Cronica di Matteo Villani, vol. 2 - 04

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figliuolo di Bustaccio degli Ubertini, giovane di grande fama, valoroso
e pro’, e di grande aspetto e seguito, il quale per comandamento
del comune fu menato a Firenze: e credendosi campare, trovandosi il
bando generale di tutti quelli della casa degli Ubertini per la loro
ribellione, la vigilia di Natale fu dicollato, di cui gli Ubertini
riceverono gran danno, perocchè troppo era giovane di buono aspetto. A
costui fu tagliata la testa dirimpetto allo spedale di sant’Onofrio; e
messo il corpo nella cassa in due pezzi, e portandosi alla chiesa di
santa Croce, venuto a piè del campanile di quella chiesa, per spazio
d’una saettata di balestro o più il corpo si dibattè, e aperse le
giunture della cassa con tanto dicrollamento, che a pena fu ritenuta
che non cadde di collo agli uomini che ’l portavano; cosa assai
maravigliosa, ma fu vera e manifesta a molti, e noi l’avemmo da coloro
che ’l detto corpo nella cassa portarono, uomini degni di fede.

CAP. LI.
_Come il duca d’Atene assediò Brandizio._
In questi dì, avendo il re Luigi fatta certa richiesta di baroni del
Regno, fra gli altri vi venne messer Filippo della Ripa di Brandizio,
ricco d’avere e di piccola nazione, da cui il re con finte cagioni
intendea di trarre di molti danari. A costui fu rivelata l’intenzione
del re, ond’egli senza congio si ritornò in Puglia. Il re fattolo da
capo richiedere per contumacia, ebbe cagione di farlo bandire. Il
duca d’Atene che colle sue terre gli era vicino, per torgli il suo, e
per potere sotto la coverta di costui prendere Brandizio, se n’andò
in Puglia; e presa licenza di procacciare di recare al fisco i beni
di costui ch’era bandeggiato, raunò gente d’arme, e non sappiendo
il re che procedesse per questo modo, fece di suoi Franceschi e
d’altri soldati quattrocento cavalieri e millecinquecento pedoni, e
andò a oste a Brandizio. I terrazzani vedendosi questa gente addosso
improvviso si maravigliarono forte, e conobbono il fatto tirannesco, e
di presente s’unirono alla difesa, e non lo lasciarono accostare alla
città. Puosesi a campo di fuori, e cominciò a correre e fare preda
per lo paese d’intorno. Sentendo questo il re Luigi si maravigliò del
duca, che faceva di suo arbitrio quello che non gli era commesso, e
incontanente per lettere gli mandò comandando che da Brandizio si
dovesse levare: ma poco valsono i suoi comandamenti, che vi s’affermò
credendosi occupare quella terra con tirannesca intenzione. Sopravvenne
la tornata del Prenze di Taranto, e il re per farli onore, ch’era d’età
suo maggiore fratello, sentita la volontà de’ cittadini ch’aveano
amore al Prenze, così assediata glie la privilegiò; e i cittadini di
concordia l’accettarono per loro signore, e allora il duca se ne levò
da assedio.

CAP. LII.
_Come i Perugini feciono pace co’ Cortonesi._
In questo verno, sentendosi per l’Italia che a certo la pace generale
si dovea fare tra i comuni di Toscana, e l’arcivescovo di Milano e’
suoi aderenti ghibellini, i Cortonesi per mostrare più liberalità a’
Perugini, e il comune di Perugia per non obbligarsi al patto della
generale pace, di concordia vollono pervenire a quella, e di buona
volontà feciono pace tra loro. È vero che innanzi la pace i Cortonesi
non fidandosi de’ Perugini domandarono sodamenti, e il comune di
Perugia a grande istanza richiese il comune di Firenze, che fosse
mallevadore per lui a’ signori e al comune di Cortona di diecimila
marchi d’argento, che manterrebbe a’ Cortonesi buona e leale pace. Il
nostro comune mosso alle richieste di quello di Perugia, fece sindaco
un suo cittadino chiamato Otto Sopiti, e per lui fece il sodamento e
l’obbligagione predetta a’ signori e al comune di Cortona liberamente,
come i Perugini seppono divisare.

