Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 01

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CRONICA
DI
MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA
TOMO II.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


LIBRO TERZO
_Qui comincia il terzo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima
il Prologo._

CAPITOLO PRIMO
Rendendo spesso testimonianza delle mutevoli cose del mondo ogni
stato umano, non è da pensare cosa maravigliosa quella che ha fatto
maravigliare ne’ nostri dì ovunque la sua fama aggiunse. E domandando
la debita materia di fare cominciamento al terzo libro, possiamo con
ragione dire, che la corona dell’imperiale maestà e il suo regno, alla
quale dipendea la monarchia dell’universo, era Roma coll’italiana
provincia, delle provincie della quale ne’ nostri tempi la città di
Firenze, Perugia e Siena, seguendo alcune orme di quella, per li tempi
avversi dello sviato imperio, in segno della romana libertà, avendo
veduto per li tempi passati l’incostanza degl’imperadori alamanni avere
in Italia generate e accresciute tirannesche suggezioni di popoli,
hanno mantenuto la franchigia e la libertà discesa in loro dall’antico
popolo romano: e zelanti di non sostenere quella a tirannia, molte
volte per diversi e lunghi tempi apparvono contradi all’imperiale
suggezione, intanto che non si poteva in questi popoli sostenere
senza sospetto, senza pericolo e senza infamia il raccontamento
dell’imperiale nome. E come subitamente gli animi di que’ popoli e de’
loro rettori per paura del potente tiranno arcivescovo di Milano si
cambiarono, procurando l’amistà e l’avvenimento in Italia di messer
Carlo re di Boemia eletto imperadore, i movimenti già narrati, e le
operazioni che appresso ne seguirono, seguendo nostro trattato il
dimostreremo.

CAP. II.
_La potenza dell’arcivescovo di Milano, e il procaccio fece a corte per
la sua liberazione._
Era in questo tempo potentissimo e temuto signore messer Giovanni de’
Visconti arcivescovo di Milano, sotto la cui signoria si reggea la
nobile e grande città di Milano, e l’antica e famosa città di Bologna,
Cremona, Lodi, Parma, Piacenza, Brescia, Moncia, Bergamo, Como, Asti,
Alessandria della paglia, Tortona, Alba, Novara, Vercelli, Bobbio,
Crema, e più altre città e terre nelle montagne di verso la Magna, co’
loro contadi ville e castella; e i signori di Pavia, ch’erano que’ di
Beccheria, l’ubbidivano come signore, benchè la città fosse al loro
governamento. In Toscana aveva acquistato il Borgo a san Sepolcro,
e il castello d’Anghiari e altre castella d’intorno. E accomandati
e ubbidienti gli erano Cortona, Orvieto, Cetona, Agobbio, i Tarlati
usciti d’Arezzo, gli Ubaldini, i Pazzi di Valdarno, gli Ubertini, e
que’ da Faggiuola; e i conti da Montefeltro, e de’ conti Guidi dal lato
ghibellino, e il conte Tano da Montecarelli, e gli altri ghibellini
caporali di Toscana, e di Romagna e della Marca l’ubbidivano. E a
sua lega e a compagnia avea il signore della Scala e di Mantova e di
Padova: e il marchese di Ferrara in Lombardia, e il comune di Genova e
quello di Pisa sotto alcuno ordinato servigio, e il capitano di Forlì,
e il tiranno di Faenza, e il signore di Ravenna tenevano con lui in
lega e in compagnia, come nel secondo nostro libro narrato abbiamo. E
non avendo l’arcivescovo altra guerra che col comune di Firenze e di
Perugia, alla cui compagnia e lega s’accostava debolmente il comune di
Siena, era sì potente e di tanto aiuto e forza, che impossibile pareva
a questi popoli potersi difendere senza aiuto di più potente braccio,
e però aveano mandato a corte, come detto è, per inducere il papa e i
cardinali contra lui, sentendo che la Chiesa per le grandi ingiurie
ricevute procedeva contro a lui. Ma l’arcivescovo per riparare,
sentendo che gl’impugnatori erano grandi, pensò che non era tempo
da nutricare il lavorio, ma di trarlo a fine; e avvedendosi quanto
l’avarizia movea le cortigiane cose, e disponeva i prelati all’olore
della pecunia, e per questo le cose, aspettando maggior frutto, si
sostenevano, da capo mandò più grande e più solenne ambasciata a corte
di suoi confidenti, uomini sperti e di grande autorità, e mandolli
forniti di più di dugentomila fiorini d’oro, con pieno mandato a
operare e fare con doni e con loro industria e impromesse, senza avere
riguardo alla pecunia, d’avere la riconciliazione di santa Chiesa,
rimanendoli la signoria di Bologna. E oltre a ciò aoperò per forza
de’ suoi doni, che messer Giovanni di Valois re di Francia mandò
altri baroni suoi ambasciadori al papa e a’ cardinali a procurare la
riconciliazione dell’arcivescovo; e la contessa di Torenna governatore
del papa nelle sue temporali bisogne, per cui il santo padre molto si
movea nelle grandi bisogne, procacciò con ismisurati doni. Nel continuo
tempellamento del papa, per lo suo aiuto, e ne’ parenti del papa si
provvide con larga mano. E in certi cardinali che gli si mostravano
avversi per zelo dell’onore di santa Chiesa si provvide per modo, che
agevole fu a conoscere che l’onore di santa Chiesa non s’apparteneva
a loro. E avendo l’arcivescovo tutta compresa la corte in suo favore,
seguita il modo che papa Clemente tenne con gli ambasciadori de’ comuni
di Toscana, per potere fare con più sua scusa quello che prima avea
deliberato di fare.

