Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 13

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città che gli era accomandata per la santa memoria dell’imperadore
Arrigo, egli per malizia e per somma avarizia l’avea sottoposta e
venduta a’ Fiorentini per quarantamila fiorini d’oro, in vergogna
e detrimento del santo imperio: e grande vergogna gli era ora con
sfrenata baldanza avere fatto manifesto all’imperiale maestà cotanti
suoi difetti. Ancora il detto messer Piero avea nella presenza degli
uditori e degli ambasciadori infamato Neri da Faggiuola, ch’avea
per amistà de’ Perugini fatta la terra del Borgo, ch’era per lui
acquistata a’ ghibellini, venire in parte guelfa; per Neri gli fu
altamente risposto, mostrando come tutto era avvenuto per la sua
malizia, e per le sue violenze quando v’avea stato: e anche avvenne
che il vescovo d’Arezzo si lamentò di messer Piero di gravi ingiurie;
e così l’uno disse improvviso contro all’altro per modo, che tutti
impetrarono grazia nel cospetto dell’imperadore e del suo consiglio
di gravi abbominazioni, senza altro acquisto di frutto; e d’allora
innanzi gli ambasciadori del comune d’Arezzo ebbono graziosa udienza
dall’imperadore per l’accordo di quello comune.

CAP. LXIII.
_Come i Volterrani si diedero all’imperadore._
Avvegnachè innanzi sia fatta alcuna narrazione della sommissione
di Volterra e di Samminiato, qui si torna al termine del fatto.
I Volterrani sapendo che i Sanesi senza patto erano sottomessi
all’imperadore, avendo poco amore e meno confidanza al comune di
Firenze, perocchè si reggevano sotto la tirannia de’ figliuoli di
messer Ottaviano de’ Belforti, i quali quanto che fossono guelfi di
nazione, per la tirannia dichinavano ad animo ghibellino come mettesse
loro bene, e non amavano il comune di Firenze nè i Fiorentini per la
tirannia, ch’era contradia alla libertà del nostro comune, e però
senza volere seguire il consiglio de’ Fiorentini di domandare patti,
feciono sindachi i loro ambasciadori con pieno mandato e mandarli a
Pisa, i quali in pubblico parlamento, a dì 4 di marzo del detto anno,
si sottomisono liberamente alla signoria dell’imperatore e de’ suoi
successori, e feciono l’omaggio e la reverenza per lo detto comune, e
il saramento come i Sanesi aveano fatto.

CAP. LXIV.
_Come i Samminiatesi si diedero all’imperadore._
I Samminiatesi, che soleano essere più all’ubbidienza del comune di
Firenze che i Volterrani, avendo vedute le sopraddette città di parte
guelfa già sottomesse all’imperio, e che il comune di Firenze trattava
per se d’accordarsi con lui, essendo tra loro divisi per setta per la
maggioranza delle due famiglie Malpigli e Mangiadori, temendo l’una
parte che l’altra non pigliasse vantaggio, s’accostarono insieme
dopo l’aspetto di più giorni: e celandosi da’ Fiorentini perchè non
movessono alcuna delle dette case, e veduto loro tempo convenevole,
di concordia feciono loro ambasciadori con pieno mandato e sindacato
del comune a darsi liberamente all’imperadore; e mandatili a Pisa, a
dì 8 di marzo in parlamento si sottomisono liberamente alla signoria
dell’imperadore; e fatto il saramento, e volendo fare l’omaggio e
baciare i piedi all’imperadore, li levò di terra, e ricevetteli _ad
osculum pacis_, cosa che non avea fatta a’ sindachi di niuna altra
città: la cagione si stimò che fosse per l’affezione che l’imperio
per antico avea a quello castello, ove solea essere la residenza
degl’imperadori e de’ loro vicari, perchè è uno mezzo tra le grandi e
buone città di Toscana. Questo fu prima fatto che il comune di Firenze
ne sentisse alcuna cosa, e quando il seppono, più gravò nell’animo de’
cittadini di Firenze che la sommissione di Siena e di Volterra, per la
vicinanza che ’l detto castello ha con la nostra città e con l’altre
di Toscana: ma gran cagione ne fu la poca provvedenza già detta de’
rettori del nostro comune.