CAP. LIII.
_Come il popolo di Gaeta uccisono dodici loro cittadini per la carestia
ch’aveano._
Ancora lo stato dello sviato Regno non era queto dalla fortuna e in
debito reggimento, essendo quest’anno generale carestia in Italia, il
minuto popolo di Gaeta, avendo invidia a’ buoni e ricchi cittadini
mercatanti di quella città, del mese di dicembre del detto anno si
mossono a furore e presono l’arme, e furiosi corsono per la terra,
a intenzione d’uccidere quanti trovare potessono di loro maggiori:
e in quell’empito uccisono dodici de’ migliori che trovarono senza
alcuna misericordia, grandi e onesti e buoni mercatanti; gli altri
si fuggirono e rinchiusono in luoghi ove il furore del popolo non si
potè stendere. Il re Luigi avendo intesa questa iniquità vi cavalcò
in persona con gente d’arme per farne giustizia, e giunto in Gaeta,
fece inquisizione di questo fatto; la cosa fu scusata per la furia
d’alquanti, e furono presi e giustiziati de’ meno possenti; degli altri
si fece composizione di moneta, e chi fu morto s’ebbe il danno, e la
corte pervertì; e racquetata la cosa, il re gli ordinò, e tornossene a
Napoli.

CAP. LIV.
_Come il papa volle trattare pace da’ Genovesi a’ Veneziani._
In questo medesimo verno, papa Innocenzio mandò al comune di Genova e a
quello di Vinegia che mandassono a lui gli ambasciadori ch’erano stati
a papa Clemente a trattare della loro pace, e per la morte sopravvenuta
del detto papa se n’erano partiti senza essere d’accordo, perocch’egli
intendea di metterli in pace giusta suo podere. I Genovesi non vollono
tornare a corte, nè entrare in trattato di pace co’ Veneziani, anzi
ordinarono lega e compagnia col re d’Ungheria contro a’ Veneziani. E
il detto re avendo promessa compagnia co’ Genovesi mandò a Venezia
al comune che gli dovesse restituire Giara, e l’altre città e terre
ch’aveano occupate del suo reame nella Schiavonia. I Veneziani feciono
agli ambasciadori quella savia risposta che seppono, facendosi tra
loro beffe della sua domanda; nondimeno non senza paura, e con molta
sollicitudine e con grande spendio fornirono a doppio, oltre all’usato,
tutte le terre che teneano in quella marina.

CAP. LV.
_Come i Fiorentini osteggiaro Sangimignano, e fecionli ubbidire._
Addietro è narrato come quelli che reggeano Sangimignano teneano
trattato col comune di Firenze, ma non fidando, non si poteano per
lo comune riducere a fermezza, e il comune temendo che in questa
vacillazione peggio non ne seguisse, del mese di febbraio del detto
anno vi mandò messer Paolo Vaiani di Roma, allora podestà di Firenze,
con seicento cavalieri e con grande popolo, i quali giunti intorno alla
terra, e non avendo risposta da quelli d’entro, a volontà del nostro
comune vi si misono a campo, e cominciarono a dare il guasto; ma però
alcuno Sangimignanese o loro gente d’arme non uscirono fuori per fare
alcuna resistenza o altra vista, ma dopo il ricevuto danno vennono alla
concordia, che il comune di Firenze dovesse fare la pace fra loro e
gli usciti, e che d’allora gli usciti avessono i frutti de’ loro beni,
ma dovessono stare fuori della terra sei mesi, e fatta la pace tra gli
Ardinghelli e’ Salvucci, per lo comune di Firenze detto, e’ potessono
tornare nella terra: e che il comune di Firenze oltre al termine de’
tre anni che ne dovea avere la guardia l’avesse anche cinque anni, e
che per patto vi tenesse settantacinque cavalieri col capitano della
guardia alle loro spese. E fatto il decreto e le cautele per i loro
consigli, e ricevuto il capitano colla sua compagnia, l’oste se ne
tornò a Firenze.

