Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 07

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CAP. XCVII.
_Del male stato dell’isola di Sicilia._
Assai ne pare cosa più da dolere che da raccontare, gli assalti,
gli aguati, i tradimenti, gl’incendi, le rapine, l’uccisioni senza
misericordia, che in questi tempi i Siciliani faceano tra loro per
invidia e setta parziale, le quali maladette cose tra gli uomini
d’una medesima patria ebbono tanta forza di male aoperare nell’isola,
ch’abbandonata la cultura de’ fertili campi, i quali sogliono pascere
gli strani popoli, de’ suoi trasse per fame più di diecimila famiglie
della detta isola, i quali per non morire d’inopia, si feciono
abitatori dell’altrui terre in Sardegna, e in Calabria, e nel Regno
di qua dal faro. E in questa tempesta, certi baroni dell’isola
contrari alla setta de’ Catalani, che governavano lo sventurato duca
che s’attendea a essere re, sentendolo egli e i suoi manifestamente,
trattavano di dare la maggiore parte delle buone terre dell’isola al
re Luigi suo avversario, e non ebbe per lungo tempo podere d’atarsene,
tanto che venne fatto, come nel principio del quarto libro seguendo si
potrà trovare.

CAP. XCVIII.
_Come il legato del papa procedette col prefetto._
In questo verno, il cardinale di Spagna legato del papa avendo tentato
il prefetto lentamente con poco prosperevole guerra, cercò con più
riprese di trovare pace con lui, e fu la cosa tanto innanzi, che per
tutto scorse la fama che la pace era fatta. Ma il prefetto già tiranno
senza fede, vedendosi il destro, sotto la speranza della pace tolse al
legato due castella, e rotto il trattato, il cominciò a guerreggiare:
per la qual cosa il legato seguitò il processo fatto contro a lui, e
del mese di febbraio del detto anno pronunziò la sentenza, e per sue
lettere il fece scomunicare come eretico per tutta Italia; e fatto
questo, conoscendo che altra medecina bisognava a riducere costui alla
via diritta, che suono di campane o fummo di candele, saviamente, e
senza dimostrare sua intenzione innanzi al fatto, si venne provvedendo
d’avere al tempo gente d’arme, da potere fare l’esecuzione contro a
lui del suo processo. E in questo mezzo, avendo dugento cavalieri
del comune di Firenze e alquanti da se, fece sì continua guerra al
tiranno, che poco potea resistere o comparire fuori delle mura. E
avendo il prefetto preso sospetto de’ Viterbesi e degli Orvietani, che
si doleano perchè la pace non era venuta a perfezione, tirannescamente
volle tentare l’animo de’ cittadini di catuna città, e fare cosa da
tenerli in paura. E però segretamente accolse fanti di fuori a pochi
insieme, e miseli in catuna terra ne’ suoi palagi, e in un medesimo dì
fece a certa gente di cui e’ si confidò levare il romore contro a se
in catuna città, al quale romore alquanti cittadini in catuna terra
presono l’arme, e seguitavano il grido. Il tiranno con quattrocento
fanti ch’aveva armati e apparecchiati in Viterbo uscì fuori e corse la
terra, uccidendo cui egli volle, e condannò e cacciò a’ confini tutti
coloro di cui sospettava. E per simigliante modo fece correre la città
d’Orvieto al figliuolo, e uccidere e condannare e mandare a’ confini
cui egli volle. E così gli parve per male ingegno aver purgate quelle
due città d’ogni sospetto, e avere più ferma la sua signoria, la quale
per lo contradio, non avendo da se potenza nè aspettandola d’altrui,
per questa mala crudeltà ogni dì venne mancando, come l’opere appresso
dimostreranno manifestamente in fatto.

CAP. XCIX.
_Come si rubellò Verona al Gran Cane per messer Frignano._
Chi potrebbe esplicare le seduzioni, gl’inganni e’ tradimenti che i
tiranni posponendo ogni carità, parentado e onore, pensano, ordinano,
e fanno per ambizione di signoria? Certo tanti sono i modi quanti i
loro pensieri, sicchè ogni penna ne verrebbe meno e stanca. Tuttavia
per quello ch’ora ci occorre, cosa strana e notevole, ci sforzeremo a
dimostrare l’avviluppata verità di diversi tradimenti e suoi effetti.