CAP. LXV.
_Di disusato tempo stato nel verno._
Non ci pare da lasciare in silenzio quello che fu singolare alla
memoria de’ più antichi, la cagione si credette che venisse da
influenza di costellazioni: il fatto fu, che dal novembre al marzo il
tempo fu di dì e di notte il più sereno, cheto e bello che per addietro
si ricordasse, essendo il freddo senza venti continovo e grande: e le
nevi ch’erano cadute dal principio si mantennono ghiacciate nel contado
di Firenze, e in molte parti bastò nella città più di tre mesi: il mare
fu tranquillo e dolce a navicare oltre alla credenza degli uomini;
tutti i gran fiumi stettono serrati di ghiaccio lungamente per modo
che niuno si poteva navicare, e il nostro fiume d’Arno, che è corrente
come uno fossato, stette fermo e serrato di ghiaccio, che lungamente
senza pericolo in ogni parte si poteva sopra il ghiaccio valicare: e a
dì 8 di marzo cominciarono a rompere le piove dolci e utili a tutte le
sementa della terra.

CAP. LXVI.
_Come il segreto giurato in Firenze fu manifestato all’imperadore._
Seguendo gli ambasciadori di Firenze il trattato della concordia
con l’imperadore, e avendo il mandato di profferirgli per lo comune
cinquanta migliaia di fiorini d’oro, avendo da lui i patti privilegiati
che per parte del comune gli si dimandavano, l’imperadore, avvisato
e malizioso, della moneta, dov’egli avea l’animo, non mostrava di
curarsi, ma ne’ patti si mostrava strano e tenace per vendere più cara
la sua mercatanzia. Avvedendosi di questo gli ambasciadori, e avendone
alcuno segreto accennamento di fuori da lui, due degli ambasciadori per
comune consiglio degli altri tornarono in Firenze per informare a bocca
i rettori, e avvisarli di quello che a loro pareva dell’intenzione del
signore. Vedendo i rettori che l’imperadore s’addurava, e che le terre
vicine s’era no date liberamente alla sua signoria, aveano cagione
di più temere: e tennono più consigli segreti ove si raccontavano
de’ falli dell’eletto: come manifesto appariva che non avea tenuto
fede a’ Gambacorti, nè allo stato di coloro che reggevano la città
di Pisa, dilettandosi de’ romori e della divisione de’ cittadini, e
tenea con loro che più erano pronti a movere le novità nella terra
per averne più libera signoria, e come si mostrava bisognoso e cupido
di trarre a se moneta: e avendo per più riprese praticato sopra i
fatti dell’imperadore e sopra quelli del nostro comune, infine d’un
animo presono partito per lo meno reo, che non si guardasse a costo
di moneta infino in fiorini centomila d’oro, dandoli all’imperadore,
dove la nostra città di Firenze rimanesse libera in sua giurisdizione,
con altri singolari patti. E commettendo la pratica di queste cose
ne’ detti ambasciadori, avendoli informati che si tenessono forti a
cinquantamila fiorini, e che non mostrassono nè paura nè viltà in
domandare e sostenere il vantaggio del comune nella quantità della
moneta e negli altri patti, ma innanzi si rompessono da lui aveano di
darli i detti fiorini centomila d’oro. Questo consiglio fu ristretto
ne’ priori e ne’ loro collegi con piccolo numero d’arroti, e fu
comandata a tutti la credenza, e giurata solennemente: e rimandati
i due ambasciadori a Pisa, essendo con l’imperadore, e sostenendo
francamente quello ch’era stato loro imposto, l’imperadore cominciò
a sorridere contro a loro, e manifestò ciò ch’era loro commesso, e
la deliberazione del loro comune, dicendo, che per scrittura tutto
gli era manifesto. Gli ambasciadori di presente senza procedere più
innanzi significarono all’uficio de’ priori ciò ch’aveano di bocca
dell’imperadore della revelazione del loro segreto consiglio, che per
questa cagione, avvegnachè per loro non li fosse acconsentita alcuna
cosa, il trovavano più duro e più turbato che prima, dicendo, come non
era traditore de’ Gambacorti, nè che non era cupido di moneta più del
suo onore, nè si dilettava nella commozione de’ cittadini. Come questa
novella fu divolgata nella nostra città, l’infamia de’ signori, e de’
collegi, e degli arroti, in cui era la credenza, fu molto grande: ma
però non trovò il comune chi alcuna cosa ne facesse allora per purgare
la comune infamia, temendo per la tenerezza dello stato, avendo così
dipresso l’imperadore, che maggiore pericolo non ne seguisse. Il
consiglio non fu reo, se rifermato lo stato del comune con la pace
dell’imperadore se ne fosse fatta debita inquisizione e giustizia.