CAP. LVI.
_Come in Italia fu generale carestia._
In questo anno fu generale carestia in tutta Italia; in Firenze
cominciò di ricolta a valere lo staio del grano soldi quaranta di
libbre cinquantadue lo staio, e in questo pregio stette parecchi mesi:
poi venne montando tanto, che andò in lire cinque lo staio, i grani
cattivi e di mal peso. Le fave lire tre lo staio, e così i mochi e
le vecce: il panico soldi quarantacinque in cinquanta, e la saggina
soldi trenta in trentacinque. Il vino di vendemmia valse il cogno
fiorini sei d’oro del più vile, e otto e dieci il migliore, e montò
in fiorini quindici il cogno. La carne del porco senza gabella lire
undici il centinaio; il castrone denari ventotto in trenta la libbra
tutto l’anno. La vitella di latte montò danari trentadue in quaranta
la libbra; l’uovo danari cinque e sei l’uno; l’olio lire cinque e
mezzo in sei l’orcio, di libbre ottantacinque. Tutti erbaggi furono
in somma carestia; e in que’ tempi valea il fiorino dell’oro lire tre
soldi otto di piccioli. Tutti drappi da vestire, di lana, e di lino, e
di seta, furono in notabile carestia, e così il calzamento. E benchè
abbiamo fatto conto di Firenze, in quest’anno fu tenuto in tutta Italia
che Firenze avesse così buono mercato comunalmente come alcuna altra
terra. Ed è da notare, che di così grande e disusata carestia il minuto
popolo di Firenze non parve che se ne curasse, e così di più altre
terre; e questo avvenne perchè tutti erano ricchi de’ loro mestieri:
guadagnavano ingordamente, e più erano pronti a comperare e a vivere
delle migliori cose, non ostante la carestia, e più ne devano per
averle innanzi che i più antichi e ricchi cittadini, cosa sconvenevole
e maravigliosa a raccontare, ma di continova veduta ne possiamo fare
chiara testimonianza. E quello che a altri tempi innanzi alla generale
mortalità sarebbe stato tomulto di popolo incomportabile, in quest’anno
continovo improntitudine e calca del minuto popolo fu nella nostra
città ad avere le cose innanzi a’ maggiori, e di darne più che gli
altri. E così festeggiava, e vestiva e convitava il minuto popolo, come
se fossono in somma dovizia e abbondanza d’ogni bene.

CAP. LVII.
_Come i Romani uccisono colle pietre Bertoldo degli Orsini loro
senatore._
Senatori di Roma erano il conte Bertoldo degli Orsini e Stefanello
della Colonna, e dal popolo erano infamati d’avere venduta la tratta,
e lasciato trarre il grano della loro Maremma, e questo era fatto per
loro, non pensando che ’l grano andasse in così alta carestia. In
Campidoglio si faceva il mercato a dì 15 di febbraio del detto anno, e
la sù abitavano i senatori; e accoltovisi grande popolo per comperare
del grano, e trovandone poco e molto caro, corsone a furore al palagio
de’ senatori con le pietre in mano. Stefanello ch’era giovane fu
accorto, e innanzi che il popolo moltiplicasse al palagio col furore si
fuggì per una porta di dietro, e salvò la persona; il conte Bertoldo
fu più tardo, e volendosi fuggire, fu sorpreso dal furore di quel
popolo, e colle pietre lapidato e morto: e tante glie ne gittarono
addosso, acciocchè catuno fosse partecipe a quella vendetta, che bene
due braccia s’alzò la mora delle pietre sopra il corpo morto del loro
senatore; e fatto questo, il popolo comportò la carestia più dolcemente.

