Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 09

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Bianchi col popolo infocato verso la piazza, il genero di messer Iacopo
gli si fece incontro maliziosamente, ch’era de’ rientrati in Bologna,
e amava il tiranno, e con mendaci parole gli mostrò, che l’andare alla
piazza era di gran pericolo a lui e al popolo. Il cavaliere invilì
dando fede alle parole del genero, e diè la volta, e tornossi a casa, e
il popolo perdè e raffreddò il furore, e cominciò catuno ad abbandonare
le vie e le piazze ov’erano ragunati per le vicinanze, e tornarsi
alle proprie case. Il Bocca de’ Sabatini e altri di nuovo tornati
in Bologna per paura de’ loro avversari cittadini presono l’armi, e
montarono a cavallo e andarono al tiranno, dicendo, che ’l furore del
popolo era tornato in paura, e che avendo le sue masnade a cavallo e a
piè correrebbono la terra senza trovare contasto. Il tiranno vedendo
questi cittadini prese ardire, e diè loro cavalieri e masnadieri, e
rimasesi nel castello in buona guardia. Costoro corsono la terra,
gridando, viva il capitano, e in niuna parte trovarono resistenza o
contasto, ma vilissimamente i cittadini posono giù l’armi. Il signore
ripreso l’ardire sentendo disarmato il popolo, mandò sue genti a casa
i Bentivogli capo de’ beccari, ch’erano di gran podere nel popolo, e
presine alquanti di loro fece rubare le case, e gli altri si fuggirono.
Appresso mandò e fece pigliare messer Iacopo de’ Bianchi e un altro suo
consorto, e molti altri grandi cittadini, e senza troppa dilazione o
processi fece a messer Iacopo e al consorto tagliare la testa: e questo
gli avvenne per voler credere al consiglio del genero più che alla sua
apparecchiata salute e del suo popolo; appresso fece decapitare uno
de’ Gozzadini valente uomo, e a più de’ Bentivogli e ad altri grandi
popolani, che in tutto a questa volta furono trentadue, e molti ne
ritenne in prigione, de’ quali parte ne condannò in danari, e un’altra
a’ confini come a lui piacque. E avendosi cominciato a involgere nel
cittadinesco sangue, divenne crudele e di maggiore furore contro a’
suoi sudditi; onde i cittadini temeano sì forte, che non ardivano a
pena nelle loro case a favellare. Nondimeno per lo caso avvenuto, a
lui entrò tanta paura in corpo, che molti mesi stette rinchiuso nel
castello, e continuava ad accrescere gente, e fare maggiore guardia
nella città, e i cittadini tenea sotto più aspro giogo, come leggendo
si potrà trovare.

CAP. XII.
_Come fu tolta l’arme al popolo di Bologna._
Pochi dì appresso il tagliamento de’ cittadini di Bologna, il tiranno
mandò per la città che in fra certi dì a venire catuno cittadino
di Bologna portasse tutte le sue armi nella chiesa di san Piero, e
rassegnassele agli uficiali che sopra ciò avea deputati, sotto certa
pena a chi nol facesse: il vile popolo, che l’armi non avea saputo
adoperare per sua salute, con tanta fretta le portò alla chiesa,
che gli uficiali deputati a riceverle non poteano comportare la
calca. E il tiranno conosciuti gli uomini tornati peggio che pecore
per la loro codardia gli trattò aspramente, e fece due quartieri di
Bologna costringere ad andare alle loro spese nell’oste senz’arme,
e là dovessono stare quindici dì, tanto che gli altri due quartieri
gli andassono a scambiare, e di presente fu ubbidito, andandovi ogni
maniera di gente con le mazze in mano; e quando gli ebbe così mossi,
mutò proposito temperando la crudeltà in avarizia, e fece ordine che
chi non vi volesse andare pagasse lire tre di bolognini per gita di
quindici dì; e costrinse tutta la città con certo ordine penale, che
chi non osservasse catuno dovesse manicare pane di gabella, il quale
facea fare aspro e forte, nè altro pane non s’osava fare nè cuocere
nella terra, ond’egli traeva molti danari. E allora avendo tra di que’
di Bologna e che gli mandò l’arcivescovo duemila cavalieri e popolo
assai, da capo ripose l’assedio alla città di Modena, e i Modenesi
essendo forniti di cavalieri e di pedoni alla guardia, e d’abbondanza
di vittuaglia, si stavano a guardare le mura, attendendo il soccorso di
quelli della lega.