CAP. LXVII.
_Come l’imperadore mandò aiuto di gente al legato._
Essendo i tiranni di Romagna accozzati insieme, e accolta gente
d’arme assai venuta di Lombardia per reprimere la forza del legato,
ch’era piccola, il legato mandò a richiedere l’imperadore d’aiuto.
L’imperadore immantinente, per mostrarsi zeloso e divoto a’ servigi
di santa Chiesa, vi mandò di presente de’ suoi Tedeschi cinquecento
barbute, e feciono la via per Siena, veduti e onorati da’ Sanesi
graziosamente: e giunti al legato con l’insegna del loro signore,
rifrenarono la forza e la volontà de’ tiranni. Questo non era per
l’andata di cinquecento barbute cosa da farne memoria, ma consentesi al
nostro trattato perchè fu la prima e l’ultima che l’imperadore facesse
in Italia in fatti d’arme.

CAP. LXVIII.
_Trattati dell’imperadore ai Fiorentini._
Essendo gli ambasciadori del comune di Firenze quasi ogni dì con
l’imperadore per trattare la concordia, ed egli avendo scoperto il
segreto del comune, e crescendogli ogni dì forza grandissima di baroni
e di cavalieri della Magna, non gli parea volere di meno, e però
si tenea forte a non condiscendere alla volontà de’ Fiorentini: e
nondimeno temperava per non rompersi da loro, con tutto l’attizzamento
de’ caporali ghibellini d’Italia ch’erano appresso di lui, che al
continovo l’infestavano, perchè si rompesse dai trattato della
concordia de’ Fiorentini, mostrandogli che avendo egli Pisa e Siena,
Volterra e Samminiato, e l’aiuto de’ ghibellini ch’erano ivi a fare i
suoi comandamenti, e la gran forza della sua baronia, senza dubbio di
presente ne sarebbe signore a cheto, e abbatterebbe la loro arrogante
superbia con grande onore e magnificenza dell’imperio. Il savio signore
conoscea quanto pericolo gli potea incorrere, potendo con suo onore
e vantaggio avere pace, cercare guerra: e conosceva, che quando il
comune di Firenze, ch’era potentissimo, si facesse capo della guerra
contro a lui, che tosto gli si scoprirebbono molti nemici: e conoscea
il servigio che avrebbe dalla gente tedesca, se con larga mano non
li provvedesse, e quanto erano fallaci le suggestioni de’ ghibellini
d’Italia: e però serbava il consiglio e la diliberazione nel suo petto,
e forte si temea che nascesse cagione per la quale i Fiorentini si
rompessono dal trattato; e però avendo trattato con loro per modo che
pareano assai di presso, l’imperadore disse, che facessono d’avere il
sindacato pieno dal loro comune come la materia richiedeva: e allora
diliberarono che tre degli ambasciadori tornassono a Firenze a fare che
il sindacato si facesse.