CAP. LVIII.
_Come fu tagliata la testa a Bordone de’ Bordoni._
In questi dì, del mese di febbraio sopraddetto, essendo podestà
di Firenze messer Paolo Vaiani di Roma, uomo aspro e rigido nella
giustizia, avendo presa informazione di mala fama contro a Bordone
figliuolo che fu di Chele Bordoni, antico e grande e potente popolano
di Firenze, essendo questo giovane sopra gli altri leggiadro e di
grande pompa, il fece pigliare per ladro, apponendogli molti furti, e
tutti per martorio gliel fece confessare. I suoi consorti, ch’erano
in grande stato in comune, co’ priori e collegi il difendeano, e non
parea loro che il podestà il dovesse condannare a morte; il mormorio
del popolo minuto era contro a lui, e ’l podestà non si volea muovere
ad alcuno priego de’ signori; onde avvenne, per male consiglio, ch’e’
priori, acciocchè ’l podestà non potesse fare uficio, cassarono tutta
la sua famiglia. Costui più inacerbito lasciò la bacchetta della sua
podesteria a’ priori, e tornossi al palagio come privato uomo. Il
mormorio si levò grande nella città contro a’ priori, e parendo loro
avere fatto male, con ogni preghiera cercarono di poterlo ritenere;
ma l’astuto Romano, sentendo scommosso il popolo, la notte montò a
cavallo e andossene a Siena. Il popolo sentendolo partito, quasi come
comunità rotta trassono al palagio de’ priori e a quello della podestà,
e doleansi dicendo, che i potenti cittadini che facevano i grandi mali
non voleano che fossono puniti, e i piccoli e impotenti cittadini
d’ogni piccolo fallo erano impiccati, e smozzicati, e dicollati; e per
questa novità fu la città in grande smovimento, operandosi l’animosità
delle sette. I signori vedendo la città a cotal condizione, di subito
gli mandarono ambasciadori, e con fiorini duemilacinquecento d’oro che
gli diedono per suoi interessi fecionlo ritornare: e ritornato, per
grazia fece dicollare Bordone, e il popolo fu racquetato.

CAP. LIX.
_Come si pubblicò la pace dall’arcivescovo a’ comuni di Toscana._
Gli ambasciadori de’ comuni di Toscana che furono mandati a Sarezzana
per fermare la pace coll’arcivescovo di Milano, e co’ suoi aderenti
ghibellini di Toscana e d’Italia, trovarono la materia sì acconcia,
eziandio contro alla speranza, che di presente vi dierono fermezza, del
mese di marzo 1352; e appresso, il primo dì d’aprile 1353, si piuvicò
in parlamento di tutto il popolo. E quanto che catuno desiderasse
pace per cagione di riposo e di fuggire spesa, niuna festa se ne
fece, nè niuno rallegramento nel popolo se ne vide, quasi stimando
catuno la pace del potente tiranno troppo vicino, essere più nel
suo arbitrio sottoposta a inganno che a fermezza di certo riposo.
Nella pace in sostanza si contenne, che generale e perpetua pace sia
tra l’arcivescovo di Milano, e tutte le sue città e distrettuali, e
tutti coloro che con lui furono nella guerra contro a’ Fiorentini,
e’ Perugini, e’ Sanesi, e’ loro distrettuali, Pistoiesi, e Aretini,
e altri simiglianti, tutti da catuna parte e aderenti loro debbano
osservare buona e leale pace; e l’arcivescovo è tenuto di mettere in
mano comune la Sambuca e ’l Sambucone: e fatto questo, il comune di
Firenze un mese appresso debba disfare la rocca di Montegemmoli, con
patto, che disfatta debba riavere le dette castella depositate; e il
detto Montegemmoli non si debba per alcuna parte redificare: e che
i Fiorentini debbano rendere Lozzole agli Ubaldini, e l’arcivescovo
Piteccio e l’altre tenute de’ Pistoiesi; e che il comune di Firenze dee
trarre di bando tutti coloro che fossono bandeggiati per quella guerra,
e chiunque fosse dichiarato aderente del detto arcivescovo: patto assai
pregno, e doppio, e poco accetto, la cui dichiarazione fu commessa a
Lotto e a Franceschino Gambacorti di Pisa, mezzani di questa pace.
Questo fu assai lieve legame di pace, avvegnachè ci si stipulasse pena
fiorini dugentomila d’oro, ma per la grandezza del signore di Milano,
e per la potenza de’ tre comuni che non si avvilivano per lui, rimase
contenta catuna parte al legame del titolo della pace, senza altra
sicurtà dimandare o prendere.