Narrato avemo poco dinanzi come la lega de’ Veneziani con gli altri
signori Lombardi era giurata e ferma contro al signore di Milano, ed
essendo il signore di Mantova de’ più avvisati tiranni di Lombardia
vicino dell’arcivescovo di Milano, l’arcivescovo con industriose
suasioni e con grandi promesse il mosse a farlo trattare di tradire
messer Gran Cane signore di Verona e di Vicenza con cui egli era
in lega, ed egli per accattare la benivolenza dell’arcivescovo,
dimenticato il beneficio ricevuto da quelli della Scala, che l’aveano
fatto signore di Mantova, diede opera al fatto, e non senza speranza
d’aoperare per se, se la fortuna conducesse la cosa ov’era la sua
immaginazione. E però conoscendo egli messer Frignano figliuolo
bastardo di messer Mastino, uomo pro’, e ardito d’arme, e di grande
animo, accetto nel cospetto del fratello suo signore, e amato dal
popolo di Verona e di Vicenza, vago di signoria, trattò con lui di
farlo signore di Verona con suo consiglio, e colla sua forza e del
signore di Milano. Questo sterpone tornando alla sua natura, senza fede
o fraternale carità, di presente intese al tradimento del fratello, e
col signore di Mantova ordinarono il modo ch’egli avesse a tenere, e
l’aiuto della gente ch’egli avrebbe da lui. In questo tempo avvenne
che ’l Gran Cane andò a parlamentare col marchese di Brandimborgo suo
suocero per li fatti della lega, e il fratello bastardo era cognato del
signore di Castelborgo, ch’era a’ confini del cammino ove il Gran Cane
dovea passare; costui avvisato da messer Frignano mise un aguato per
uccidere il Gran Cane, ma scoperto l’aguato, passò senza impedimento.
Come messer Frignano avea ordinato, a Verona tornarono novelle come il
Gran Cane era stato morto; ma innanzi che la novella venisse, messer
Frignano avea mandati fuori di Verona tutti i cavalieri soldati, salvo
coloro di cui s’era fidato, e che con lui s’intesero al tradimento.
Pubblicata la novella in Verona come il Gran Cane loro signore era
stato morto, il traditore con gran pianto fece incontanente, a dì 17 di
febbraio del detto anno, raunare il popolo, e a uno giudice, cui egli
avea informato, fece proporre in parlamento come il loro signore era
morto, e che ’l comune di Verona rimanea in gran pericolo senza capo,
avendo a vicino così possente signore com’era l’arcivescovo di Milano;
e aggiunse, che a lui parea che messer Frignano prendesse il loro
governamento. Il traditore ch’era presente, senza attendere ch’altri si
levasse a parlamentare, o ch’altra deliberazione si facesse, si levò
suso, e disse, che così prendeva e accettava la signoria. E montato a
cavallo, colle masnade che v’erano corse la terra, gridando, muoiano
le gabelle; e fece ardere i libri e gli atti della corte, e ruppono le
prigioni. E di subito il signore di Mantova vi mandò messer Feltrino,
e messer Federigo, e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Ugolino
da Gonzaga tutti de’ signori di Mantova con trecento cavalieri. Il
signore di Ferrara ingannato del tradimento vi mandò messer Dondaccio
con dugento cavalieri; ma innanzi che tutti v’entrassono, il capitano
colla maggior parte di loro per contramandato si tornarono indietro
scoperto l’inganno. Messer Frignano ricevuta questa gente d’arme, e
accolti certi cittadini che ’l seguirono, da capo corse la terra: i
cittadini non si mossono, ed egli s’entrò nel palagio dell’abitazione
del signore. Messer Azzo da Coreggio ch’era in Verona se n’uscì non con
buona fama. Le guardie furono poste alle porte, e la terra s’acquetò, e
messer Frignano ne fu signore; la quale signoria il signore di Mantova
per ingegno, e quello di Milano per ingegno e forza si credette catuno
avere, come seguendo appresso diviseremo.

CAP. C.