CAP. LXIX.
_Raccolti falli de’ governatori del comune in Firenze._
Perocchè gli antichi moderati e virtudiosi che soleano reggere e
governare lo stato della repubblica in grande libertà, e con maturi
movimenti e con diligente provvidenza governavano quella in tempo
di pace e di guerra, e non perdonando i falli che si faceano contro
la patria, nè lasciando senza merito l’operazioni che si facevano
virtudiose in accrescimento e onore del comune, onde al nostro tempo
è da maravigliare come la cittadinanza si mantiene, essendo strana da
quelle virtù, e dalla provvisione di quel reggimento: e in luogo di
quelli antichi amatori della patria, spregiatori de’ loro propri comodi
per accrescere quelli del comune, si trovano usurpatori de’ reggimenti
con indebiti e disonesti procacci e argomenti, uomini avveniticci,
senza senno e senza virtù, e di niuna autorità nella maggiore parte,
i quali abbracciato il reggimento del comune intendono a’ loro propri
vantaggi e de’ loro amici con tanta sollecitudine e fede, che in tutto
dimenticano la provvisione salutevole al nostro comune: e non è chi
per lui pensi, nè per la sua libertà, nè per lo suo esaltamento, nè
onore, nè per riparare al pericolo che sopravvenire gli può, se non
nella strema giornata o in sul fatto; e per questo spesso occorrono
gravi casi al nostro comune, e niuno prende vergogna, o aspetta, per
avere mal fatto al comune, alcuna pena: e però non è senza pensiero di
grande ammirazione come il nostro comune non cade in grandi pericoli
di suo disfacimento. Ma i discreti del nostro tempo tengono che questo
sia singolare grazia e operazione di Dio, perocchè in così gran fascio
di cittadini e di religiosi, benchè molti ne sieno de’ rei, assai v’ha
de’ virtuosi e de’ buoni, le cui preghiere conservano la città da molti
pericoli, e alquanto è la gente cattolica e limosiniera, perchè Iddio
la conserva; e oltre a ciò gli ordini dati alla massa del comune per
li nostri antichi, e ’l reggimento che ha preso il corso alla comune
giustizia per le conservate leggi, è grande braccio al conservamene del
comune stato. E benchè gli usurpatori del non degno uficio sieno molti,
e male disposti al comune bene, e solleciti e provveduti a’ loro propri
vantaggi, e occupino la civile libertà, il tempo di due mesi ordinato
al reggimento del sommo uficio del priorato per li nostri provveduti
antichi è sì breve, che fa grande resistenza alla propria arroganza:
e ancora la riprieme non poco la compagnia di nove priori e de’ loro
collegi. Ma non possono ammendare il continovo fallo dell’abbandonata
provvedenza: onde avviene, che come fortuna guida le cose, infino al
pubblico destamento del popolo si pena a provvedere, non il migliore
consiglio, che nol concede il trapassamento delle debite provvedenze,
ma il meno reo. E questo avviene continovo in tutte grandi e pericolose
cose e accidenti ovvero imprese che accaggiono al nostro comune.

CAP. LXX.
_Come a Firenze si fece il sindacato per l’accordo con l’imperadore._
Avendo narrato il modo del reggimento del comune di Firenze e de’
suoi rettori, si può dire con verità del fatto, manifestato più volte
in pieno consiglio per la bocca dell’imperadore, che avendo mandati
il comune di Firenze a Mantova suoi ambasciadori a profferirgli
l’aiuto del comune, e confortarlo della sua coronazione, non avrebbono
domandati que’ patti, che largamente senza niuna promessa di moneta
non avesse liberamente fatti; ma la provvedenza era, ed è per lunghi
tempi stata in contumace del nostro comune: e però tornati a Firenze
i tre ambasciadori per far fare il sindacato, sperando la concordia
con l’imperadore, a dì 12 di marzo del detto anno, ragunato il
consiglio del popolo secondo l’ordine del nostro comune, che prima
s’ha a deliberare in quello, poi in quella del comune, avvenne che il
notaio delle riformagioni, ch’era natio da..... leggendo i patti che
s’intendeano d’avere con l’imperadore, per mostrare grande tenerezza
al popolo della libertà pura del comune, non ostante che in quelle
scritture se ne contenesse assai già deliberate pe’ signori e pe’
collegi, si ruppe a piagnere per modo, che la proposta non si potè
leggere; e gli animi de’ consiglieri a quelle lagrime si commossono dal
loro proponimento, e però si rimase il consiglio e il sindacato per
quella giornata, e convenne che di nuovo si rifacessono altri privati
consigli, ne’ quali il movimento del notaio non fu riputato fatto
con movimento di ragionevole carità, ma piuttosto per adulazione per
accattare benivoglienza dal popolo. E pertanto tutti i privati consigli
fermarono l’intenzione a fare quello s’addomandava dagli ambasciadori,
e da capo a dì 13 del detto mese si mosse la proposta al consiglio del
popolo, e sette volte l’una dopo l’altra si perdè: all’ultimo levati
molti cittadini d’autorità a dire, e a mostrare il beneficio che di
questo seguitava al comune, e il pericolo che venia del contrario,
si vinse, e fu dato la balìa di pieno sindacato a tutti e sei gli
ambasciadori del comune, a potere promettere per lo comune ciò ch’era
trattato o di nuovo si trattasse: e appresso l’altro dì, a dì 14 del
mese, con minore fatica si rifermò nel consiglio del comune, e gli
ambasciadori col mandato pieno si tornarono a Fisa.