CAP. LX.
_L’inganno ricevette il comune di Firenze dagli sbanditi._
Il comune di Firenze in questo fatto degli sbanditi fu ingannato da’
suoi medesimi ambasciadori, de’ quali niuno si potè incolpare, ch’erano
secolari, e uomini che non sapeano quello ch’e’ titoli de’ giudici
portassono, e a loro non se n’aspettava alcuna cosa, ma incolpato ne
fu un savio giudice e grande avvocato chiamato messer Niccola Lapi,
di lieve nazione, sospetto a parte, ma per la sua scienza il comune
gli commise l’ordinazione delle scritture per non essere ingannato.
Costui lasciò ne’ patti un capitolo non promesso nè pensato, per lo
quale tutti gli sbanditi e rubelli del comune di Firenze poteano essere
ribanditi e ristituiti ne’ loro beni, e così degli altri comuni di
Toscana. E il pertugio di questo titolo fu, che a’ patti s’aggiunse,
che tutti gli aderenti, e parenti e seguaci di messer Carlino Tedici
e de’ consorti ribelli di Pistoia, dovessono essere ribanditi, e
restituiti ne’ beni di qualunque bando o condannagione ch’avessono dal
comune di Pistoia, e questa fu l’intenzione vera: ma arroso fu, e di
Firenze, e di Perugia, e di Siena, e dell’altre terre di Toscana, salvo
chi avesse avuto bando nel tempo della guerra, essendo all’ubbidienza
del comune di Pistoia: bando enorme e non parziale. Qui si comprese la
malizia di questo fallo: se per errore fu commesso, grande vergogna
fu al savio avvocato, se per malizia, meritò grande pena, perocchè
sotto quel titolo messer Carlino faceva suo aderente cui egli voleva;
e Franceschino e Lotto gli dichiaravano, e ’l savio consigliava, e ’l
notaio ch’era sopra ciò cancellava; e avevane già dichiarati più di
duemila, e cancellati da trecento. Ed era una mercatanzia tra tutti di
grande guadagno, ma di maggiore danno e vergogna del nostro comune, e
molto se ne dolevano i cittadini. Ma gli autori del fatto, con mettere
paura di non conturbare la pace, ogni lingua acchetavano, e le borse
si empievano. E procedendo a voto il primo fallo, un altro se n’arrose
per l’avvocato già detto, contro al beneficio ricorso a utilità della
patria, che i dichiaratori da Pisa aveano mandato a Firenze intorno di
sedici dichiarazioni fatte nel principio in diversi dì, acciocchè a
Firenze fossono per lo notaio diputato sopra ciò cancellati di bando.
Le dichiarazioni furono portate al detto messer Niccola Lapi, il quale
vide che per l’ordine de’ patti non se ne poteva cancellare per ragione
più che quelli ch’erano dichiarati per lo primo dì, e da quel dì
innanzi il comune di Firenze era libero della sua promessa. Costui di
presente le rimandò a dietro, e scrisse, che non valeano dichiaragioni
che facessono separate in diversi dì; e per questo avvenne, che poi
quelle che si feciono, e che si mossono a fare in diversi e lunghi
tempi, le riducevano a essere fatte nel primo dì che gli cominciarono
a dichiarare, commettendo in questo processo frode, e facendo fare
le carte false, che furono più di trecento quelle che si recarono
a cancellare. Di cotali falli il comune s’avvedeva e doleva, ma le
preghiere degli amici non lasciavano al comune fare giustizia in questi
tempi. Ma de’ mali principii riesce spesse volte mal frutto, come in
parte uscì di questo, secondo che appresso diviseremo, mutando un poco
nostro ordine di travalicare il tempo per imporre fine a questa materia.