CAP. XIII.
_Come il legato ebbe la città d’Agobbio._
Di questo mese di giugno del detto anno, ragunatisi insieme gli
usciti d’Agobbio con loro amistà per andare a guastare il contado
d’Agobbio, richiesono il legato d’aiuto; il legato comandò loro che
non si movessono senza suo comandamento, dicendo, che non sarebbe
onore di santa Chiesa ch’egli assalisse prima la città ch’egli la
trovasse in colpa di disubbidienza o di ribellione: e però incontanente
fece formare processo contro a Giovanni di Cantuccio il quale
tirannescamente avea occupata quella terra, e mandogli comandando
che restituisse la città d’Agobbio a santa Chiesa senza dilazione,
altrimenti aspettasse la sentenza contro a se, e l’oste sopra la
città senza indugio. Giovanni sentendosi povero di danari, e senza
gente d’arme da potersi difendere, e odiato da’ cittadini dentro, e
senza speranza di soccorso di fuori, e vedendo il legato potente e
vittorioso, prese partito, e rispose, ch’era apparecchiato a ubbidire,
e così fece; e il legato mandò a prendere la guardia e la signoria
della città il conte Carlo da Doadola, e fecevelo suo vicario, il quale
con pace fu ricevuto nella città a grande onore. E presa la signoria
della terra vi rimise gli usciti senza niuno scandalo, salvo messer
Iacopo Gabbrielli come gli fu imposto, perocch’era grande e sentia del
tiranno. Giovanni si presentò al legato, e rimase appresso di lui, e
messer Iacopo ch’era suo nemico stando fuori d’Agobbio prendea sue
civanze nelle rettorie, malcontento di non potere ritornare in Agobbio.
La città fu riformata in libertà del popolo al governamento di santa
Chiesa, come per antico si solea governare.

CAP. XIV.
_Come i Perugini non tennono fede a’ Fiorentini e’ Sanesi._
Tornando nostra materia a’ fatti della compagnia di fra Moriale la
quale avea vernato nella Marca, temendo i comuni di Toscana ch’ella
non si stendesse sopra loro sprovveduti, s’accolsono insieme a
parlamento per loro ambasciadori, il comune di Firenze, e di Perugia,
e quello di Siena, e feciono e fermarono lega e compagnia contro la
detta compagnia, e taglia di tremila cavalieri; e perocch’ell’era
più vicina a Perugia, i Fiorentini mandarono la maggior parte de’
cavalieri che toccava loro della taglia, e metteano in concio di
mandare loro il rimanente, e così aveano fatto i Sanesi, per riparare
ch’ella non entrasse in Toscana. In questo tempo, del mese di giugno
del detto anno, la compagnia fu a Fuligno, e senza fare danno, ebbono
dal vescovo che n’era signore derrata per danaio, e licenza d’entrare
nella città senz’arme chi volea panni, o arnese o armadure comperare,
e ivi si rifornirono d’armadure e di molte altre cose di che aveano
grande bisogno. E stando ivi, mandarono cautamente per rompere la lega
loro ambasciadori a Perugia, dicendo, che gli aveano per amici, e non
intendeano di volere da loro se non vittuaglia derrata per danaio,
e il passo per lo loro terreno. I Perugini vedendosi potere levare
la compagnia da dosso senza loro danno, ruppono la fede della lega
promessa a’ Fiorentini e a’ Sanesi, e senza significare loro alcuna
cosa, o rimandare addietro i cavalieri a’ detti comuni ch’aveano
della taglia, s’accordarono con la compagnia, e diedono il passo e la
vittuaglia abbondantemente. Messer fra Moriale vedendosi avere rotta
la lega de’ comuni, baldanzosamente venne verso Montepulciano con la
sua compagnia, e prese la via per Asciano, ed entrò molto subitamente
nel contado di Siena, predando e pigliando uomini e bestiame. I
Sanesi vedendo la compagnia sul loro contado non attesono alla lega
ch’avessono co’ Fiorentini, nè a domandare loro aiuto o consiglio, ma
di presente elessono de’ loro cittadini ch’andassono a fra Moriale e
agli altri maggiori della compagnia a prendere accordo con loro, i