CAP. III.
_Come papa Clemente sesto propose tre cose a’ comuni di Toscana, perchè
pigliassono l’una._
Essendo tutta la corte di Roma ripiena di doni e d’ambasciadori
per i fatti dell’arcivescovo, e volendo il papa terminare la sua
causa secondo la domanda de’ suoi ambasciadori, i quali nella vista
proferivano di lui ogni ubbidienza di santa Chiesa, e nel segreto
aveano l’ubbidienza del papa e de’ cardinali alla sua volontà, per
le ragioni e cagioni già narrate; volendo il papa mostrare agli
ambasciadori de’ tre comuni di Toscana singolare affezione, da
capo gli ebbe in concistoro, e commendato molto i loro comuni di
molte cose, e singolarmente dell’amore e della fede che portavano a
santa Chiesa, e dolutosi delle loro oppressioni per le divisioni e
scandali d’Italia, infine conchiudendo disse, che mettea nella loro
elezione quelle tre cose ch’avea altre volte loro promesse, ch’elli
eleggessono l’una senza soggiorno: o di buona pace coll’arcivescovo, o
lega e compagnia colla Chiesa contro a lui, o che facesse passare in
Italia l’eletto imperatore. Gli ambasciadori ristretti insieme, che
conoscevano e sentivano dove la causa dell’arcivescovo era ridotta,
non si vollono rimutare da quello ch’altra volta aveano detto al papa,
che quello che a lui paresse il migliore erano contenti che facesse
loro, mantenendo in sul fatto la piena confidenza ch’aveano a santa
Chiesa e al sommo pastore. Il papa conobbe che la risposta era intera
alla sua intenzione, e che poteva procedere con giusto titolo senza
offendere i comuni di Toscana ne’ suoi movimenti, quanto che in fatti
era il contradio, alla sentenza di riconciliare l’arcivescovo, e però
fu contento, e disse loro che provvederebbe per modo, che i loro comuni
avrebbono coll’arcivescovo buona pace: della quale offerta niuna
speranza si prese, conoscendo manifestamente ch’al tutto s’intendeva a
magnificare il tiranno, e a fare la sua volontà.

CAP. IV.
_Come il papa e’ cardinali annullarono i processi contro
all’arcivescovo._
Poco appresso dopo la detta risposta, avendo gli ambasciadori
significato a’ loro comuni quello ch’aveano dal papa, e quello che
sentivano di certo de’ fatti dell’arcivescovo, il papa convocò i
cardinali a concistoro, i quali tutti, niuno discordante, erano
d’accordo con gli ambasciadori dell’arcivescovo, e però non essendo
tra loro quistione, domenica mattina a dì 5 di Maggio, gli anni
Domini 1352, fu per la santa ubbidienza dell’arcivescovo sopraddetto
annullato il processo fatto contro a lui, e riconciliato a santa
Chiesa, e tratto d’ogni scomunicazione e d’ogni interdetto. E in
quello concistoro piuvico, avendo per li suoi ambasciadori rendute le
chiavi al papa in segno della restituzione di Bologna, il papa colla
volontà de’ suoi cardinali ne rinvestì gli ambasciadori, riceventi per
lo detto arcivescovo e de’ suoi successori, nella signoria di Milano
e di Bologna, per tempo e termine di dodici anni prossimi a venire,
con promessione che ogni anno ne darebbe di censo fiorini dodicimila
alla camera del papa, e compiuto il detto termine la renderebbe
libera a santa Chiesa, e allora restituiranno contanti, per nome del
detto arcivescovo, fiorini centomila alla camera del papa, per la
restituzione delle spese che la Chiesa vi fece quando vi tenne l’oste
il conte di Romagna. E così per pietà e per danari ogni gran cosa si
fornisce a’ nostri tempi co’ pastori di santa Chiesa.