CAP. LXI.
_Di questa medesima materia._
Avvenne, valicato l’anno predetto, che di questa corrotta radice
procedette una corruzione che terminò la causa e la vita del notaio
a ciò diputato, e d’un giudice ch’avea cominciato a pascersi sopra
questa carogna. A ser Francesco di ser Rosso notaio di grande autorità,
ch’aveva procurato questo uficio, fu portata carta d’una dichiarazione
d’uno Ghiandone di Chiovo Machiavelli condannato, uomo infame e di mala
condizione; del nome e soprannome di costui erano rimase certe lettere,
il mese e l’altre rase, e sottilmente per simiglianti lettere rimesse,
e con molta istanzia per alcuno suo consorte, e alcuno amico allora de’
priori, fu stretto ser Francesco a cancellarlo, e messer Corbizzesco
giudice da Poggibonizzi a consigliarlo. I quali più volonterosi al
servigio che a conoscere la malizia ch’appariva nella carta, benchè
tutta paresse una lettera, il savio consigliò, e il notaio cancellò. E
sentendosi la diliberazione di costui a Pisa, Franceschino Gambacorti
scrisse a’ signori scusandosi, che costui per la sua infamia mai non
avea voluto dichiarare. Onde preso il notaio, e appresso il giudice,
per il marchese dal Monte valente podestà di Firenze, dopo lunga
discettazione e combattimento di cittadini, e d’immunità di privilegio
ch’aveva ser Francesco, mercoledì a dì 21 di maggio 1354 avendoli
condannati al fuoco, per grazia commutò la pena, e colle mitere in
capo li fece dicollare. Per la morte di ser Francesco mancò il potere
cancellare; e mancato questo, si rimase il dichiarare, e il comune
dimenticò gli altri falli per questa cagione, e per troppa mansuetudine.

CAP. LXII.
_Come messer Piero Sacconi de’ Tarlati tentò di fare grande preda
innanzi che fosse bandita la pace._
Messer Piero Sacconi de’ Tarlati ch’aveva in Bibbiena delle masnade
dell’arcivescovo di Milano, sentendo ferma la pace, innanzi ch’ella
si bandisse, come volpe vecchia, accolse gente quanta ne potè avere,
a piè e a cavallo, e sapendo che i villani del contado d’Arezzo per
la novella della pace s’assicuravano colle bestie a’ campi, cavalcò
subitamente il contado d’Arezzo infino a Laterina, accogliendo il
bestiame, e mettendosi la preda innanzi. I paesani stormeggiando da
ogni parte s’avvidono del fatto, e feciono tanto, che per campare
le persone i cavalieri e’ masnadieri abbandonarono la preda, e con
vergogna tornarono a Bibbiena. E per simil modo in questi medesimi dì i
soldati del Biscione ch’erano a Montecarelli con il conte Tano corsono
in Mugello per fare preda, innanzi che la pace fosse pubblicata. Il
vicario della Scarperia co’ soldati de’ Fiorentini gli cacciarono de’
campi fino a Montecarelli. Queste cavalcate non erano degne di memoria,
ma per esempio a’ popoli che non sono offenditori, che almeno si
guardino, acciocchè non incorrino nell’antico proverbio, che dice, tra
la pace e la triegua guai a chi la lieva.