_Come messer Bernabò con duemila barbute si credette entrare in Verona._
Il signore di Mantova avendo in Verona quattro tra figliuoli e
congiunti con trecento cavalieri, procacciava di mettervene anche per
esservi più forte che messer Frignano, a intenzione di tradire lui,
e di recare a se la signoria, ma non gli potè venire fatto, perocchè
sentì che l’arcivescovo di Milano, che vegghiava a questo effetto,
mandava messer Bernabò cognato del Gran Cane a Verona con duemila
cavalieri, temette di se, e non ebbe ardire di sfornire Mantova di
cavalieri; e così per la non pensata perdè quello che avea lungamente
provveduto. La novella del gran soccorso che venia da Milano, e
dell’apparecchiamento di quello di Mantova sentito a Verona, generò
sospetto a messer Frignano e a’ cittadini della città, e però presono
l’arme, e rafforzarono le guardie, e stettono in più guardia; onde i
signori che v’erano di Mantova non vidono modo di fornire loro corrotta
intenzione, e però si stettono, mostrandosi fedeli a messer Frignano e
alla guardia della città. In questo stante messer Bernabò con duemila
barbute e gran popolo giunse a Verona, mostrando di volere ricoverare
la signoria di Verona al cognato, credendo con questo trarre a se
l’animo de’ cittadini, e credendo che quelli ch’aveano mossa questa
novità a stanza dell’arcivescovo l’atassono entrare nella terra, e
però si strinse infino alle porte, e domandava l’entrata, la quale gli
fu negata; e non vedendo che dentro alcuno gli rispondesse, cominciò
a combatterla; ma vedendo il suo assalto tornare invano, e sentendo
la tornata di messer Gran Cane d’Alamagna, si partì del paese, e
tornossi a Milano mal contento de’ signori di Mantova, ed eglino peggio
contenti dell’arcivescovo, ch’aveva sconcio il loro tranello per quella
cavalcata, come poco appresso dimostrarono in opera catuna parte,
secondo che seguendo dimostreremo.

CAP. CI.
_Come messer Gran Cane racquistò Verona, e fu morto messer Frignano._
Quando messer Gran Cane cavalcava al marchese di Brandimborgo avea
con seco il fratello, e sospicando di novità quando sentì l’aguato
del signore di Castelborgo rimandò il fratello addietro, il quale
venendo nel paese, sentì come messer Frignano avea rubellata Verona,
e però se n’andò in Vicenza. La novella corse a messer Gran Cane, e
vennegli essendo egli col marchese; e turbato l’uno e l’altro, il
marchese francamente il confortò, offerendoli tutta la sua possa
a racquistare Verona: ma perchè l’indugio a cotali cose conobbe
pericoloso, di presente il fece montare a cavallo, apparecchiandoli
di subito cento barbute delle sue, e colla gente ch’egli aveva da se,
senza soggiorno, cavalcando il dì e la notte, se ne venne a Vicenza,
e là trovò il fratello, e trovovvi messer Manno Donati di Firenze
capitano di dugento cavalieri, che il signore di Padova avea mandati
in suo aiuto, e trovovvi della gente del marchese di Ferrara; e
sommosso il popolo di Vicenza a cotanto suo bisogno, gran parte ne
menò con seco; e la notte medesima, con seicento barbute e col popolo
di Vicenza se ne venne a Verona, e in sul mattino lasciò la strada,
e attraversando pe’ campi entrò in Campo marzio, che è fuori della
città ivi presso, murato intorno, e risponde a una piccola porta della
città, la quale meno ch’altra porta si solea guardare. Quivi s’affermò
messer Gran Cane, e mandò innanzi un Giovanni dell’Ischia di Firenze
la notte, che procacciasse d’entrare in Verona, e facesse sentire a’
confidenti cittadini di messer Gran Cane com’egli era di fuori in
Campo marzio, e accompagnollo d’uno confidente Tedesco. Costoro, non
avendo altra via, si misono a notare co’ cavalli per l’Adice per venire
infra la città ove mancava il muro, e in questo notare, il Tedesco
poco destro del servigio dell’acqua vi rimase affogato. Giovanni
dell’Ischia entrò nella terra, e andò informando e sommovendo gli
amici di messer Gran Cane, avvisando come avessono a venire a quella
porta in suo favore; i quali sentendo ivi fuori il loro signore, la
mattina vennono con le scuri alla porta, e spezzaronla. Nondimeno le
guardie ch’erano sopr’essa con le pietre e con le balestra da alto
francamente la difendevano, sicchè non vi lasciarono entrare alcuno.