quali di presente promessono a’ caporali in segreto per le loro persone
fiorini tremila d’oro, e in palese per la compagnia ne promisono
tredicimila, e la vittuaglia derrata per danaio, e il passo per lo
loro terreno. Questa è la fede che ora e molte altre volte il comune
di Firenze ha trovata nelle leghe o compagnie c’ha fatto co’ suoi
vicini, che trovando loro vantaggio lo s’hanno preso. E dolendosene
poi il comune di Firenze a Perugia e a Siena, hanno risposto, che il
comune di Firenze non dee guardare a’ loro difetti, ma avere senno
e per se e per loro. Siamo contenti di ricordarlo qui e altrove per
esempio di quello che ancora ne potrà avvenire. Fornito per lo comune
di Siena il pane che domandarono, e dati de’ loro cittadini a conducere
la compagnia, presa la via per Monte a san Savino, condussonli in sul
contado d’Arezzo. E non trovando con gli Aretini modo d’avere danari,
s’accordarono con loro d’avere panno e vestimento, e calzamenti e vino
per li loro danari, perocchè n’aveano grande bisogno, e sicurarono
il contado, e senz’arme entrarono nella terra per le dette cose; non
riguardando però le biade de’ campi per li loro cavalli, nè l’altre
cose che potessono giugnere, senza fare gualdane o saccomanno.

CAP. XV.
_Come procedettono i rettori di Firenze in questa sopravvenuta tempesta
della compagnia di fra Moriale._
In questo tempo si trovò fornito il comune di Firenze al priorato
d’uomini senza sentimento di virtù, golosi e sopra ogni sconvenevolezza
corrotti nel bere, e massimamente de’ nove i sei. Costoro disordinati
in se, non sapeano provvedere al soccorso del comune; tuttavia per
gli altri collegi fu provveduto in fretta di fare lega e compagnia
co’ Pisani, per prendere riparo contro alla compagnia, e dovea il
comune di Firenze avere in taglia milledugento cavalieri, e i Pisani
ottocento. E fatta la lega, catuno avea quasi il novero de’ suoi
cavalieri. La compagnia essendo ad Arezzo avea in animo d’andare al
soldo in Lombardia, e per questa cagione mandarono alcuno ambasciadore
al comune di Firenze per avere titolo d’essere in accordo col detto
comune, e lieve cosa che ’l comune avesse dato loro sarebbono stati
contenti per seguire loro viaggio: i priori indiscreti se ne feciono
beffe, e però non provvidono come con tanto fatto richiedea. Ma
i Valdarnesi per paura della ricolta, non ostante che ancora non
fosse in perfetta maturità, s’affrettarono di levarla de’ campi e
riducerla nelle castella; e la frontiera del Valdarno fu fornita di
cavalieri e di fanti assai bene alla guardia. La compagnia vedendo
che i Fiorentini per lieve cosa non si voleano accordare con loro,
cambiarono proponimento, e vedendo che il Valdarno era provveduto
contra loro, si tornarono a Siena. I Sanesi diedono loro da capo il
pane, e il passo e la guida di loro cittadini, e in calen di luglio
del detto anno l’ebbono condotta ne’ borghi di Staggia, e ivi si
stesono fino alla Badia a Isola sopra l’Elsa. Là si trovarono settemila
paglie di cavalieri, che cinquemila o più erano in arme cavalcanti,
fra i quali avea grande quantità di conestabili e di gentili uomini
diventati di pedoni bene montati e armati, con più di millecinquecento
masnadieri italiani, e oltre a costoro più di ventimila ribaldi e
femmine di mala condizione seguivano la compagnia per fare male, e
pascersi della carogna. E nondimeno per l’ordine dato loro per fra
Moriale grande aiuto e servigio n’avea, principalmente i cavalieri e’
masnadieri, e appresso tutto l’esercito. Le femmine lavavano i panni
e cocevano il pane, e avendo catuno le macinelle, che fatte avea loro
fare di piccole pietre, catuno facea farina, e per questo l’oste si
mantenea incredibilmente in abbondanza di farina e di pane, solo per la
provvisione e ordine dato per fra Moriale.

