Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 08

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come fosse loro signore, e mantenea ragione tra loro, la quale faceva
spedire sommariamente. E così ordinati cavalcarono, e mutavano paese, e
vennono a Montelupone, il quale per paura s’arrendè loro, e stettonvi
venti dì; e raunata ivi la preda fatta nel paese e la sostanza
del castello, ogni cosa ne trassono senza far male agli uomini, e
cavalcarono alla marina e presono Umana, e combatterono Orivolo, e non
l’ebbono, e da Umana andarono sopra Ancona, e presono la Falconara
a patti salve le persone. E in que’ dì ebbono otto castella che
s’arrenderono loro in sull’Anconitano, fuggendo le persone, e lasciando
le terre e la roba alla compagnia. Appresso tornarono sopra Iesi, e per
forza ebbono Alberello ed un altro castello, e tutto recarono in preda,
e poi andarono a Castelficardo pieno di molta vittuaglia, e quello
combattendo vinsono per forza. E del mese di marzo presono il castello
delle Staffole pieno di molto vino, ed il Massaccio e la Penna. E per
tutto quel paese il residuo del verno sparsono la loro irreparabile
tempesta, rubando e uccidendo, e facendo ogni sconcio male a’ paesani,
e singolarmente più a’ sudditi di messer Malatesta, avendo delle sue
terre quarantaquattro castella in loro servaggio, e avendo stadico un
figliuolo del capitano di Forlì, e Gentile da Mogliano, per li soldi
che promessi aveano alla detta compagnia.

CAP. CVIII.
_Come il legato prese Toscanella._
In quest’anno del mese di marzo, il cardinale di Spagna legato del papa
facendo guerra col prefetto di Vico, per trattato gli tolse Toscanella,
e questo fu il primo acquisto che il legato facesse contro a lui:
dappoi seguitarono le cose a maggiori fatti, come seguendo nostra
materia diviseremo. In questi dì, il marchese di Ferrara parendogli
essere debole nella nuova signoria, perchè Francesco marchese, il
quale si tenea dovere di ragione essere signore, gli s’era rubellato,
o che trovasse alcuno trattato nella città contro a se, o ch’egli il
contraffacesse, a che si diè più fede, cacciò di Ferrara de’ suoi
fratelli e alquanti de’ maggiori cittadini, confinandoli fuori del suo
distretto, e cominciò a stare più fornito di gente forestiera, e in
maggiore guardia.