CAP. V.
_Come gli ambasciadori de’ Toscani si partirono di corte mal contenti._
Il papa avendo grande appetito di servire tosto all’arcivescovo,
vedendo che ’l trattare della pace promessa a’ comuni di Toscana avea
a sostenere la causa del tiranno, si fece promettere triegua per un
anno, in quanto il comune di Firenze e gli altri comuni la volessono,
acciocchè infra il termine più ordinatamente si trattasse della pace.
Gli ambasciadori ch’aveano assai dinanzi avvisati i loro comuni come la
cosa procedeva acciocchè provvedessono al loro stato, frustrati della
loro intenzione, si partirono mal contenti di corte, e tornaronsi in
Toscana. E innanzi la loro tornata, in Firenze si piuvicò il trattato
e la concordia presa col vececancelliere dell’eletto imperadore,
come appresso diviseremo. Avvenne poco appresso che il vicario
dell’arcivescovo in Bologna mandò a Firenze un messo con ulivo in mano
e con sue lettere, significando la tregua fatta e bandita nelle terre
dell’arcivescovo suo signore; e in quello dì fece muovere sua gente
a cavallo e a piè da Montecarelli, e cavalcare nel Mugello predando,
e uccidendo e ardendo come gravi nimici del comune, e ritrassonsi a
salvamento; e ivi dopo pochi dì ritornarono, e misono loro aguati, e
furono scoperti, e rotti, e morti e presi gran parte di loro, sicchè
più non s’attentarono di venire in Mugello. Per questi segni si
scoperse, che il trattato del papa con le tregue, colla fè corrotta del
tiranno, non ebbe principio di buona intenzione.

CAP. VI.
_Come i tre comuni di Toscana s’accordarono a far passare l’imperadore._
I rettori de’ tre comuni di Toscana, per l’informazione ch’aveano avuta
da corte da’ loro ambasciadori, sentivano a certo che la Chiesa gli
abbandonava, ed era per magnificare il loro avversario: e bene che
sentissono le promesse del papa, non vedeano da potersene confidare, e
però tempellavano negli animi tra il sospetto e la paura, aggiugnendo
temenza di cittadinesche discordie nel soprastare: e bene che ancora
non avessono avuta certezza del fatto da’ loro ambasciadori, senza
rendere al santo padre il debito onore, quasi palpando, per lo trattato
tenuto col vececancelliere dell’imperadore, mostrando di prendere
confidanza nella fama delle virtù e senno e larghe profferte del
detto eletto imperadore, per aiutarsi dal potente tiranno nimico,
valicando egli in Italia a istanza de’ detti tre comuni, come il suo
cancelliere promettea, e per questa cagione, d’uno animo e d’uno
volere tutto il reggimento di questi tre comuni, Firenze, Perugia,
e Siena, con pubblico consentimento de’ loro popoli si deliberarono
d’essere all’ubbidienza del detto eletto imperadore con certi patti e
convenzioni, i quali erano assai strani alla libertà del sommo imperio.
Ma perchè le cose disviate con alcuno mezzo più tosto si congiungono
a unità e a concordia, non fu a quel tempo tenuta sconvenevole la
domanda, nè ingiusto l’assentimento del signore; e però all’uscita
del mese d’aprile del detto anno, nella città di Firenze in pubblico
parlamento si fermò il trattato ordinato per lo vececancelliere
dell’eletto imperadore, con gli ambasciadori e sindachi de’ detti
tre comuni, e piuvicossi i patti e le convenzioni, e fattone solenni
stipulazioni e carte, grande ammirazione ne fu per tutta Italia. I
patti in sostanza racconteremo qui appresso nel seguente capitolo.