CAP. XVI.
_Come si provvedde a Firenze contra la compagnia._
Essendo la compagnia a Staggia, i Fiorentini richiesono i Pisani della
taglia loro per la lega fatta, che doveano essere ottocento cavalieri,
e mandarono un loro cittadino con un gran gonfalone con meno d’ottanta
barbute; e richiesti ancora i Perugini e’ Sanesi di cavalieri della
taglia, o almeno d’alcuna parte d’aiuto, catuno comune rispose ch’erano
d’accordo con la compagnia, e non manderebbono gente d’arme contro a
quella: e vedendosi il comune da tutti gli amici ingannato, e da non
potere resistere alla compagnia, fece suoi ambasciadori e mandolli a
Staggia alla compagnia per accordarsi e dare loro danari, ed eglino
non entrassono sul contado di Firenze. Giunti gli ambasciadori a
fra Moriale e al suo consiglio, furono ricevuti da loro senza avere
risposta; e incontanente a dì 4 di luglio si misono in via, e senza
arresto furono ne’ borghi di san Casciano, e correndo le contrade
d’attorno, facendo preda e ardendo ove a loro piacea senza trovare
contasto, e stettono fino a dì 10 del detto mese senza venire ad
accordo; allora fatti doni a’ caporali di fiorini tremila d’oro,
vennono a composizione di dare alla compagnia venticinquemila fiorini
d’oro. Gli ambasciadori pisani, innanzi che la tempesta rompesse
sopra loro, al detto luogo di san Casciano s’accordarono con loro di
dare fiorini sedicimila d’oro, e a’ caporali feciono doni. E avuta la
condotta da’ Fiorentini per la Val di Robbiana, condotti a Leona ebbono
il pagamento de’ detti comuni, e fatta la promissione, e le cautele e
il saramento di non tornare in sul contado di Firenze nè di Pisa infra
due anni, se n’andarono alla Città di Castello, ove stettono tanto
ch’ebbono quello che restava a dare loro messer Malatesta da Rimini
capitano di Forlì, e Gentile da Mogliano, e partita tra loro la moneta,
presono la ferma d’essere con la lega di Lombardia contro al signore
di Milano per centocinquantamila fiorini in quattro mesi. E rifermata
e giurata da capo sotto i loro capitani s’avviarono in Lombardia, e
fra Moriale con licenza degli altri caporali accomandò la compagnia al
conte di Lando e fecenelo suo vicario, ed egli se n’andò a Perugia,
per provvedere come alla tornata della compagnia e’ potesse in Italia
maggior male aoperare, e da’ Perugini fu ricevuto onoratamente, e fatto
cittadino di Perugia.

CAP. XVII.