CAP. CIX.
_Come messer Malatesta si ricomperò dalla compagnia._
Essendo la compagnia di fra Moriale cresciuta di cavalieri e di
masnadieri, e nutricata il verno sopra le terre che distruggea,
messer Malatesta da Rimini, avvisato e provveduto in fatti di guerra,
considerando la gente della compagnia, e la loro troppa sicurtà
presa per non avere avversario, e il luogo dov’erano e il loro
reggimento, pensò, che dove i comuni di Toscana lo volessono atare,
ch’egli vincerebbe la detta compagnia; e non parendogli materia da
commettere ad ambasciadori, in persona venne a Perugia, e poi a Siena,
e appresso a Firenze, e mostrò a ciascun comune il pericolo che potea
loro venire di quella compagnia se contra loro non si riparasse, e
domandava a catuno comune aiuto di gente d’arme, e dove dato gli
fosse, con ottocento barbute di buona gente ch’egli avea da se, e col
suo popolo e col vantaggio ch’avea intorno a loro delle sue terre,
promettea di rompere e di sbarattare la compagnia in breve tempo;
e questo dimostrava per vere e manifeste ragioni; ma catuno comune
avendo la tempesta da lungi se ne curava poco. I Perugini che furono
prima richiesti, dissono, che in ciò seguiterebbono la volontà de’
Fiorentini, e in questo modo risposono anco i Sanesi. E venuto messer
Malatesta colle lettere de’ detti comuni a Firenze, i Fiorentini udita
la sua domanda gli diedono dugento cavalieri, i quali menò con seco
fino a Perugia. I Perugini e’ Sanesi non vollono attenere la loro
promessa, e però i cavalieri de’ Fiorentini si tornarono addietro.
Messer Malatesta vedendosi abbandonato dall’aiuto de’ comuni di
Toscana, e che tempo era che la compagnia potea procacciare altrove,
trattò con loro, e venne a concordia di dare fiorini quarantamila d’oro
alla compagnia, parte contanti, e degli altri li sicurò, dando loro per
istadico il figliuolo, e si partirono del suo distretto, e promisono
di non tornarvi infra certo tempo. E fatto l’accordo, e partita
la compagnia, messer Malatesta cassò quasi tutti i suoi soldati,
i quali di presente s’aggiunsono alla compagnia; la quale essendo
molto cresciuta di baroni, e di conti e di conestabili, si cominciò a
chiamare la gran compagnia, e tribolando la Marca, e la Romagna, e il
Ducato, innanzi che di là si partissono rifermarono la loro compagnia
per certo tempo, e tutti la giurarono nelle mani di messer fra Moriale.
E benchè fra loro fossono grandi baroni alamanni, tutti vollono che il
titolo della compagnia, e la capitaneria fosse in messer fra Moriale,
ma dieronli quattro segretari de’ cavalieri, che l’uno fu il conte di
Lando, e un barone di gran seguito ch’avea nome Fenzo di... e il conte
Broccardo di.... e messer Amerigo del Canaletto; e de’ masnadieri
quattro conestabili italiani. In costoro era la deliberazione
dell’imprese e il segreto consiglio, e feciono altri quaranta
consiglieri, e un tesoriere a cui venia tutta l’entrata delle loro
prede, e questi pagava e prestava a’ comandamenti del capitano. Dato
l’ordine, il capitano era ubbidito da tutti come fosse l’imperadore, e
facea la notte cavalcare di lungi dal campo venticinque o trenta miglia
ov’egli comandava, e il dì tornavano con grandi prede, e ogni cosa
fedelmente rassegnavano al bottino. E perocchè quasi quanti conestabili
avea in Italia al soldo de’ signori e de’ comuni aveano parte di loro
masnade nella compagnia, erano sì baldanzosi, che di niuna gente di
soldo temeano, e però tutti i comuni minacciavano se non dessono loro
denari di venire sopra loro. E mandarono ambasciadori nel Regno, ed
ebbono promissione dal re Luigi di quarantamila fiorini d’oro, i
quali non mandò loro, di che cari gli feciono poi costare. Ebbono dal
capitano di Forlì e da Gentile da Mogliano trentamila fiorini d’oro, e
da messer Malatesta quarantamila. Ed essendo richiesti dall’arcivescovo
di Milano di volerli conducere a suo soldo contro alla lega, e da
quelli della lega contro all’arcivescovo, catuno teneano in speranza e
con niuno si fermavano, e anche teneano trattato col prefetto di Vico
contro al legato, e però non si potea sapere che dovessono fare, e
molto manteneano bene loro credenza. E in fine del mese di maggio 1354
se ne vennono a Fuligno, e dal vescovo ebbono mercato d’ogni vittuaglia
abbondevolmente. Lasceremo ora la gran compagnia che n’è assai detto, e
non senza debita scusa, per la grande e pericolosa novità che ne seguì
in Italia, e diremo dell’altre cose che prima ci occorrono a raccontare.

CAP. CX.
_D’un fanciullo mostruoso nato in Firenze._
In questo verno del detto anno nacque in Firenze nel popolo di san
Piero Maggiore un fanciullo maschio figliuolo d’uno de’ maggiori
popolari di quello popolo, ch’avea tutte le membra umane dal collo
a’ piedi, e il viso suo non avea effigie umana; la faccia era tutta
piana senza bocca, e avea un foro per lo quale messo lo zezzolo della
poppa traeva il latte, e poppava, e nella superficie della testa al
diritto, sopra dove doveano essere gli occhi avea due fori: e’ vivette
più giorni, e fu battezzato, e seppellito in san Piero Maggiore. E
poco appresso una gentile donna moglie d’un cavaliere avendo fatto un
fanciullo un mese dinanzi, partorì un’altra materia di carne a modo
d’un cuore di bue, di peso di libbre quindici, con alcuni dimostramenti
ma non chiari d’effigie umana, senza distinzione di membri, e come
questo ebbe partorito, incontanente morì la donna.