CAP. VII.
_Quali furono i patti dall’imperadore a’ tre comuni._
Promise il detto vececancelliere, che per tutto il prossimo mese di
luglio l’eletto re de’ Romani imperadore sarebbe in Lombardia sopra le
terre dell’arcivescovo di Milano per guerreggiare e abbattere la sua
signoria con seimila cavalieri: de’ quali duemila ne dovea avere al
suo proprio soldo, ovvero servigio, e mille che promessi gli avea la
Chiesa di Roma quando passasse, i quali se dalla Chiesa non avesse,
promettea fornirli da se, e gli altri tremila cavalieri, i quali dovea
soldare a sua eletta. Questi tre comuni gli doveano dare per un anno
dugento migliaia di fiorini d’oro, e oltre a ciò gli doveano donare
come e’ fosse in Aquilea fiorini diecimila d’oro. La taglia era al
comune di Firenze per millecinquecentocinquanta cavalieri, Perugia
ottocentocinquanta, e Siena seicento. E se in uno anno la guerra
non fosse terminata, si dovea provvedere del nuovo sussidio innanzi
al tempo, confidandosi catuna parte d’averne concordia. E i detti
tre comuni deono tenere il detto messer Carlo vero re de’ Romani, e
futuro diritto imperadore, ed egli dee promettere di mantenere i detti
tre comuni nella loro libertà e ne’ loro statuti; e come avesse la
corona, avendo sottomesso il tiranno, i priori di Firenze e’ nove di
Siena si doveano dinominare vicari dell’imperadore mentre che fossono
all’uficio (i Perugini non s’obbligarono a questo, facendosi uomini di
santa Chiesa) e il comune di Firenze promise in detto caso pagare ogni
anno per nome di censo danari ventisei per focolare: gli altri comuni
s’obbligarono senza distinzione di pagare ogni anno quello ch’era
consueto all’imperadore per antico. E fu in patto che l’imperadore
venuto alla corona dovesse privilegiare a’ detti comuni tutte le terre,
ville e castella ch’al presente possedeano, e che avessono posseduto
sei anni addietro, quanto che ora non le possedessono, e che dalla
condannagione fatta per l’imperadore Arrigo suo avolo, promise liberare
e assolvere i detti comuni. E ’l detto vececancelliere per nome del
detto eletto imperadore promise, che le dette convenenze e patti il
detto eletto confermerebbe infra mezzo il prossimo futuro mese di
giugno del detto anno. Altre singulari cose vi si promisono, che non
sono di necessità a raccontare.

CAP. VIII.
_Come il re Luigi e la reina Giovanna furono coronati per la Chiesa._
Avendo papa Clemente sesto e’ suoi cardinali mandati legati nel Regno,
a dì 27 di maggio del detto anno, il dì della santa Pentecoste, nella
città di Napoli, celebrata la solenne messa, con la consueta solennità
consacrarono e coronarono in nome di santa Chiesa in prima il re
Luigi, e dappresso la reina Giovanna, del reame di Gerusalemme e di
Cicilia. E questo fu fatto con molta festa di baroni e di cavalieri del
regno, e de’ Napoletani e de’ forestieri, i quali tutti si sforzarono
di onorare il re e la reina in quella festa; e fecesi alle case del
prenze di Taranto sopra le Coreggie, con molte giostre e con grande
armeggiare: e vestiti e adorni il re e la reina in abito di reale
maestà, ricevettono l’omaggio da tutti i baroni che non erano stati
contrari nella guerra, e da assai di quelli ch’aveano tenuto contro a
lui per lo re d’Ungheria, a’ quali tutti perdonò, mostrando loro buono
animo e buono volere. E a coloro che alla sua coronazione non erano
venuti a fare l’omaggio, assegnò termine giusto a potere venire con
pace e con amore alla sua ubbidienza; e quale dal termine innanzi non
fosse venuto, per decreto fece che fosse rubello della corona. E dopo
la coronazione cavalcò il re in abito reale per la città di Napoli,
montato in su uno grande e poderoso destriere, addestrato al freno e
alla sella da’ suoi baroni. Quando fu valicato porta Petrucci nella
via di Porto, certe donne per fargli onore e festa gittarono sopra lui
dalle finestre rose e fiori di grande odore: il destriere aombrò, ed
erse; i baroni ch’erano al freno si sforzarono d’abbassare il cavallo:
il destriere ch’era poderoso ruppe le redine. Il re Luigi vedendosi
sopra il destriere spaventato senza redine, di subito destramente se ne
gittò a terra, e caddegli la corona di capo, e ruppesi in tre pezzi,
cadendone tre merli; alla persona non si fece male: rilegata la corona,
di presente, ridendo, montò a cavallo, cavalcando per la terra con gran
festa e onore. In questo medesimo dì morì una sua fanciulla, che altro
figliuolo non aveva della reina. Molti per questi casi pronosticarono
non prospere cose alla maestà reale.