_Come fu morto messer Lallo._
Per larga sperienza di molti anni si vide, che messer Lallo
dell’Aquila, uomo di piccola nazione, per sua industria prima cacciati
gli avversari della città dopo la morte del re Ruberto tenne la
signoria della terra come un dimestico popolare e compagnevole tiranno,
e seppe sì piacevolmente conversare co’ suoi cittadini, che catuno il
desiderava a signore, e al tutto aveano dimenticata la signoria reale,
ma egli saviamente mantenea il titolo del capitanato della terra alla
corona, facendovi venire cui egli volea, nondimeno ciò che occorreva
di grave nella città tornava a ser Lallo. E non avendo il re podere
nella città più che ser Lallo si volesse, per molti modi in diversi
tempi cercò d’abbatterlo, e non gli venne fatto, e però cercò la via
de’ beneficii, e fecelo conte di Montorio, e diegli terre in Abruzzi,
ed e’ le si prese, e mostrò di volere fare dell’Aquila la volontà
del re; ma con astuzia e senno dissimulando col re tenea l’Aquila
continovamente al suo segno. E stando le cose in questi termini,
messer Filippo di Taranto fratello del re Luigi venne in Abruzzi, e
ricettato nell’Aquila da messer Lallo con grande onore, dopo alquanti
dì messer Filippo ragionò con messer Lallo, ch’egli farebbe rendere
pace a’ figliuoli di messer Todino suoi nimici, i quali erano sbanditi
dell’Aquila, e intendea fermare la pace con amore e con parentado,
e con grande istanza il pregò che li dovesse ricevere nell’Aquila
con buona pace. Messer Lallo sentendosi in grande amore co’ suoi
cittadini, mostrò di poco temere i suoi avversari, e di volere servire
messer Filippo accettando la pace e la loro tornata nell’Aquila.
Messer Filippo semplicemente con alcuni suoi scudieri li facea venire
in Aquila, ed essendo già presso alla città, il popolo si levò a
romore, e prese l’arme gridando, viva il conte, e corsono alle porte e
serraronle. Messer Filippo sentendo il romore temette di sè, ma messer
Lallo fu subitamente a lui, confortandolo e scusando sè, che questo
non era sua fattura ma del popolo, per tema ch’avea de’ figliuoli di
messer Todino se rientrassono in Aquila. Messer Filippo turbato di
questo baratto si mise in concio di partire, e la mattina vegnente fu
in cammino. Messer Lallo accompagnandolo s’allungò dalla città tre
miglia, offerendosi a messer Filippo e scusandosi del caso avvenuto; e
volendosi tornare all’Aquila, e prendere congio da messer Filippo, per
fargli la reverenza all’usanza reale scese del suo cavallo, e com’era
ordinato, parlando messer Filippo con lui, e usando parole di minacce,
uno scudiere il fedì d’uno stocco, e un altro appresso, e ivi a’ piè di
messer Filippo fu morto messer Lallo per troppa confidanza, perdendo il
senno e la malizia tanto tempo usata nel suo reggimento. Messer Filippo
non s’arrestò per tema di quel popolo e del suo furore, ma senza alcuno
soggiorno tornò a Napoli, e gli Aquilani feciono gran lamento della
morte di messer Lallo, ma non essendovi il secondo, ritornarono senza
contasto alla consueta signoria reale; e questo avvenne di giugno 1354.

CAP. XVIII.