CAP. LXXI.
_Quello si fe’ per alcuno cardinale per la coronazione dell’imperadore._
In questi dì il cardinale d’Ostia, a cui s’appartiene la coronazione
dell’imperadore, giunse in Pisa, ricevuto dall’eletto a grande onore.
Era consuetudine di santa Chiesa di mandare tre cardinali alla
coronazione degl’imperadori, quello d’Ostia, c’ha l’uficio d’andare
a coronare l’imperadore alle sue spese e alla sua provvisione, gli
altri due debbono andare alle spese di santa Chiesa: ma a questa
volta essendone fatto gran procaccio in corte, e per questo avuto
la grazia il cardinale di Pelagorga, e quello di Bologna in su ’l
mare, ch’erano di maggiore legnaggio, il papa e gli altri cardinali
non acconsentirono che la Chiesa facesse loro le spese, dicendo, se
voleano andare ch’aveano la benedizione, ma altro non aspettassono.
I cardinali considerarono la spesa grande, e l’imperadore povero di
moneta e stretto d’animo, e però con poco loro onore per lo procaccio
fatto si rimasono di quella legazione, e il papa per non accrescere
loro vergogna non ve ne mandò alcuno altro: e di questo non si turbò
l’imperadore per non avere a stendere in loro il suo onore.

CAP. LXXII.
_Come si fermò l’accordo e’ patti dall’imperadore al comune di Firenze._
Sentendo l’imperadore tornati gli ambasciadori del comune di Firenze
con pieno mandato e sindacato da fare l’accordo con lui, e come a’
Fiorentini era paruto malagevole, e conosciuto ch’egli avea recati
gli ambasciadori a promettergli centomila fiorini d’oro, più per
la revelazione ch’egli avea fatta loro del segreto del comune che
per altro piacere, e trovando che i Pisani per mala suggestione già
gli aveano domandato che li dovesse liberare della franchigia ch’e’
Fiorentini aveano in Pisa per li patti della pace, ed egli sostenea
dicendo, che il loro movimento non era buono; e vedendo che il suo
consiglio era insuperbito per la gente alamanna che crescea al suo
servigio tutto dì, e per la forte inzicagione che i ghibellini
italiani faceano loro, temette del suo consiglio, e poi volle gli
ambasciadori avere in camera seco col patriarca e col vececancelliere
soli: e cominciando a chiarire i patti, l’imperadore vi s’allargò
molto più che infino allora non avea fatto, per tema che discordia
non rinascesse, e per non avere a riferire la sua volontà col suo
consiglio. Nondimeno quando vennero al saramento per fermezza delle
cose che si trattavano, gli ambasciadori al tutto voleano il salvo
manifesto e palese fermato col detto saramento; l’imperadore si
fermò a non volerlo fare: ma volea la sommissione libera, e da parte
privilegiare i patti, e che nel saramento de’ sindachi non fosse
eccezione. Gli ambasciadori, in questa parte alquanto indiscreti,
potendolo fare a salvezza del comune, lungamente lo tennono sospeso
non senza sua turbazione, e poi il feciono, e già era molto infra la
notte. Appresso vennono a dire, che il saramento della sommissione
non voleano che si stendesse a’ successori dell’imperio, altro che
alla sua corona; a questo, disse l’imperadore, che non credea che vi
si stendesse, perocchè questo si dovea fare nominatamente alla sua
persona, ma dove a’ successori andasse, in niuna maniera intendea a
derogare le loro ragioni. Appresso domandarono, che tutte le leggi e
statuti fatte e fatti, o che per innanzi si facessono per lo comune di
Firenze, in quanto le comuni leggi nominatamente non le repugnassono,
le dovesse per suoi privilegi confermare. Questa gli parve sconvenevole
domanda, e non la volea consentire: e parendo questo agli ambasciadori
dubbioso, tre ore o più di piena notte tennono la contesa con lui, e
infine l’imperadore infellonito gittò la bacchetta ch’avea in mano
per terra, e mostrandosi forte crucciato, giurò in alta voce per più
riprese, che se innanzi ch’egli uscisse di quella camera questo non
si consentisse per i sindachi, che con la sua forza e de’ signori di
Milano e degli altri ghibellini d’Italia distruggerebbe la città di
Firenze, dicendo, che troppa era l’altezza della superbia d’uno comune
a volere suppeditare l’imperio. Gli ambasciadori vedendolo così forte
turbato dissono, che troverebbono modo di venire a fare di ciò la sua
volontà: e perocchè l’ora era fuori di modo tarda, presono licenza per
andarsi a posare, e per questa cagione ogni cosa rimase imperfetta in
quella notte, e in quell’ora significarono il fatto gli ambasciadori a’
signori di Firenze, per avere il dì vegnente da risposta a buon’ora.
L’imperadore sentendo che gli ambasciadori aveano scritto al comune
di Firenze significando le sue parole, temette forte che i Fiorentini
non si rompessono dalla concordia, e però la mattina per tempo, non
attendendo che gli ambasciadori avessono risposta, mandò per loro, e
usate molte savie parole intorno al movimento tedioso della notte, con
dimostramento di grande amore verso il comune di Firenze, largamente
acconsentì ciò che gli ambasciadori aveano domandato: e oltre a ciò per
sua liberalità, ove gli ambasciadori gli aveano promesso d’essergli
stadichi per attendere la promessa del comune, poco appresso fatta la
concordia disse, ch’alla fede del comune intendea di stare di questo
e d’ogni gran cosa, e licenziò gli stadichi, e raffermata tutta la
concordia, innanzi che da Firenze venisse la risposta: nondimeno il
comune avea risposto, che per le dette cose non volea che la concordia
rimanesse: e questo fu a dì 20 di marzo del detto anno.