Intanto il traditore messer Frignano essendo in sollecita guardia
del fratello, e ancora di messer Bernabò, che il dì dinanzi l’avea
assalito co’ suoi cavalieri, cavalcava intorno alla terra, e la mattina
era montato in certa parte onde potea vedere di fuori, e guardava se
messer Gran Cane venisse, che già non sapeva che fosse così dipresso,
e guardando inverso Campo marzio, vide la porta piccola di Verona
aperta, e dicendo, noi siamo traditi, francamente trasse con la gente
sua inverso quella porta per difendere l’entrata; ma innanzi che vi
giugnesse, il Gran Cane s’era tratto innanzi alla porta, e trattasi
la barbuta, e fattosi conoscere a coloro che la guardavano, dicendo,
io vedrò chi saranno coloro che mi contradiranno l’entrata della mia
terra, e conosciuto da loro, incontanente gli feciono reverenza, e
lasciarono entrare lui e la sua gente senza contasto. E sopravvenendo
messer Frignano, il trovò entrato nella città con la maggior parte
della gente, e avvisatolo, che bene il conosceva, nella piazza dentro
dalla porta, si dirizzò verso lui colla lancia per fedirlo di posta,
e tentare l’ultima fortuna: ma già era cominciato l’assalto tra i
cavalieri di catuna parte aspro e forte, sicchè vedendo un cavaliere di
quelli di messer Gran Cane mosso messer Frignano colla lancia abbassata
verso il suo signore, gli si addirizzò per traverso, e colla lancia il
percosse nella guancia dell’elmo per tale forza, come fortuna volle,
che l’abbattè del cavallo a terra. Messer Giovanni chiamato Mezza
Scala, vedendo messer Frignano abbattuto del destriere, scese del suo
cavallo, e disse, che che s’avvegna di Verona tu morrai delle mie mani,
e corsegli addosso, e con un coltello gli segò le vene, e lasciollo
morto a terra. Ed in quello baratto fu morto con lui messer Paolo della
Mirandola, e messer Bonsignore d’Ibra grandi conestabili. E morti
costoro, l’altra gente ruppe, e assai ve ne furono morti fuggendo. Le
porti della città erano serrate, e i cittadini sentendo il loro signore
dentro tutti tennero con lui, e però i forestieri che v’erano furono
presi e rassegnati a messer Gran Cane, il quale per la sua sollecita
tornata felicemente racquistò Verona e uccise i traditori. Che se al
fatto avesse messo indugio, non la racquistava in lungo tempo, o per
avventura non mai, sì si venia provvedendo alla difesa lo sterpone. E
questo avvenne il dì di carnasciale, a dì 25 di febbraio l’anno 1353.

CAP. CII.
_Come messer Gran Cane riformò la città di Verona, e fece giustizia de’
traditori._
Messer Gran Cane avendo racquistata Verona avventurosamente si fece
appresentare i prigioni, e diligentemente volle investigare la verità,
come i cittadini aveano acconsentito al traditore, e udita la sagacità
dell’inganno, comportò dolcemente l’errore del popolo. E raddirizzato
l’ordine al governamento della città, fece impiccare in sù la piazza di
mezzo il mercato di Verona il corpo di messer Frignano, e ventiquattro
caporali partefici al tradimento del fratello, tra’ quali fu Giovannino
Canovaro di Verona grande cittadino con quattro suoi figliuoli, e
Alboino della Scala suo consorto, e messer Alberto di Monfalcone
grande conestabile, e Giannotto fratello di madre di messer Frignano,
e due figliuoli di Tebaldo da Camino, e due medici de’ signori della
Scala, e il notaio della condotta, e altri uficiali infino al numero
sopraddetto. A prigione ritenne messer Feltrino da Mantova, e messer
Ugolino e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Federigo suo
fratello, e Piero Ervai di Firenze, il quale era fatto podestà di
Verona per messer Frignano, il quale si ricomperò per non essere
impiccato fiorini diecimila d’oro. Guidetto Guidetti si ricomperò per
simile cagione fiorini dodicimila d’oro. Messer Giovanni da Sommariva
e Tebaldo da Camino vi rimasono prigioni, e a’ cavalieri soldati tolse
l’armi e’ cavalli, e feceli giurare di non essere mai contro a lui, e
lasciolli andare. A coloro che più singolarmente l’aiutarono in questo
fatto, come fu messer Manno Donati, e que’ dell’Ischia, e quelli di
Boccuccio de’ Bueri tutti cittadini di Firenze, ch’adoperarono gran
cose in sul fatto, provvide di possessioni de’ traditori, e molti altri
ebbono grazia da lui cittadini e forestieri. E rimaso libero signore
come di prima, aontato contro al signore di Mantova, avuta gente d’arme
dal marchese di Brandimborgo cavalcò sul Mantovano, e ruppe la lega, e
dissimulava trattato d’allegarsi con l’arcivescovo di Milano, insino
che le cose si ridussono a concordia per sollecita operazione de’
Veneziani, come al suo tempo innanzi racconteremo.