CAP. IX.
_Commendazione in laude di messer Niccola Acciaiuoli._
Degna cosa ne pare, e debito del nostro trattato, appresso la
coronazione del re Luigi, rendere beneficio di memoria per chiara fama
di messer Niccola Acciaiuoli cittadino popolare di Firenze, balio
e governatore dell’infanzia del detto re; il quale essendo prima
compagno della compagnia degli Acciaiuoli, con animo più cavalleresco
che mercantile si mise al servigio dell’imperatrice moglie che fu
del Prenze di Taranto, e quello esercitò realmente e personalmente
con tanta virtù e con tanto piacere della donna, che ella avendo
tre suoi figliuoli di piccola età, Ruberto primogenito, e messer
Luigi secondo, e Filippo il terzo, tutti gli mise nel governamento
di Niccola Acciaiuoli, che allora non era cavaliere, e tutto il suo
consiglio l’imperatrice ristrinse in lui, e con lei se ne passò in
Romania, e ordinati i fatti delle terre e baronie di là, con lei
se ne tornò a Napoli. Ed essendo cresciuto di età di anni quindici
messer Luigi, volendo il re Ruberto mandare gente d’arme in Calavra,
e dilettandosi dell’industria del giovane barone, fatta eletta di
cinquecento cavalieri d’arme, e datili all’ubbidienza di messer
Luigi, lui accomandò a messer Niccola Acciaiuoli, comandandogli in
tutto che ubbidisse al suo maestro. E questo fece il re di volontà
dell’imperatrice sua madre; avendo poco innanzi fatto cavaliere il
detto messer Niccola; e da quell’ora appresso il detto messer Luigi si
resse in tutto e governò per le mani di messer Niccola. E sopravvenuta
la morte del duca Andreasso, per operazione dell’imperatrice e di
messer Niccola Acciaiuoli fu data la reina Giovanna per moglie a
messer Luigi: e ne’ primi cominciamenti con assai prospera fortuna
accrescea il suo signore. E cambiandosi le cose per l’avvenimento del
re d’Ungheria alla vendetta del fratello, essendo tutti gli altri reali
all’ubbidienza del potente re, costui solo, coll’aiuto d’alquanti che
ubbidivano alla reina, per lo consiglio e conforto di messer Niccola,
sostenne contro alla gente del re d’Ungheria lungamente, e tentò di
resistere alla persona del loro re, e non si partì dalla frontiera di
Capova, infino che abbandonato dagli avari regnicoli, e già soppreso
dall’avvenimento del re e del suo esercito, fu costretto di partirsi
da Capova, e appresso da Napoli, sprovveduto, di notte, ricogliendosi
per necessità in su una vecchia e male armata galea; e in quella
raccolto, con poco arnese e con lieve compagnia valicò in Toscana in
povero stato. E per lo detto messer Niccola, e co’ suoi danari e di
suoi amici fu atato e rifornito e confortato nella grave tempesta
della fortuna. Presi tutti i reali, e morto il duca di Durazzo, e
il Regno venuto nelle mani del suo persecutore, e non volendolo i
Fiorentini ricevere nella loro città, nè sovvenire d’alcuna cosa per
tema del re d’Ungheria, ridottosi parecchi dì alla possessione del
detto messer Niccola in Valdipesa, di là si partì, e andò in Proenza
ove la reina era rifuggita. E tornato il re d’Ungheria, per tema della
generale mortalità, in suo paese; per sollecitudine e trattato di
messer Niccola, prima tornato nel regno, e sommossi de’ baroni e de’
cavalieri, e confortati i Napoletani, e accolta gente d’arme in favore
del suo signore, in breve tempo ordinò la sua tornata e della reina nel
Regno, nel quale assai battaglie e vari e diversi assalti di guerra
sostenne; e per avversa fortuna rotte le sue forze in battaglia per
più riprese, tradito dagli amici, perseguitato da’ nemici, condotto
all’inopia, sentina della fortuna, l’animo del valente cavaliere fu
di tanta potenza e di tanta virtù, che con pari animo sostenne il
giovane barone suo signore in speranza certa della sua esaltazione,
sempre aiutandolo e sostenendolo con sua industria e suo procaccio, e
con fortezza e con pazienza fece comportare l’asprezza della turbata
fortuna. Onde avvenne, che quella potendosi maravigliare della costanza
dell’uomo, subitamente e improvviso mutò la turbata faccia in chiara,
e l’asprezza in dolcezza e in mansuetudine: e colui che avea ributtato
per cotante tempeste e vari pericoli, oltre all’opinione degli uomini,
con felici e prospere successioni condusse alla reale corona, e alla
libera signoria di tutto il corrotto e sviato regno in brevissimo
tempo. E per lo nobile consiglio e avvedimento di messer Niccola
Acciaiuoli, i reali lasciati di prigione e tornati nel Regno, ove per
tutti si stimava che il Prenze di Taranto maggiore fratello del re,
per sdegno e per forte inzigamento contro al re movesse scandolo nel
reame, con mansuetudine e con caritatevole animo il fece al re ricevere
in compagno del regno; e fattogli prendere titolo dell’imperiato
costantinopolitano, e aggiunto largamente alla sua baronia, conobbe
e manifestò a tutti, che il padre loro messer Niccola, appresso la
grazia di Dio, era cagione del ricoveramento del regno, e dello stato
e onore. Perchè dunque dovevamo tacere? innanzi vogliamo essere da’
denti degl’invidiosi cittadini morso, che la provata verità per li suoi
effetti, e per la fine de’ suoi felici avvenimenti, avessimo lasciata
sotto scurità d’ignorante oblivione.