_Come il re di Spagna cacciata la non vera moglie coronò la legittima._
In questo tempo del detto anno, avendo il giovane re di Spagna per
moglie la figliuola di messer Filippo di Borbona della casa di Francia,
lasciandosi vincere e menare al disordinato appetito, avendola già
tenuta un anno, corruppe il degno sagramento del matrimonio, e
seguitando il modo de’ bestiali saracini con cui conversava, prese
per sua moglie e sposò un’altra donna cui egli amava, nata della
casa di Padiglia di Castella, chiamata Maria, con la quale si copulò
con tanta disordinata concupiscenza carnale, che molte dissolute e
sconce cose ne faceva, e la legittima moglie non volea vedere; la
quale vedendosi a sconcio partito, prese segretamente sue damigelle e
alquanti confidenti di sua famiglia, e senza saputa del re si tornò
in Francia, richiamandosi al re, e al padre e agli altri baroni
dell’ingiuria ricevuta dal suo marito; e udita in Francia la sconcia
novella, il re e tutti i baroni se ne sdegnarono forte, e proposono
d’andare in Spagna con forte braccio per gastigare il re della sua
follia. I baroni di Spagna e le comuni a cui dispiacea questo fatto,
sentendo le novelle di Francia, di concordia se n’andarono al re, e
ripresonlo duramente d’avere per sua sconcia volontà d’una privata
femmina fatta tanta vergogna alla casa di Francia e alla loro reina,
dicendogli, che se non ammendasse il suo fallo, che sarebbono in aiuto
al re di Francia per ricoverare il suo onore. Il giovane re riconobbe
il suo fallo, e disposesi di presente a seguitare il loro consiglio; e
alla non degna moglie, per appagare la legittima, le feciono tagliare
i panni per lungo infino alla cintola a loro costuma, e con vergogna
la mandarono via, e tornata la moglie, con gran festa feciono coronare
lei e pacificare col re, e quella notte giacque con la reina Bianca sua
moglie. Ma, o che fosse affatturato, o occupato nella mente del troppo
peccato, la mattina per tempo le si levò da lato, e senza fare assapere
altrui alcuna cosa cavalcò con piccola compagnia e andossene alla
terra dov’era dama Maria di Padiglia, e d’allora innanzi non volle mai
vedere la reina Bianca; e perch’ella non si partisse la fece mettere
in Briscia suo forte castello, e ivi bene guardare, la quale per grave
sdegno, o per dolore, o per malinconia, o per operazione del re, che ne
fu sospetto, o per malizia naturale, innanzi tempo nella sua giovanezza
finì sua vita, della quale il re ebbe più piacere che doglia, e
vilmente la fece seppellire. Avvenne ancora, che vivendo la reina e
dama Maria, il detto re Pietro, non senza sentimento della saracinesca
consuetudine, innamorato d’una giovane donna vedova di Castella di
grande lignaggio, la si prese a moglie; e quando con lei ebbe saziata
sua sfrenata libidine, la cacciò via, e ritennesi alla sua dama Maria,
della quale ebbe un figliuolo maschio e due femmine, e poi sopra
parto si morì, poco appresso della reina, di cui il re si diè grave
turbazione, e il corpo suo fece imbalsamare, e portare venticinque
giornate di lungi da Sibilia alla sepoltura ch’ella s’avea eletta, e
il re, e per amore del re i suoi baroni se ne vestirono a nero. Avemo
raccolto qui il processo della moglie e dell’altre femmine del re, per
non istendere in più parti del nostro trattato la vile materia.

CAP. XIX.