CAP. CXI.
_Come furono cacciati i guelfi di Rieti e da Spoleto._
De mese d’aprile, del detto anno 1354, i guelfi di Rieti avendo il
governamento della città, e podestà e capitano dal re Luigi, montati
in superbia per animo di parte oltraggiavano i ghibellini di quella
terra, e tanto montarono gli oltraggi, ch’e’ guelfi mossono romore per
cacciare i ghibellini, e catuna parte fu sotto l’arme, e di cheto senza
fare altra novità s’acquetarono a quella volta; e nondimeno catuna
parte rimase in gran sospetto e riguardo l’uno con l’altro, e in questo
modo erano stati lungamente. Avvenne che i guelfi, avendo a loro stanza
gli uficiali della terra, con ordine fatto, una domenica mattina a dì
20 d’aprile subito presono l’arme e corsono alla piazza, gridando:
muoiano i ghibellini. I cittadini di quella parte temendo del subito e
non pensato romore, francamente s’armarono e corsono alla piazza per
difendersi, e quivi cominciò aspra e crudele battaglia, e senza alcuno
riguardo uccideva e fediva l’uno l’altro, e durò assai, che niuno
perdeva di suo terreno; in fine ghibellini disperati di loro salute
ruppono una barra incatenata che gli dividea da’ guelfi, e con grande
empito d’amaro cuore assalirono i guelfi per sì fatto modo, che gli
ruppono, e senza ritegno gli seguitarono uccidendone quanti giugnere ne
poteano. E in questa rotta furono morti venticinque cittadini di nome
e assai più degli altri, e molti per campare si gittarono nel fiume, e
sommersi annegarono in quello. I ghibellini seguendo loro avventurato
caso cacciarono i rettori che v’erano per lo re Luigi, e rimasi signori
della città riformarono il reggimento di quella a loro volontà, e per
questa novità di Rieti furono cacciati di Spoleto i caporali guelfi che
v’erano, ma non con battaglia nè a furore di popolo.


LIBRO QUARTO
_Comincia il quarto libro, e prima il Prologo._

CAPITOLO PRIMO.
Assai si può alcuna volta comprendere per gli effetti delle cose
mondane, che il senno aggiunto alla nobiltà dell’animo, all’altezza
dello stato, alla ricchezza e potenza reale, operato con piena
provvidenza, fornito e apparecchiato di grandissime forze, non puote
pervenire nè acquistare, eziandio con sommo studio e con lieve
resistenza quelle cose che con giusta causa l’appetito ha richiesto, le
quali, volto il tempo pochi anni, e mutato il principe per successione,
con certo mancamento di tutte le predette cose, per altre non
provvedute vie della variata fortuna, trovarsi lievemente vittorioso in
quelle. Onde presumere certa confidenza di se, per senno, o per virtù,
o per potenza, alcuna volta con grave turbazione d’animo si trova
ingannato; perocchè non è in potestà degli uomini il consiglio e la
volontà di Dio. E avendoci già condotta la sua materia al cominciamento
del quarto libro, alcuno certo e manifesto esempio alle predette cose
in prima ci s’offera a raccontare.

CAP. II.
_Comparazione dal re Ruberto al re Luigi._
Manifesto fu appresso la morte del re Ruberto di Gerusalemme e di
Cicilia, il quale avea regnato trentatrè anni e mesi, il cui pari ne’
suoi tempi tra’ principi de’ cristiani non si trovò di sapienza e
d’intelletto, in virtù e in vita onesta, e in adornamento di bellissimi
costumi, pieno di ricchezze, fornito di grande e nobile cavalleria di
suoi baroni e sudditi, apparecchiato di navili sopra gli altri signori,
avendo dirizzato l’animo con sommo studio a racquistare l’isola di
Cicilia, la quale di ragione s’apparteneva alla sua signoria come
principale membro del suo reame, con continovi trattati, con spessi e
diversi assalimenti, con generali armate, guidate dalla sua persona,
e dal figliuolo e da altri, di centoventi e di centosessanta galee,
con molto altro navilio per volta e di più e di meno, con duemila e
più cavalieri per armata alcuna volta e popolo senza numero, per molti
anni cercato di racquistare la detta isola, o d’avere alcuna terra
o porto in quella per potere alquanto appagare l’animo suo, la qual
cosa fatta mai non gli venne con alcuna perfezione; e il re Luigi
suo nipote intitolato di quel medesimo regno da santa Chiesa, povero
d’avere e di consiglio, e non ubbidito da’ suoi regnicoli, impotente di
gente d’arme, mal destro a potere reggere o guardare il suo reame, non
che avesse potuto cercare a racquistare suo reame della Cicilia, non
sufficiente d’armare dieci galee, nè di reprimere un solo suo barone
a quel tempo; ma le divisioni e sette crudeli e mortali de’ baroni
dell’isola, Catalani e Italiani, come già è detto, aveano a tanto
condotto l’isola, che di gran parte fu fatto signore, come appresso
racconteremo.