CAP. CIII.
_Come fu deliberato per la Chiesa l’avvenimento dell’imperadore in
Italia._
Avendo l’eletto imperadore prima veduto come i comuni di Toscana
l’aveano richiesto per farlo valicare in Italia, e da loro non s’era
rotto, e appresso era richiesto dalla lega de’ Lombardi, e con loro
tenea benevoglienza e trattato, e ancora l’arcivescovo avea appo
lui continovi ambasciadori che gli offeriano il loro aiuto alla sua
coronazione, per le quali cose considerò che agevolmente e senza
resistenza e’ potea valicare per la corona. E però sostenendo catuna
parte in speranza e in amore, mandò a corte di Roma ad Avignone per
avere licenza e la benedizione papale, e i legati e ’l sussidio
promesso dalla Chiesa per la sua coronazione. Gli ambasciadori furono
graziosamente ricevuti dal papa, e udita la domanda dell’eletto
debita e giusta, tenuti sopra ciò alquanti consigli e consistori, del
mese di febbraio del detto anno, fu deliberato per lo papa e per li
cardinali ch’egli avesse la licenza, e la benedizione, e i legati per
la sua coronazione; altro sussidio non gli promisono. E partiti gli
ambasciadori da corte, tra i cardinali ebbe divisione e tire di coloro
ch’avessono la legazione per venire con lui, e per le dette tire, e
perchè l’avvenimento non parea presto, si rimase la commessione de’
legati infino al tempo dell’avvenimento suo; onde si raffreddarono i
procacciatori, non sentendolo ricco da trarre da lui quello che la loro
avarizia prima si pensava.

CAP. CIV.
_D’un gran fuoco ch’apparve nell’aria._
Il primo dì di marzo, alle sei ore della notte, si mosse uno sformato
fuoco nell’aria, il quale corse per gherbino in verso greco, come
aveva fatto l’altro che prima era venuto col tremuoto, ma di lume e
d’infiammagione non fu molto minore. A questo seguitò grande secco,
perocchè infino al giugno non caddono acque che podere avessono di
bagnare la terra, per la qual cosa il grano e le biade cresciute il
verno e parte della primavera, e in buona speranza di ricolta, a tanto
erano condotte per lo secco, che se non fosse la manifesta grazia che
Madonna fece alla processione dell’antica tavola della sua effigie di
santa Maria in Pineta, come al suo tempo si diviserà, erano i popoli di
Toscana fuori di speranza di ricogliere grano, o biada o altri frutti
in quest’anno per nutricamento di quattro mesi; e però non ci pare
da lasciare in silenzio il caso di questo segno, per ammaestramento
de’ tempi avvenire. Seguitò ancora l’avvenimento dell’imperadore in
quest’anno in Italia e la sua coronazione, e avvenimento di grandi
terremuoti, come appresso racconteremo.

CAP. CV.
_Di tremuoti che furono._
In questo medesimo dì primo di marzo furono in Romania grandissimi
terremuoti, e nella nobile città di Costantinopoli abbatterono molti
grandi e nobili edificii e gran parte delle mura della città, con
grande uccisione d’uomini, e di femmine, e di fanciulli. E da Boccadone
infino a Costantinopoli, su per la marina, non rimase castello nè
città che non avesse grandissime rovine delle mura e degli edificii
con grande mortalità de’ suoi abitanti; per la qual cosa avvenne, che
i Turchi loro vicini sentendo i Greci spaventati, e senza potersi
racchiudere e salvare nelle fortezze, corsono sopra loro, e presonne
assai, e menaronli in servaggio: e alcuni castelli rifeciono e
afforzarono, e misonvi abitatori e guardie di loro Turchi; e appresso
accolsono grande esercito di loro gente, e puosonvi assedio per terra
a Costantinopoli, ch’era in divisione e in tremore, ma contro a’
Turchi s’unirono alla difesa; sicchè stativi alcuno tempo senza potere
acquistare la città, corsono le ville, e rubarono le contrade, e senza
avere resistenza fuori delle mura si tornarono in loro paese.