CAP. LXXIII.
_Come i Fiorentini per mala provvedenza errarono a loro danno._
Avvegnachè molto sia detto de’ falli del nostro comune, uno singolare
non ci si lascia passare senza fare in questo luogo memoria di lui.
Fatta e ferma la concordia con l’imperadore di dargli fiorini d’oro
centomila per avere fine e remissione da lui delle condannagioni e
pene, in che ’l nostro comune era incorso per decreti dell’imperadore
Arrigo e degli altri suoi antecessori, si ritrovò il saramento fatto
per lo detto eletto a papa Clemente sesto e alla Chiesa di Roma,
quando fu promosso per operazione del detto papa e di santa Chiesa
all’elezione dell’imperio, ch’egli libererebbe i comuni di Toscana
d’ogni condannagione fatta per i suoi antecessori, e d’ogni debito a
che si trovassono obbligati per addietro all’imperio, massimamente
il comune di Firenze, il quale per l’imperadore Arrigo era stato
condannato con i suoi cittadini in loro singolarità, la qual cosa
era manifesta a santa Chiesa. E ancora giurò, che i detti comuni non
graverebbe, nè farebbe contro alcuno di quelli muovere guerra, nè
sottometterebbe la loro libertà. Grande ignoranza fu trattare presso
a due mesi con l’imperadore, e non avere memoria di cotanto fatto. Io
reputo essere stata degna compensagione, avendo così fatta ignoranza
compensata con prezzo di cento migliaia di fiorini d’oro, i quali il
comune pagò per avere con fatica e con paura quello che aver potea
senza costo, per la benigna provvedenza di santa Chiesa: e quello che
pagò per debito in piccola parte, potea in luogo di servigio e di
grazia compensare. Vergognomi ancora di scrivere la seguente arrota:
avendo nella fama dell’avvenimento in Italia dell’imperadore, mandato a
corte al papa e a’ cardinali per avere aiuto e favore da santa Chiesa,
le lettere furono impetrate piene e graziose e favorevoli per lo
nostro comune all’imperadore, ove il papa e’ cardinali gli ricordavano
la promessa fatta sotto il suo saramento; le lettere stettono in
cancelleria per spazio di tre mesi, innanzi che modo si trovasse di
pagare fiorini trenta d’oro per le comuni spese della cancelleria: e
per questo, poco appresso che la sommissione del comune e la promessa
della moneta fu fatta, giunsono le lettere bollate al nostro comune,
con grande ripitio e vergogna de’ nostri rettori.