CAP. III.
_Come gran parte dell’isola di Cicilia venne all’ubbidienza del re
Luigi._
Avendo raccontato addietro molte volte del male stato dell’isola di
Cicilia, al presente ci occorre a dire come per la detta cagione don
Luigi figliuolo di don Pietro, a cui s’appartenea d’essere signore,
avea trattato accordo col re Luigi, ed erano venuti a concordia che
si dovesse nominare re di Trinacria, e riconoscere la Cicilia dal re
Luigi e fargliene omaggio, e dargliene ogni anno certa somma sopra il
censo della Chiesa per suo omaggio; e a questo s’erano accordati, ma
non aveano ancora piuvicata la pace nè fatte l’obbligazioni. In questo
stante, il conte Simone di Chiaramonte capo della setta degl’Italiani,
il quale aveva in sua forza molte città e castella dell’isola, avendo
anche lungamente tenuto trattato col re Luigi acciocchè la concordia
del re non si facesse, pervenne al suo trattato con l’opere. Ed essendo
allora l’isola in gran fame, promise a’ suoi soccorso di vittuaglia e
forte braccio alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono,
e il re Luigi si fermò con lui. E facendo suo isforzo, mandò messer
Niccola Acciaiuoli grande siniscalco, ch’era stato menatore di questo
trattato, con cento cavalieri e con quattrocento fanti di soldo in su
l’isola, con sei galee e due panfani, e tre legni di carico, e trenta
barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia. Prima fu dato
loro il forte castello di Melazzo, ove lasciò cinquanta cavalieri e
cento fanti, e appresso con tutto il navilio e col resto della gente
dell’arme se n’andò a Palermo, e con gran festa fu ricevuto da’
Palermitani, che per fame più non aveano vita, e prese la signoria
della città di Palermo e la guardia del castello con quella gente
ch’egli avea, e delle castella e del suo distretto. E incontanente
le sette degl’Italiani fece rubellare a don Luigi e alla parte de’
Catalani, e seguirono quelli di Chiaramonte, dandosi al re Luigi la
città di Trapani, e quella di Saragozza, Girgenti, la Licata, Mazzara,
Marsala, Castro Gianni, e molte altre terre e castella, che in tutto
furono tra città e buone terre e castella centododici, alle quali il
detto re Luigi per povertà di gente e di danari non potè mandare aiuto
d’alcuna forza di gente d’arme oltre a quella ch’era in Palermo e in
Melazzo; ma tanta era l’impossibilità dell’altra parte, che la cosa
rimase senza movimento di altra gente alcuno tempo. Alla parte del
re Luigi rispondeva la Calabria, portando loro vittuaglia ond’elli
aveano gran bisogno, e questo gli sostenea in fede col detto re Luigi.
È vero che fu biasimato di non avere tenuto fede a don Luigi del
trattato ch’avea fatto con lui per pace dell’isola, e la scusa del re
fu, dicendo, che non gli avea attenuti i patti. Il vero rimase nel
suo luogo, e il fatto seguì come narrato abbiamo. Questa novità fu
nell’isola a dì 17 d’aprile 1354.

CAP. IV.
_Come l’arcivescovo cominciò guerra contro a’ collegati di Lombardia._
Vedendo l’arcivescovo di Milano che il comune di Vinegia avea rannodata
e riferma la lega tra i Lombardi, innanzi che fossono forniti di
gente d’arme, essendone egli a destro, fece muovere da Parma duemila
barbute e gran popolo e scorrere infino a Modena, per tornare addietro
e assediare Reggio; e nel Modenese trovarono cavalieri della lega
ch’andavano a Reggio i quali tutti presono. E tornati a Reggio,
l’assediarono del detto mese d’aprile, e all’assedio stettono poi
lungamente con più bastite, e quelli della lega per lungo tempo non
ebbono podere di levarlone; ma la città sostennono e difesono, sicchè
non l’ebbe.

