Amelia Calani ed altri scritti - 10

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diritta al sole; i gigli anch'essi appassirono nel modo istesso che
questo coricino un certo giorno mi scivolò per terra e si ruppe.
Adesso istituisco mio erede il Re: egli rederà questo braccio rabescato
di figure strane; gli raccomando a custodirselo dentro uno stipo di oro,
nè più nè meno di quello che ho inteso costumasse fare Alessandro dei
poemi di Omero.
Alessandro è fama non preterisse giorno senza leggerne un verso; io
raccomando al mio Re adoperare lo stesso col mio libro di storia che gli
lascio.
E adesso, maestro, che ti par egli del mio libro di storia? — Eh!
rispose il maestro, purgato e corretto mi pare adattato _ad usum
Delphini_.
Certo vecchio Côrso, cultore felice e innamorato della Musa italiana,
dacchè la dea non senza molto rammarico lascia cotesta isola, e
gettandovi dietro uno sguardo infuocato ne accende di tratto in tratto
qualche anima degna di sentirla e di significarla, pianamente favellò:
— Certo cotanto non ardì la Musa nostra, e nuovi modi mi paiono questi,
degni veramente di molta considerazione. Però non è vero che di questa
maniera poesie difettiamo noi, piuttosto è vero che delle note ne
possediamo poche e delle notissime anco meno: ciò in parte colpa dei
poeti che schivano esercitarvisi, parte, come credo, per la soverchia
schifiltà della lingua, il verso troppo breve, la rima tiranna. Fra le
note pongo il _Cinque Maggio_ del conte Manzoni, ed a ragione non
diventò notissima perchè arduo a comprendersi il principio, e compreso
invenusto, parole lontane dall'uso del popolo, anzi dalla lingua
italiana, così ch'egli ebbe o volle mutuarle dalla latina, e qua e là
immagini, se non nel concepimento, certo nella espressione contorte:
senza queste mende la si potrebbe contrapporre a qualsivoglia oda
straniera, sicuri di non restare vinti al paragone: ma che andiamo noi
cercando altrove? La poesia popolare cerchisi fra il popolo, e presso di
lui anche noi la troveremo; ed io vo' che sappiate che se un ingegno
arguto si accingesse a siffatta raccolta, noi altri Côrsi saremmo primi
o fra i primi a contribuire con poesie da stare a petto con le più
reputate. — Siccome gli ascoltanti, increspando le labbra, pareva
piuttosto compatissero cotesto eccesso di patrio zelo che credessero al
vanto, il vecchio aggiunse: — Nè da quello che dissi dibatto un iota; in
prova di che ecco io voglio recitarvi un _vocèro_[13], il quale se
quanto a immagini impallidisce a fronte delle vostre ode, le supera
lunga pezza di affetto; imparatelo a mente, posatevi a poco a poco lo
spirito, e troverete che come l'uomo, il quale torna più spesso a
contemplare le madonne del Raffaello vie più sempre se ne innamora, così
vi accadrà, recitandolo, di questo _vocèro_. I _vocèri_ voi sapete che
sieno, e se nol sapete, in breve vi dirò io: sono canzoni funebri
cantate da amici o da parenti sopra il morto innanzi che lo portino via
di casa: la più parte dei popoli chiamati barbari conobbero e conoscono
simili nenie: i Greci anco ai dì nostri gli appellano _mirologi_; di
eterna bellezza quello di Andromaca sopra il capo di Ettore. Ora
immaginate voi una povera vedova, madre di unica figliuola, stella della
pieve, pupilla degli occhi suoi, che se la vede morta stesa su la tola,
ornata di fiori, vestita delle sue più vaghe vesti, sul punto di esserle
portata via per sempre... capite! per sempre, e che innanzi di staccarsi
da lei sfoghi l'angoscia che le passa l'anima, voi certo penserete nel
duro caso che possano profferirsi accenti mirabili: sentite adesso se
questi accenti prorotti dal cuore di Dariola Danesi sopra la salma della
sua figliuola Romana corrispondano alla vostra aspettativa:
Or eccu la miò figliola
Zitella di sedici anni,
Eccula sopra la tola
Dopu cusì lunghi affanni;
Or eccula bestita
De li so più belli panni.