_Come i collegati di Lombardia condotta la compagnia mandarono
all’imperadore._
Il comune di Vinegia, e il signore di Verona, e quello di Padova, e
quello di Mantova, e il marchese di Ferrara, collegati insieme contro
l’arcivescovo di Milano, avendo condotta per quattro mesi la compagnia
del conte di Lando, la quale era cinquemiladugento paghe, ma non
avea oltre a tremilacinquecento cavalieri bene armati, la quale era
partita dalla Città di Castello, e cavalcata sul contado di Bologna
facendo danno, se n’andarono a Modena, dov’erano le bastite del
signore di Milano, le quali non ebbono podere di levare, e lasciatovi
l’assedio cavalcarono in sul Bresciano. I collegati vedendosi forniti
di gente da potere campeggiare, mandarono ambasciadori, del mese di
luglio del detto anno, all’eletto imperadore, con cui avevano fatto
accordo per farlo valicare in Lombardia contro all’arcivescovo di
Milano, e dove ricusasse la venuta, volevano essere liberi delle loro
promesse. In questo tempo l’imperadore era in discordia col marchese
di Brandimborgo, e catuno aveva accolto gente d’arme, e con l’eletto
era il duca d’Osteric e molti cavalieri del re d’Ungheria, e credettesi
si conducessono a battaglia: ma la questione avea lieve cagione di
sdegno, sicchè tosto si recò a concordia, e l’eletto imperadore per
l’animo ch’avea di valicare in Italia fu più abile alla pace, e ferma,
catuna gente d’arme si tornò in suo paese; e senza sospetto de’ fatti
d’Alamagna l’eletto si tornò in Boemia, e deliberò per lo modo che a
lui piacque di valicare in Lombardia, e con seco ritenne parte degli
ambasciadori della lega infino al suo movimento.

CAP. XX.
_Come i Bordoni furono cacciati di Firenze, e sbanditi per ribelli._
Era avvenuto del mese di Luglio del detto anno in Firenze, che essendo
la compagnia di fra Moriale a Sancasciano, i Bordoni, de’ quali era
capo messer Gherardo di quella casa, tenendosi essere ingannati da’
Mangioni e da’ Beccanugi loro vicini per lo dicollamento di Bordone
loro consorto, e vedendo la città sotto l’arme e in gelosia, con
loro gente accolta cominciarono prima con parole e poi con l’arme
ad assalire i Mangioni; e rimettendoli per forza nelle case, in
quell’assalto la moglie d’Andrea di Lippozzo de’ Mangioni ebbe d’una
lancia sopra il ciglio, ond’ella si morì poco appresso. A quello romore
corse d’ogni parte il popolo armato, e i priori vi mandarono la loro
famiglia, e feciono acquetare la zuffa. Poi partita la compagnia, e
ritornata la città al primo governamento, parendo al comune il fallo
essere grave in così fatto tempo contro alla repubblica, fu commesso
all’esecutore degli ordini della giustizia che ne facesse inquisizione,
e punisse i colpevoli; i Beccanugi e’ Mangioni andarono dinanzi e
scusaronsi, e furono prosciolti e lasciati, e i Bordoni rimasono
contumaci; e a dì 2 d’agosto, nel detto anno, messer Gherardo con
quattro suoi consorti e con dodici loro seguaci furono condannati, per
avere turbato il buono e pacifico stato del comune di Firenze e per
l’omicidio, tutti nell’avere e nelle persone, e uscironsi di Firenze, e
i loro beni furono guasti e messi tra i beni de’ rubelli.

CAP. XXI.
_Come il re d’Araona venne con grande armata a racquistare Sardegna._
Il re d’Araona, che l’anno dinanzi avea perduta tutta la Sardegna
salvo che Castello di Castro, come addietro fu narrato, fatta sua
armata di centosessanta tra galee e uscieri, cocche e navi armate, con
grande cavalleria di suoi Catalani e molti mugaveri a piede, del mese
di luglio del detto anno arrivò in Calleri, che altro non v’aveva,
e lasciato ivi il navilio grosso, e messi in terra i cavalieri e i
mugaveri, fece scorrere il paese e predare dovunque si stendeva, e con
le galee sottili per mare e i cavalieri per terra s’addirizzò alla
Loiera, nella quale aveva balestrieri genovesi, e masnadieri toscani
e lombardi, che il vicario dell’arcivescovo signore di Genova v’avea
mandati alla guardia, che francamente la difendevano e guardavano; e
continuandovi l’assedio, nondimeno per mare con le galee, e per terra
con la gente d’arme, faceano guerra all’altre terre e castella che
ubbidivano al giudice d’Alborea, e il giudice fornito de’ suoi Sardi
e di cavalieri condotti di Toscana si difendea francamente per modo,
che delle sue terre non gli lasciava alcuna acquistare: e aveva in
suo aiuto l’aria sardesca e ’l tempo della fervida state, che molto
abbattea i Catalani di malattie e di morte; non ostante ciò, il re
animoso mantenea l’assedio stretto, e facea tormentare molto i suoi
avversari; e bench’egli sapesse che i Genovesi suoi nimici avessono
armate trentadue galee, non se ne curava, perchè sapeva che i Veneziani
suoi amici contro a loro n’aveano armate trentacinque: e ancora gli
rendea molta fidanza la fresca vittoria ch’aveva avuta in quel luogo
co’ Veneziani insieme sopra i Genovesi, e però intendea coraggiosamente
a fare la sua guerra per terra e per mare. Lasceremo ora l’intrigata
guerra di Sardegna che il tempo vegna della sua fine, e seguiremo altre
novità che prima ci occorrono a raccontare.