CAP. V.
_Come il re d’Ungheria passò con grande esercito contra un re de’
Tartari._
In quest’anno e in questo medesimo tempo, Lodovico re d’Ungheria
accolse suo sforzo, e di quello di Pollonia e di quello di Prosclavia
suoi uomini, e apparecchiato grande carreggio di vittuaglia, con
dugento migliaia di cavalieri andando quindici dì per luoghi diserti
con grande travaglio, passò nel reame d’un gran re della gesta de’
Tartari. E giunto nel reame di colui, essendo per cominciare a fare
danno nel paese, il re di quello paese, ch’era assai giovane, mandò
pregando quello d’Ungheria che gli desse licenza che con poca compagnia
potesse venire a lui sicuramente, e impetrata la licenza, venne a lui
con cento baroni molto adorni riccamente apparecchiati; e fatta la
riverenza, domandò il re d’Ungheria perchè egli era venuto con forza
d’arme nel suo reame, e quello ch’e’ volea da lui. Il re gli disse,
ch’era venuto sopra lui perchè non era cristiano, e che volea tre cose:
la prima, che divenisse cristiano con la sua gente: la seconda, che lo
riconoscesse per suo maggiore: la terza, che in segno d’omaggio gli
desse ogni anno certo tributo, ed egli sarebbe suo protettore. E il
giovane disse: vedi re d’Ungheria, la mia forza è troppo maggiore della
tua, solo del mio reame senza l’aiuto de’ miei maggiori; e faccioti
certo, che condotto se’ in parte, che s’io volessi gran vittoria potrei
averla di te e della tua gente: ma perocch’io ho animo di divenire
cristiano, accetto di volere fare le tue domande, e intendo di farle
a tempo col tuo aiuto e del papa; e rimasi in concordia, fece grande
onore al re d’Ungheria, e accompagnollo fino a’ confini del suo reame.
Ma in quello venire, per invidia i grandi baroni d’Ungheria non gli
feciono onore, per impedire che il loro re per l’acquisto di costui non
divenisse grande di soperchio, e fu materia di grande sconcio del buon
volere ch’aveva il re de’ Tartari, e dell’intenzione del re d’Ungheria.

CAP. VI.
_De’ grilli ch’abbondarono in Barberia e poi in Cipri._
In quest’anno abbondarono in Barberia, a Tunisi e nelle contrade vicine
tanta moltitudine di grilli che copersono tutto il paese, e rosono e
consumarono tutte l’erbe vive che trovarono sopra la terra, e del puzzo
che uscia della loro corruzione si corruppe tanto l’aria del paese,
che ne seguitò grande mortalità negli uomini, e gran fame a tutta la
provincia. E questa medesima pestilenza di grilli nel seguente anno
occupò l’isola di Cipri per sì sconcio modo, che le strade e i campi
n’erano pieni, alti da terra un mezzo braccio e più, e guastarono ciò
che v’era di verde. E per cessare la pestilenza della loro corruzione
il re fece per decreto, che ogni uomo grande e popolare, barone e
prelato, cittadino e contadino, ne dovesse rassegnare certa misura
agli ufficiali eletti sopra ciò per lo re, i quali feciono fare per
campi grandi fosse, ove gli metteano e ricoprivano. E per questa legge
i villani si dispuosono a fare loro civanza, e patteggiarono con gli
uomini ch’aveano a fare il servigio che comandato e imposto gli era,
e aveano della misura certo prezzo, e rassegnavanli per nome di colui
che gli avea pagati agli uficiali deputati sopra ciò, i quali teneano
il conto di catuno; e durò questa maladizione in quell’isola parecchi
anni. Con tutto l’argomento che fu utilissimo ad alleggiare i campi e
cessare la corruzione, fu grande noia e confusione a tutto il paese.