CAP. LXIII.
_Come il corpo di messer Lorenzo Acciaiuoli fu recato del Regno a
Firenze, e seppellito a Montaguto a Certosa onoratamente._
Togliendone la quiete della pace materia da scrivere, forse alcuna
scusa ci fa a raccontare quello ch’ora scriveremo di privata novità.
Messer Niccola Acciaiuoli di Firenze grande siniscalco del reame di
Sicilia, governatore del re Luigi, aveva un figliuolo primogenito
cavaliere e grande barone, appartenendogli la moglie promessa della
casa di Sanseverino, giovane provato in arme, adorno di belli costumi,
grazioso e di grande aspetto. Costui, come a Dio piacque, innanzi al
tempo, all’aspetto degli uomini, rendè l’anima a Dio, e morì nel Regno
in assenza del padre. Ed essendogli annunziata la morte a Gaeta di
cotanto caro e diletto figliuolo, il magnanimo ristrinse il dolore
dentro senza mutare aspetto, e colla molta pazienza, e con abito ornato
di grandi virtudi comportò la morte del caro figliuolo, dicendo, io era
certo che dovea morire, e che credeva che Iddio avesse eletto il tempo
di più salute dell’anima sua. E avendo egli grande devozione al nobile
monistero edificato a sua stanza in sul poggio di Montaguto, posto tra
la Greve e l’Ema, presso alla città di Firenze, a due miglia, il quale
si chiama il monistero di Certosa, quivi mandò con grande comitiva e
spesa a seppellire il corpo del figliuolo. E recato prima a Firenze, e
fatti gli ornamenti più che militari, e invitati per i consorti tutti i
buoni cittadini, a dì 7 d’aprile 1353 fu portato alla sepoltura in una
bara cavalleresca, con due grandi destrieri, l’uno dinanzi e l’altro
didietro, coperti di zendado coll’arme degli Acciaiuoli, e la bara
ov’era la cassa col corpo era coperta con fini drappi e baldacchini di
seta e d’oro, e disopr’essi veluto chermisi fine, e in su i cavalli gli
scudieri vestiti a nero che guidavano i cavalli con la bara; e innanzi
alla bara avea sette scudieri in su sette grandi destrieri, tutti
coperti infino a terra, innanzi con l’arme d’argento battuto degli
Acciaiuoli: i due primi catuno portava uno cimiere, il terzo portava lo
stendale, e gli altri quattro seguenti catuno una grande bandiera tutta
di quell’arme con le targhe rilevate nel campo azzurro, e un leone
rampante bianco com’è la detta arme, con grande novero di doppieri
dinanzi e intorno al corpo, cosa magnifica a ogni barone, eziandio
se fosse della casa reale. I grandi e orrevoli cittadini di Firenze
accompagnarono il corpo infino alla porta a san Piero Gattolino; poi
gran parte montati a cavallo andarono col corpo infino al monistero, e
gli altri si tornarono a casa. Abbiamo fatta questa memoria perchè fu
nuova e disusata alla nostra città, e magnifica all’autore di quella,
che più di cinquemila fiorini d’oro costò la spesa.

CAP. LXIV.
_Come si fe’ l’accordo da’ Sanesi a Montepulciano._
I Sanesi avendo voglia di vincere Montepulciano, essendovi stati ad
assedio lungamente, vi puosono un gran battifolle molto di presso.
Nella terra avea buone masnade di cavalieri e di masnadieri, i quali
spesso avrebbono danneggiati i Sanesi, se fossono stati lasciati
guerreggiare, ma com’è detto addietro, essendo l’una parte e l’altra
guelfi e amici de’ Fiorentini e de’ Perugini, essendo con catuno gli
ambasciadori de’ detti comuni nel campo e nella terra, e benchè fosse
molto malagevole, infine gli recarono a questa concordia: che la terra
rimanesse al governamento del popolo, e stesse venti anni nella guardia
del comune di Siena, tenendovi un capitano di guardia con quindici
cavalieri e con venti fanti, avendo in sua signoria una delle porti
della terra e una campana, e che i Sanesi dovessono dare contanti,
infra certo termine, a messer Niccolò de’ Cavalieri per ristoro delle
spese fatte fiorini seimila, e dovesse stare dieci anni con immunità
personale e reale in quella sua terra; e a messer Iacopo de’ Cavalieri
che n’era fuori dovessono dare fiorini tremila d’oro, e riavere le
rendite de’ suoi beni: per lo quale accordo i due comuni per loro
sindacato furono mallevadori. E fatto questo, a dì 2 di maggio del
detto anno i Sanesi presono la guardia ordinata, e levarsi da campo;
e rifornita la terra, allegri, con bella e buona pace si tornarono a
Siena, grati del beneficio ricevuto da’ due comuni, come l’operazioni
di corrotta fede appresso dimostreranno.