CAP. CVI.
_De’ fatti del monte._
La fede utile sopra l’altre cose, e gran sussidio a’ bisogni della
repubblica, ci dà materia di non lasciare in oblivione quello che
seguita. Il nostro comune, per guerra ch’ebbe co’ Pisani per lo fatto
di Lucca, si trovò avere accattati da’ suoi cittadini più di seicento
migliaia di fiorini d’oro; e non avendo d’onde renderli, purgò il
debito, e tornollo a cinquecentoquattro migliaia di fiorini d’oro
e centinaia, e fecene un monte, facendo in quattro libri, catuno
quartiere per se, scrivere i creditori per alfabeto, e ordinò con certe
leggi penali, alla camera del papa obbligate, chi per modo diretto o
indiretto venisse contro a privilegio e immunità ch’avessono i danari
del monte. E ordinò che in perpetuo ogni mese, catuno creditore dovesse
avere e avesse per dono d’anno e interesso uno danaio per lira, e che i
danari del monte ad alcuno non si potessono torre per alcuna cagione,
o malificio, o bando, o condannagione che alcuno avesse; e che i detti
danari non potessono essere staggiti per alcuno debito, nè per alcune
dote, nè fare di quelli alcuna esecuzione, e che lecito fosse a catuno
poterli vendere e trasmutare, e così a catuno in cui si trovassono
trasmutati, que’ privilegi, e quell’immunità, e quello dono avesse il
successore che ’l principale. E cominciato questo gli anni di Cristo
1345, sopravvenendo al comune molte gravi fortune e smisurati bisogni,
mai questa fede non maculò, onde avvenne che sempre a’ suoi bisogni
per la fede servata trovava prestanza da’ suoi cittadini senza alcuno
rammaricamento: e molto ci si avanzava sopra il monte, accattandone
contanti cento, e facendone finire al monte altri cento, a certo
termine n’assegnava dugento sopra le gabelle del comune, sicchè i
cittadini il meno guadagnavano col comune a ragione di quindici per
centinaio l’anno. Essendo i libri e le ragioni mal guidate per i notai
che non gli sapeano correggere, e avevanvi commessi molti errori e
falsi dati, si ridussono in mano di scrivani uomini mercatanti che gli
correggessono, e corressono molto chiaramente a salvezza del comune e
de’ creditori, avendo al continovo uno notaio che facea carta delle
trasmutagioni per licenza del vero creditore, e poi gli scrivani gli
acconciavano in su’ registri del comune, levando dall’uno e ponendo
all’altro. Di questi contratti de’ comperatori si feciono in Firenze
l’anno 1353 e 1354 molte questioni, se la compera era lecita senza
tenimento di restituzione o nò, eziandio che il comperatore il facesse
a fine d’avere l’utile che il comune avea ordinato a’ creditori, e
comperando i fiorini cento prestati al comune per lo primo creditore
venticinque fiorini d’oro, e più e meno com’era il corso loro,
l’opinione de’ teologi e de’ legisti in molte disputazioni furono
varie, che l’uno tenea che fusse illecito e tenuto alla restituzione,
e l’altro nò, e i religiosi ne predicavano diversamente: que’
dell’ordine di san Domenico diceano che non si potea fare lecitamente,
e con loro s’accostavano de’ romitani, e i minori predicavano che si
potea fare, e per questo la gente ne stava intenebrata. Era in questi
tempi in Firenze copia di maestri in teologia, fra i quali de’ più
eccellenti era maestro Piero degli Strozzi de’ frati predicatori, e
maestro Francesco da Empoli de’ minori; maestro Piero dicea che non
era lecito contratto, e predicavalo senza dimostrarne le ragioni
chiare; perchè maestro Francesco de’ minori avendo sopra ciò con grande
diligenza avute molte disputazioni con altri maestri in divinità,
e con dottori di legge e di decretali, al tutto chiarì, e tenne, e
predicò, e scrisse ch’era lecito, e senza tenimento di restituzione a
chi il facea, senza fare contro a sua coscienza; e le ragioni perchè
scrisse e mandò a tutte le regole, apparecchiato a mantenere quello
che predicato e scritto avea. Nondimeno i predicatori e’ loro maestri
non si rimossono della loro opinione, predicando che non si potea fare
lecitamente e senza restituzione; e della loro opinione non mostrarono
ragione, e contro alle scritte per maestro Francesco non contradissono
con alcuna ragione; e per questo a molti rimase in dubbio il detto
contratto, e molti l’ebbono per chiaro accostandosi alle ragioni del
maestro Francesco, e senza riprensione di loro coscienza vendevano e
comperavano, facendone traffico come d’un’altra mercatanzia. Se ’l
contratto si potea provare usurario, debito era a chi ’l predicava
di riprovare quello che si provava in contrario, per trarre la gente
d’errore; se lecitamente fare si poteva, considerato che gli uomini
sono cupidi a guadagnare, male era a recare loro in sospetto, e
contaminare le coscienze di quello che lecito era per non discrete
predicazioni.