CAP. VII.
_D’una notabile maraviglia della reverenza, della tavola di santa Maria
in Pineta._
Essendo per influenza di costellazione e di segni avvenuti in cielo
in quest’anno continovato tre mesi o più, nel tempo che le biade
hanno maggiore bisogno delle piove, continovato secco, erano quelle
già in tutta Toscana aride e in estremi, da sperare sterilità e
fame: i Fiorentini temendo di perdere i frutti della terra ricorsone
all’aiutorio divino, facendo fare orazioni e continove processioni
per la città e per lo contado, e quante più processioni si faceano
più diventava il dì e la notte sereno il cielo. I cittadini vedendo
che questo non giovava, con grande divozione e speranza ricorsono
all’aiuto di nostra Donna, e feciono trarre fuori l’antica figura di
nostra Donna dipinta nella tavola di santa Maria in Pineta, e a dì 9 di
maggio 1354, fatto apparecchiamento per lo comune di molti doppieri, e
mosso il chericato con tutte le religioni, col braccio di messer san
Filippo apostolo, e con la venerabile testa di san Zanobi, e con molte
altre sante reliquie, quasi tutto il popolo uomini e donne e fanciulli,
co’ priori e con tutte le signorie di Firenze, sonando le campane del
comune e delle chiese a Dio lodiamo, andarono incontro alla detta
tavola infino fuori della porta di san Piero Gattolino: e la detta
tavola guardavano e conducevano quelli della casa de’ Buondelmonti
padroni della detta pieve reverentemente con gli uomini del piviere. E
giunto il vescovo con la processione, e con le reliquie e col popolo
alla santa figura, con grande reverenza e solennità la condussono
fino a san Giovanni, e di là fu condotta a san Miniato a Monte, e poi
riportata nel suo antico luogo a santa Maria in Pineta. Avvenne, che in
quella giornata continovando la processione il cielo empiè di nuvoli,
e il secondo dì sostenne il nuvolato, che per molte volte prima s’era
continovo per la calura consumato, il terzo dì cominciarono a stillare
minuto e poco, e il quarto a piovere abbondantemente, e conseguì l’uno
dì appresso l’altro sette dì continovi un’acqua minuta e cheta che
tutta s’impinguava nella terra, in singolare e manifesto beneficio di
quello che bisognava a racquistare le biade e’ frutti; e non fu meno
mirabile dono di grazia per l’ordinata e utile piova, che per la piova
medesima. Avvenne, che dove si stimava sterilità grande per la ricolta
prossima a venire, conseguì ubertosa di tutti i beni che la terra
produce.

CAP. VIII.
_Come il vicario di Bologna mando l’oste sopra Modena con due quartieri
di Bologna._
Essendo cominciata la guerra tra l’arcivescovo e la lega de’ Lombardi,
messer Giovanni da Oleggio vicario dell’arcivescovo nella città di
Bologna, a dì 11 di maggio del detto anno, mandò sopra la città di
Modena ottocento cavalieri di soldo, e due quartieri di Bologna,
i quali v’andarono sforzati e di mala voglia; e da Parma vi mandò
l’arcivescovo duemila barbute; e giunti a Modena corsono il paese,
ardendo e guastando il contado, e poi si puosono ad assedio alla città
molto di presso. Ed essendovi stati fino all’uscita di maggio, temendo
della gran compagnia di fra Moriale ch’era in Toscana, e davano voce
d’andare a Bologna, subitamente abbandonarono l’assedio, e sconciamente
con alcuno danno tornarono a Bologna e a Parma, avendo a’ Modenesi
fatto danno assai.

CAP. IX.
_Come il legato e i Romani guastarono il contado di Viterbo._
Del detto mese di maggio, del detto anno, vedendo il legato la
contumacia e la malizia del prefetto da Vico, e che la sua superbia
ogni dì montava in vergogna di santa Chiesa, provvide che contro a
lui bisognava altre operazioni che suono di campane e fumo di candele
spente. E però accolse gente d’arme, tanto ch’ebbe milletrecento
cavalieri di soldo, e richiese il popolo di Roma per fare il guasto
sopra la città di Viterbo, i quali Romani per grande animo ch’aveano
di fare danno a’ Viterbesi, essendo la gente del legato sopra Viterbo,
vi mandarono diecimila uomini, e aggiunti con le masnade del legato,
in pochi dì feciono assai gran danno intorno a Viterbo. E saziata in
parte la volontà del popolo romano si tornarono a Roma: e il legato
abbattuto alcuna parte dell’orgoglio del prefetto, e conturbato l’animo
de’ cittadini contro al tiranno, se ne tornò con la sua gente a
Montefiascone senza alcuno impedimento.