CAP. LXV.
_D’una notabile grandine venuta in Lombardia, e d’altro._
A dì 7 del mese di maggio del detto anno, turbato il tempo con ravvolto
enfiamento di nuvoli, ristretta la materia umida da’ venti d’ogni
parte, con disordinato empito sopra la città e parte del contado di
Cremona ruppe, mandando sopra quella pietre sformate di grandine, la
quale, cui trovò alla scoperta, uomini e femmine, percotendo li uccise,
e la città premette sì forte, che tutte le copriture de’ tetti ruppe
e macinò senza rimedio, con grandissimo danno de’ cittadini. E le
pietre della grandine ch’erano maggiori si trovarono di libbre otto e
once tre, e le minori erano d’una libbra di peso. In questo medesimo
tempo l’arcivescovo di Milano mandò per fare redificare le mura e case
del Borgo a san Sepolcro, rovinate e guaste per lo tremuoto, trecento
maestri. I Borghigiani rimasi in vita erano tutti ricchi sopra modo
per l’eredità de’ morti, e per gli sconci guadagni delle prede de’
loro vicini condotte al Borgo, e perchè a’ soldati al continovo aveano
venduto caro la loro vittuaglia e gli altri arnesi, e però, venuti i
maestri, cominciarono a edificare le case e’ palagi, e a fare troppo
più nobili e più belli abituri che prima non aveano: ma poco poterono
edificare, che la terra mutò stato, come appresso nel suo tempo
racconteremo.

CAP. LXVI.
_Come sotto le triegue procedettono le cose in Francia._
Essendo alcuno tempo durate le triegue tra il re di Francia e quello
d’Inghilterra, infra il detto tempo alquante terre in Brettagna
e alcuna in Guascogna che si teneano per lo re di Francia, per
ingegno e per malizioso sommovimento s’arrecarono dalla parte del
re d’Inghilterra; per la qual cosa turbato il re di Francia, fece
bandire la guerra per tutto il suo reame: e a ciò lo indusse non meno
certi trattati scoperti contro della sua persona, ch’e’ baratti di
quelle terre. E fatto questo, del mese di maggio del detto anno, il
cardinale di Bologna, e gli altri prelati e baroni che trattavano la
pace si misono al riparo, e tanto operarono, che triegue si rifeciono
tra i detti re. E stando le cose di là in successioni di triegue, non
accaddono in lungo tempo cose notevoli in que’ paesi.

CAP. LXVII.
_Come i Genovesi spregiarono la pace de’ Veneziani._
Tornando nostra materia a’ fatti de’ Genovesi e de’ Veneziani, in
questo primo tempo del detto anno i Genovesi levarono lo stendale di
sessanta galee, le quali incontanente cominciarono ad armare, e per
la compagnia ch’aveano fatta col re d’Ungheria contro a’ Veneziani
v’aggiunsono l’arme del detto re; e intendeano, che come e’ fossono
colla loro armata in mare, che ’l detto re avesse in Ischiavonia i
suoi Ungheri a fare guerra per terra a’ Veneziani, come avea promesso.
E certe galee ch’aveano allora in concio d’arme mandarono improvviso
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