CAP. XXII.
_Come i Genovesi feciono armata contro a’ Veneziani e’ Catalani._
Avendo sentito i Genovesi l’armata de’ Catalani, e che i Veneziani
armavano, avvegnachè per la sconfitta l’anno dinanzi ricevuta alla
Loiera molto fossono infieboliti, presono cuore da sdegno per non
dare la baldanza del mare al tutto al loro nimico, e però con aiuto
di moneta che procacciarono dall’arcivescovo loro signore armarono
trentatrè galee sottili, della migliore gente che rimasa fosse in
Genova e nella riviera, e fecionne ammiraglio messer Paganino Doria,
il quale altra volta avea avuto vittoria sopra i Catalani e’ Veneziani
in Romania. Costui sentendo che i Veneziani erano usciti del golfo con
trentacinque galee armate, mandò tre galee più sottili, e bene reggenti
e armate nel golfo di Vinegia, le quali improvviso a’ paesani giunsono
a Parezzo, e misono in terra; e trovando i terrazzani sprovveduti
e smarriti per lo subito assalto, s’entrarono nella terra, e senza
trovare contasto rubarono e arsono gran parte della città. Ed essendo
nel porto tre grossi navilii de’ Veneziani carichi di grande avere, gli
presono e rubarono, e ricolti a galee carichi di preda de’ loro nemici,
con grande vergogna de’ Veneziani tornarono sani e salvi alla loro
armata; la quale avendo lingua de’ Veneziani, prese la via di Romania
per abboccarsi con loro a battaglia, se fortuna il concedesse. L’armate
cavalcano il mare, e innanzi che insieme si ritrovino ci occorrono
altre non piccole cose.

CAP. XXIII.
_Come il tribuno di Roma fece tagliare la testa a fra Moriale._
Avvegnachè addietro detto sia dell’operazioni di fra Moriale innanzi
ch’egli facesse la grande compagnia, e poi quanto male aoperò con
quella, sopravvenendo il termine della sua morte, ci dà materia di
raccontare la cagione, com’egli essendo semplice friere condusse tanti
baroni, e conestabili e cavalieri a collegarsi sotto il suo reggimento
in compagnia di predoni. Costui fu in Italia lungo tempo soldato
franco cavaliere, e atto singolarmente a ogni fatica cavalleresca, e
molto avvisato in fatti d’arme, il quale considerò che tutte le terre
e’ signori d’Italia facevano le loro guerre con soldati forestieri,
e i paesani poco compariano in arme, e parve a lui che accogliendosi
i conestabili per via di compagnia, e partecipando con loro che
rimanevano al soldo, che in niuna parte troverebbono contasto in
campo: e avendo questo verisimile messo nel capo a molti conestabili,
l’uno smovea l’altro, e traevano gente di catuna bandiera che rimaneva
al soldo; e con quest’ordine, essendo in loro libertà, si pensavano
sottoporre e fare tributaria tutta Italia, e pensavano, se alcuna buona
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