CAP. X.
_Come il prefetto s’arrendè al legato liberamente._
Il legato del papa avendo fatto guastare intorno a Viterbo, seguendo
d’abbattere il prefetto, sentendolo in Orvieto vi cavalcò con tutta la
sua gente d’arme, e pose l’assedio alla città strignendola intorno con
più battifolli, facendo correre ogni dì infino alle porti. Il prefetto
che v’era dentro mal veduto da’ cittadini, ed avea cercato di volere
dare per moglie la figliuola sua al fratello di fra Moriale con gran
dote per avere aiuto della sua compagnia, e averne perduta la speranza
d’ogni altro soccorso, si pensò per l’odio che i cittadini d’Orvieto e
di Viterbo gli portavano che un dì a furore di popolo sarebbe morto o
dato preso al legato, e tosto gli sarebbe venuto fatto per la piccola
forza che da se avea, e perchè gli Orvietani erano guelfi e uomini di
santa Chiesa, e mal volontieri sosteneano l’assedio, per la qual cosa
come uomo savio e avveduto de’ casi del mondo, non sapendo vedere altro
rimedio a’ fatti suoi, si dispose a volere accordo col legato, e per
questo acchetò gli animi de’ cittadini; e incontanente mandò al comune
di Perugia che mandassono alcuno ambasciadore al legato, che per le
loro mani voleva fare l’accordo con lui. Il comune vi mandò solenni
ambasciadori a ciò fare, ma il legato altre volte ingannato da lui e
da’ suoi baratti non li volle udire, e con ogni sollecitudine stringeva
la terra più l’un dì che l’altro, e a niuno patto si voleva recare
col prefetto. E stringendo la paura il prefetto, mandò il figliuolo
al legato dicendo, che gli piacesse venire per la città, e ricevere
il prefetto senza alcuno patto alla sua misericordia. L’altra mattina
venne il legato colla sua gente a Orvieto, e il prefetto a piede con
molti cittadini gli venne incontro fuori della città bene un miglio, e
giunto a lui, si gittò a’ piedi del cavallo ginocchione domandandogli
misericordia, rendendo se e tutte le terre che teneva di santa Chiesa
alla sua volontà. Il legato il fece stare alquanto ginocchione, e
poi gli comandò che montasse a cavallo, e montato dietro a lui se
n’entrarono in Orvieto, ove il legato fu ricevuto con grande festa e
allegrezza da’ cittadini. E appresso mandò il legato a Viterbo, e fugli
renduta la città e le castella, e così tutte l’altre terre che tenea
il prefetto, e il prefetto e ’l figliuolo rimasono appresso del legato
col loro patrimonio, e oltre a ciò gli diè il legato per certo tempo la
signoria della città di... terra di buona rendita per la pastura delle
bestie.

CAP. XI.
_Come il popolo di Bologna si levò a romore per avere loro libertà, e
fu in maggiore servaggio._
Del mese di giugno del detto anno, messer Giovanni da Oleggio vicario
di Bologna essendo assicurato de’ fatti della compagnia intendeva
di riporre l’oste a Modena, e fece comandamento a due quartieri
di Bologna che s’apparecchiassono dell’armi, e a mille uomini di
catuno degli altri due quartieri, per andare nell’oste a Modena. I
cittadini si gravavano di questo fatto per due cagioni, l’una, perchè
parea loro troppo aspro servaggio essere mandati nell’oste a modo di
soldati senza soldo, e l’altra, che que’ di Modena erano loro vicini
e antichi amici. E però venuto il termine assegnato, il signore fece
sollecitare la gente co’ suoi bandi e stormeggiare le campane, ma
però niuno s’armava o facea vista di volere andare, e reiterati i
bandi con grandi pene, cominciò il popolo a mormorare, e appresso a
dolersi l’uno con l’altro nelle vie e nelle piazze. In questo stante
cominciarono alcuni a gridare popolo popolo; e udito il romore catuno
prese l’arme, e gran parte del popolo trasse a casa i Bianchi. Il
dì era venuto da ricoverare loro franchigia: perchè sentendo messer
Giovanni da Oleggio il popolo armato contro a se impaurì sì forte,
che non sapea che si fare, e racchiusesi nel suo castello. I soldati
forestieri non faceano resistenza al popolo armato e commosso, e gran
parte avrebbe seguito il popolo per paura di loro; nondimeno per non
essere morti nè rubati nella terra, si ridussono e ingrossavano alla
fortezza del tiranno, essendo il popolo a casa i Bianchi. Messer Iacopo
uomo di grande autorità, pro’ e ardito, capo di quella casa, montato a
cavallo armato, e inviato verso la piazza col popolo, ove non avrebbe
trovato contasto, che non v’era, e il popolo avrebbe preso ardire, e
cacciato il tiranno, e assediatolo nel castello e presolo, che non
v’era rimedio, e quella città tornava in libertà, ma non erano ancora
puniti i loro peccati. E però avvenne, che andando messer Iacopo de’
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