Cu li so panni più belli
Se ni vole perte avà:
Perchè lu signore qui
Nun la vole più lascià.
Chi nascì pe' u Paradisu
A stu mondo un po' imbecchià.
O figliola, lu to visu
Cusì biancu e rusulatu
Fattu pe lu Paradisu
Morte cumme l'ha cambiatu!
Quando eo lo vecu cusì
Mi pare un sole oscuratu.
Eri tu fra le migliori
E le più belle zitelle,
Cumme rosa tra li fiori,
Cumme luna fra le stelle:
Tanto eri più bella tu
Ancu in mezu a le più belle.
I giovani d'u paese,
Quandu t'eranu in presenza
Parianu fiaccule accese;
Ma pieni di riverenza:
Tu cun tutti eri cortese
Ma cun nimmu in confidenza.
Nella jesa tutti quanti
Dall'ultimu fino a u primmu
Guerdavanu sola a te,
Ma tu non guerdava nimmu,
E appena detta messa
Mi dicii: mamma partimmu.
Eri cusì stimmata,
E cusì piena di onore,
E poi cusì addutrinata
Nelle cose d'u Signore:
Altru che divuzione
Non ti si truvava nel core.
Chi mi cunsulerà mai,
O speranza di a to mamma,
Avà che tu ne vai
Duve u Signore ti chiamma?
Oh! perchè u' Segnore anch'ellu
Ebbe di te tanta bramma?
Ma tu ti riposi in celu
Tutta festa, tutta risu,
Perchè unn'era degnu u mundu
D'avè cusì bellu visu.
Oh quantu sarà più bellu
Avale lu Paradisu!
Ma quantu pienu di affanni
Sarà lu mundu per me!
Un ghiornu solu mille anni
Mi sarà pensandu a te.
Domandendu sempre a tutti:
La miò figliola dov'è?
Oh! perchè mi strappi, morte,
Da lu senu a miò figliola,
E perchè di più mi lasci
Quinci a pienghie sempre sola?
Cosa voi ch'eo faccia qui
S'ella più nun mi cunsola?
Tra parenti senza affettu,
Tra bicini senz'amore,
S'eo cascu malata in lettu
Chi mi asciuverà u sudore?
Chi mi derà un gottu d'acqua?
Chi nun mi lascerà more?
O cara la miò figliola,
Pensu che sarà di me
Becchia, disperata e sola,
Quandu mai pudrachiù avè
Un'ora di contentezza,
Un mumentu di piacè!
S'eu pudissi almeno more
Come tu se' morta tu,
O speranza di u miò core,
E po' anch'eo piglià all'insù
E truvatti; e sta cun tecu
Senza perderti ma' più!
Prega dunque lu Signore
Che mi cacci via di qui,
O speranza d'u miò core;
Ch'eo non possu sta cusì:
Altrimenti u miò dulore
Un pudrà mai più finì.
[13] Gli Egiziani avevano il manéro insegnato per tradizione da
_Lino_; cioè i Greci dicevano Lino quel cantico di lutto che
_manéros_ dicevano gli Egizii. Fabr. B. G. I, c. XIV, 7.