CAP. CVI.
_Di certe rivolture di tiranni di Lombardia, e di più cose per lo
tradimento di Verona_
Detto abbiamo poco addietro come il Gran Cane della Scala si tenea aver
perduta Verona per operazione del signore di Mantova, ed era contro a
lui forte inanimato per lo fallo ch’egli avea fatto; essendo con lui
nella lega s’era rotto dalla lega degli altri, e trattava d’allegarsi
coll’arcivescovo di Milano e col marchese di Brandimborgo per far
guerra coll’arcivescovo insieme contro a Mantova, e l’arcivescovo molto
vi venia volentieri, e furono le cose tanto innanzi, che per tutto
corse la voce ch’ell’era fatta. Il comune di Vinegia conoscendo che
questa discordia poteva tornare a grande pericolo del loro comune e
degli altri loro collegati lombardi, mandarono di loro assentimento al
Gran Cane solenni ambasciadori, per rivocarlo alla lega e compagnia
ch’aveano insieme, e far fare al signore di Mantova l’ammenda del suo
fallo; e seguendo gli ambasciadori solennemente quello che fu loro
commesso, operarono tanto, che ’l signore di Mantova fece l’ammenda
come messer Gran Cane volle, e per la stima del danno ricevuto diede
trentamila fiorini d’oro a messer Gran Cane, i quali promise, e pagò
poi per lui il comune di Vinegia, e il signore di Mantova ne diè loro
in guardia tre buone castella: e per questo modo fu fatta la pace, e
lasciati di prigione que’ di Mantova, e messer Gran Cane tornò alla
lega com’era in prima. Essendo raffermata la lega, ne’ porti di Mantova
si trovò in un dì molta mercatanzia di Milanesi e d’altri distrettuali
dell’arcivescovo, e perocchè a stanza dell’arcivescovo il signore di
Mantova s’era mosso a far quello onde gli era convenuto fare ammenda di
fiorini trentamila d’oro, di fatto fece arrestare tutto, e ripresesi
sopra i Milanesi e distrettuali dell’arcivescovo di più che non
restituì al signore di Verona, la qual cosa l’arcivescovo e’ suoi si
recarono a grande onta.

CAP. CVII.
_Del processo della grande compagnia di fra Moriale della Marca._
Tornando alla nuova tempesta di fra Moriale e di sua compagnia, rimasi
nella Marca dopo la partita di messer Malatesta dall’assedio di
Fermo, cominciarono a cavalcare il paese e fare in ogni parte preda,
e vinsono per forza Mondelfoglio, e le Fratte, e san Vito, e sei
altre castelletta nel paese, e scorsono a Iesi, e rubarono i borghi
e predarono il paese. Appresso combatterono Feltrino e vinsonlo per
forza, e uccisonvi da cinquant’uomini, e perch’era pieno d’ogni bene
da vivere vi dimorarono un mese. E in fra questo tempo ebbono Monte
di Fano, e Monte di Fiore, e più altre castella d’intorno per paura
feciono i loro comandamenti. Per la fama delle grandi prede che faceva
la compagnia, molti soldati ch’aveano compiute le loro ferme, senza
volere più soldo traevano a fra Moriale, e assai in prova si facevano
cassare per essere con lui, ed egli li faceva scrivere, e con ordine
dava a catuno certa parte al bottino, e tutte le ruberie e prede
ch’erano venali facea vendere, e sicurava i comperatori, e facevali
scorgere lealmente, per dare corso alla sua mercatanzia. E ordinò
camarlingo che ricevea e pagava, e fece consiglieri e segretari con
cui guidava tutto; e da tutti i cavalieri e masnadieri era ubbidito
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