CAP. LXXIV.
_Della statura e continenza dell’imperadore._
Secondo che noi comprendiamo da coloro che conversano intorno
all’imperadore, la sua persona era di mezzana statura, ma piccolo
secondo gli Alamanni, gobbetto, premendo il collo e ’l viso innanzi non
disordinatamente: di pelo nero, il viso larghetto, gli occhi grossi,
e le gote rilevate in colmo, la barba nera, e ’l capo calvo dinanzi.
Vestiva panni onesti e chiusi continovamente, senza niuno adornamento,
ma corti presso al ginocchio: poco spendea, e con molta industria
ragunava pecunia, e non provvedeva bene chi lo serviva in arme. Suo
costume era eziandio stando a udienza di tenere verghette di salcio in
mano e uno coltellino, e tagliare a suo diletto minutamente, e oltre
al lavorio delle mani, avendo gli uomini ginocchioni innanzi a sporre
le loro petizioni, movea gli occhi intorno a’ circostanti per modo,
che a coloro che gli parlavano parea che non dovesse attendere a loro
udienza, e nondimeno intendea e udiva nobilemente, e con poche parole
piene di sustanzia rispondenti alle domande, secondo sua volontà, e
senza altra deliberazione di tempo o di consiglio faceva pienamente
savie risposte. E però furono in lui in uno stante tre atti senza
offendere o variare l’intelletto, il vario riguardo degli occhi,
il lavorare con le mani, e con pieno intendimento dare l’udienze e
fare le premeditate risposte; cosa mirabile, e assai notevole in uno
signore. La sua gente, avendo in un’ora in Pisa più di quattromila
cavalieri tedeschi, faceva mantenere onestamente, eziandio astenere
dalle taverne e dalle disoneste cose per modo, che innanzi alla sua
coronazione in Pisa non ebbe zuffa nè riotte tra’ forestieri e’
cittadini d’alcuna cosa. Il suo consiglio ristrignea con pochi suoi
baroni e del suo patriarca, ma la deliberazione era più sua che del
suo consiglio: perocché ’l suo senno con sottile e temperata industria
valicava il consiglio degli altri; e molto si guardò di muoversi alla
stigazione e conforto de’ ghibellini d’Italia, usati d’incendere e
d’infocare l’imprese all’appetito parziale, più che al singolare onore
dell’imperiale corona, i cui vizi nobilemente conoscea.

CAP. LXXV.
_Come si bandì in Firenze l’accordo con l’imperadore._
Sabato mattina, a dì 21 di marzo del detto anno, l’imperadore
provvedutamente fece ragunare tutti i forestieri ch’erano in Pisa e’
Pisani a parlamento nel duomo di Pisa, e con dimostramento di singolare
allegrezza fece venire dinanzi da se tutti e sei gli ambasciadori e
sindachi del comune di Firenze: i quali giunti nel parlamento furono
guardati da tutti con ammirazione grande, perocchè alla memoria di
coloro ch’erano vivi, nè di molto tempo innanzi, si trovava che il
comune di Firenze fosse stato altro che nemico all’imperadore, e ora
vedeano che con pace aveano dall’imperadore que’ patti ch’aveano saputi
dimandare: e da loro ricevette l’omaggio e il saramento della fede che
promisero all’imperadore, sotto la condizione de’ patti e convenienze
che ferme aveano con lui per lo comune di Firenze, le quali su brevità
appresso in sostanza diviseremo: e l’eletto imperadore come re de’
Romani ne fece a loro privilegi reali, e promise ricevuta l’imperiale
corona di farli imperiali. E a dì 23 del detto mese, lunedì sera,
si pubblicò in Firenze la concordia presa con l’imperadore, sonando
le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo. Poca gente, a
rispetto del nostro comune, si ragunò al parlamento, e senza alcuna
vista d’allegrezza ogni uomo si tornò a casa. Il comune fece in sulle
torri e in su i palagi festa e luminaria: ma nella città pe’ cittadini
non si fece falò per segno d’alcuna allegrezza, conoscendo quanto
costava caro al comune l’ignoranza de’ loro cittadini governatori per
l’abbandonata provvedenza.

CAP. LXXVI.
_I patti e le convenienze da’ Fiorentini all’imperadore._
Questi furono i patti che messer Carlo re di Boemia eletto imperadore
impromise al comune di Firenze, e co’ suoi reali privilegi confermò.
In prima cassò e annullò ogni sentenza e condannagione le quali per
addietro fossono fatte contro alla città, e’ cittadini e comune di
Firenze e’ suoi contadini, e contra i conti da Battifolle, e da
Doadola, e da Mangona, e Nerone d’Alvernia per gl’imperadori romani
ovvero re de’ Romani suoi antecessori: e tutti e catuno integrò e
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