CAP. X.
_Come fu cacciato messer Iacopo Cavalieri di Montepulciano._
In questo anno del mese d’aprile, sabato santo, avendo messer Iacopo
de’ Cavalieri di Montepulciano trattato, coll’aiuto della gente
dell’arcivescovo ch’era in Toscana, di farsi signore della terra di
Montepulciano, e a ciò consentivano una parte de’ terrazzani di suo
seguito, messer Niccola suo consorto sentì questo trattato, e fecelo
sentire a’ governatori del popolo; e in questo dì, levata la terra
a romore, cacciarono messer Iacopo di Montepulciano, e venti altri
terrazzani suoi seguaci, uomini nominati di stato intra il popolo; e
col consiglio di messer Niccola de’ Cavalieri riformarono la terra di
loro reggimenti, e ischiusonne gli amici e’ seguaci di messer Iacopo;
il quale si ridusse a Siena, e là ordinò grande novità, e scandalo e
suggezione di quella terra, come innanzi a’ suoi tempi si potrà trovare.

CAP. XI.
_Come si die’ il guasto a Bibbiena, e sconfitti i Tarlati da’
Fiorentini._
Del mese di maggio del detto anno, ricordandosi i Fiorentini
dell’ingiuria ricevuta da’ Tarlati, Pazzi e Ubertini per la ribellione
ch’aveano fatta al comune al tempo della guerra dell’arcivescovo
di Milano, quando ruppono la pace e cavalcarono sopra il contado e
distretto di Firenze, accolsono seicento cavalieri di loro masnade e
gran popolo, e andarsene alla Cornia, e poi alla Penna, e a Gaenna, e
ad altre terre e ville che si tenevano pe’ Pazzi e Ubertini e Tarlati,
e a tutte diedono il guasto; e poi se n’andarono a Bibbiena, ov’era
messer Piero Sacconi, e a Soci, e ivi dimorarono più dì, ardendo e
guastando d’intorno: quelli da Bibbiena francamente si difesono dal
guasto le vigne d’intorno presso alla terra. Messer Piero avea in
Bibbiena milledugento buoni fanti e pochi cavalieri, con li quali si
fece un grosso badalucco presso alla terra. Poi la mattina vegnente, a
dì 10 di giugno, l’oste si mosse per andare a Montecchio. Messer Piero,
antico e buono guerriere, sapendo l’andata de’ Fiorentini, si pensò
di fare loro danno, e la mattina per tempo con settanta cavalieri e
con mille buoni fanti in persona occupò un colle sopra l’Arno in sul
passo, e mise aguati per danneggiare la gente de’ Fiorentini. Avvenne
che, mossa l’oste dall’altra parte dell’Arno, vidono preso il colle
dalla gente di messer Piero; allora cominciarono a fare valicare della
gente dell’oste certi masnadieri, sì perchè tenessono a badalucco i
nemici e per trarli abbasso, e a poco a poco li ringrossavano d’aiuto,
ma non senza loro grande pericolo, a’ quali in sul maggiore bisogno
soccorsono parecchi conestabili a cavallo co’ loro cavalieri. Ed
essendo atticciata la battaglia, e stando i nemici attenti a quella
sperandone avere vittoria, altri cavalieri e masnadieri de’ Fiorentini
presono, scostandosi dall’oste, un’altra via, che i nemici non
s’accorsono, e valicarono l’Arno, e sopravvennono alla gente riposta di
messer Piero dall’altra parte del colle, i quali ruppono di presente,
e montarono al poggio, e improvviso furono sopra la gente grossa di
