fosse sentita prima da’ suoi avversari, con danno
e con vergogna senza nullo acquisto gli convenia partire dell’isola
vituperosamente: e però si verifica qui l’antico proverbio contrario
alla vile pigrizia, che dice; il buono studio vince ria fortuna.

CAP. XXXV.
_Come i Pisani si diliberarono di mandare all’imperatore._
Soprastando l’eletto imperadore a Mantova per volere trarre a fine la
pace tra’ Lombardi, i Pisani i quali erano a quel tempo in grande e
buono stato sotto il reggimento de’ Gambacorti, ch’erano i maggiori,
e con loro gli Agliati e seguaci e Bergolini, i quali manteneano
pace e onore co’ Fiorentini, e non ostante che fossono amici de’
guelfi, sentendo il popolo minuto tutto imperiale, per provvedersi
di conservare loro stato diliberarono di mandare di loro medesimi
ambasciadori con pleno mandato del detto comune al detto eletto,
e nel loro segreto fu, che procacciassono d’avere promessione e
fede dall’eletto, che gli conserverebbe nello stato senza far nella
città mutazione degli ufici, e che non vi rimetterebbe gli usciti
ribelli, e che manterrebbe al comune di Pisa la signoria di Lucca,
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