messer Piero, che stava attenta a vedere e ad aiutare quelli del
badalucco, e con grandi grida correndo col vantaggio del terreno loro
addosso, li ruppono e sbarattarono. Messer Piero per bontà del buono
cavallo dov’era montato con pochi compagni, non potendo ritornare in
Bibbiena, fuggendo ricoverò in Montecchio. Della sua gente furono
in sul campo più di cento morti, e dugento presi, e molti fediti. I
prigioni tornando l’oste li condussono a Firenze legati a una fune, e
poco appresso furono lasciati; e l’oste tornò vittoriosa, avendo preso
alcuna vendetta degl’ingrati traditori.

CAP. XII.
_Come si rubellò a’ Fiorentini Coriglia e Sorana._
In questo anno sentendo messer Francesco Castracani che i Fiorentini
erano inbrigati par la gente che l’arcivescovo teneva a guerreggiare
in Toscana, essendo forte in Lunigiana e in Garfagnana, a petizione
de’ Pisani fece furare a’ Fiorentini la rocca di Coriglia, la quale
appresso rendè a’ Pisani, a cui stanza l’avea furata, e’ Pisani la
presono, rompendo la pace a’ Fiorentini; ch’espresso era nella pace
rinnovata per lo duca d’Atene in nome del comune di Firenze, che in
niun modo di quella terra si dovessono travagliare. E appresso i detti
Pisani feciono con sagacità di grande tradimento torre a’ Fiorentini,
contro a’ patti della pace, la terra di Sorana, e rendutala da capo,
la ritolsono per indiretto, e poi in palese la difesono, non curando
i patti della pace. I Fiorentini per queste due terre non si mossono,
benchè grave li fosse l’oltraggio de’ Pisani. Messer Francesco avendo
avuto trecento cavalieri dall’arcivescovo di Milano, montato in grande
orgoglio, e confortato da’ Pisani, si pose ad assedio a Barga, ch’era
de’ Fiorentini, e avendo grande popolo la strinse intorno con più
bastie, sperandolasi avere per assedio. Lasceremo ora quest’assedio per
raccontare altre maggiori cose innanzi che Barga fosse liberata.

CAP. XIII.
_Come i tre comuni di Toscana mandarono ambasciadori in Boemia a far
muovere l’imperadore._
Avendo i tre comuni di Toscana presa e pubblicata la concordia col
vececancelliere dell’eletto imperadore, volendo mettere ad esecuzione
quello che per loro era stato promesso, catuno elesse de’ maggiori
cittadini confidenti al reggimento di quelli per suoi ambasciatori,
e mandaronli all’eletto imperadore a Boemia nella Magna per farlo
muovere, e per fargli il pagamento ordinato, e per essere al suo
consiglio per i tre comuni, nella promessa impresa passando egli in
Italia. Gli ambasciadori del nostro comune di Firenze furono cinque:
messer Tommaso Corsini dottore di legge, messer Pino de’ Rossi, messer
Gherardo de’ Buondelmonti cavaliere, Filippo di Cione Magalotti, e
Uguccione di Ricciardo de’ Ricci, a’ quali fu data grande e piena
legazione, e dato loro un popolare sindaco per lo comune, a potere
obbligare il comune, secondo le cose promesse al vececancelliere,
come paresse a’ detti ambasciadori, se altro bisognasse di fare.
Costoro tutti vestiti di fine panno scarlatto e d’altro fine mellato,
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