Causa d'insegnamento perenne il teatro, come di lunga meditazione. Molti
in varia maniera vi scrissero sopra, e certo i pericoli dello esporre le
passioni domestiche ci parvero sempre gravi; egli è ben vero che per
ordinario il poeta mette il segno a mostrarci come queste passioni, se
trasmodate continuino la corsa scarmigliata, rovinino, e come o a mezza
corsa contenendosi, e stornando in tempo ed anco fuori di tempo, valgano
a confermare o restituire con la quiete dell'animo proprio la
estimazione altrui; nè il poeta ai giorni nostri potrebbe adoperare
diversamente, costumando gli uomini prendersi cura tenerissima delle
apparenze, quanto più si discostano dalla sostanza della virtù; ma a che
pro questo? La esperienza chiarisce che il sangue risente maggiore
spinta al disordine dello spettacolo della passione sfrenata, che
l'anima valore a contenersi dal pentimento di quella. Forse gioverebbe
mantenere i drammi alquanto appartati dal vero, e per così dire dentro
certe forme convenzionali: a ciò siamo condotti per analogia dal vedere
come nelle arti che imitano la natura fisica dell'uomo ci percuota
maravigliando lo aspetto di una statua condotta da valoroso maestro, e
ci spaventi il simulacro di cera. Ora come succede questo? Forse
rassomiglia il simulacro di marmo e quello di cera apparisce deforme? Al
contrario perfetta è la riproduzione del vero nella immagine di cera,
uguali i capelli, gli occhi, le labbra, niente manca, perfino le
palpebre e il tessuto dei vasi linfatici; che più? lo stesso moto degli
occhi. Invece la statua di marmo rammenta bene l'originale, ma tale e
quale non lo effigia. Donde parrebbe potersi ricavare questa regola che
come nelle belle arti il preciso ritratto del corpo infastidisce, così
nella poesia drammatica il troppo puntuale sponimento della passione
nuoca. Ancora, se vogliamo favellare col cuore in mano, lo scopo che
affermano proporsi la commedia, ch'è quello di emendare, castigando, i
costumi, se vogliamo favellare sincero, è precetto rugginoso, rimasto
dentro le poetiche come un mangano dei tempi di mezzo in qualche museo
di armi. Amore, e sempre amore, argomento dei drammi, il quale
partorisce diletto più acuto quanto più si manifesta, o immane, o
scellerato, o furbesco, di ogni maniera insomma, purchè fuori del
consueto, e se non paresse troppo grande traslato, vorremmo dire
_gladiatorio_. Fra tanto deviamento di scopo del poeta teatrale ci parve
sempre degno di molta commendazione Vittore Hugo, il quale co' suoi
drammi si propose persuadere una verità confortante davvero, ed è che
alla creatura umana comunque sprofondata nel delitto e nel vituperio
rimarrà sempre aperta la via della redenzione quante volte o conservi o
le sorga nell'anima un alto e puro affetto. S'egli abbia conseguito
sempre il suo assunto, o se altri il potesse più e meglio di lui ci
asterremo cercare: a noi basti averlo proposto ad esempio. Presso noi il
teatro, se veracemente intende assumere le parti di educatore (e se lo
vuole lo può), badi a provvedere al massimo nostro bisogno: bisogno
supremo nostro non istà nello ingannare zii avari, tutori gelosi,
sbertare arcifanfani e via discorrendo; i vizi che adesso ci fanno
guerra sono ipocrisia, viltà, frivolezza, ignoranza di domestiche
storie, amore di patria nessuno, la turpe gara dei debiti e dei
fallimenti con la ostentazione del lusso corruttore di ogni buono
ordinamento vuoi domestico o vuoi pubblico.
Siccome queste parole s'indirizzano a cui, se vuole, saprà troppo bene
comprenderle, così le cesseremo raccomandandogli sopra tutto a non
disperare mai e a non fermarsi un momento: _Excelsior!_
Hanno detto che la Buona fede, bandita dalla terra, dovrebbe refugiarsi
nel cuore dei re. Se fosse o no per trovarcisi ad agio anco dopo avere
recitato _il Paternostro di San Giuliano_, ora qui non fa mestieri
indagare; questo è certo però che la speranza, mandata fuori dall'anima
del poeta nel dì del finimondo, vi ritorna col ramo di olivo; il giorno
in cui non vi ritornerà più, le stelle chiuderanno le palpebre, e le
tenebre si distenderanno su l'universo come il tappeto nero sopra la
bara del morto.


L'ALBO

Al comune degli uomini fa specie considerare come gli antichi
legislatori, esauste prima le virtù, mettessero mano anche ai vizii
ordinandoli fondamento degl'istituti, che parvero loro più acconci allo
assetto di questo nostro umano consorzio. Però chi attende ad
addentrarsi oltre alla scorza nelle cose trova, che cotesti
valentuomini, giudicati in vita e morti piuttostochè prudenti santi, se
avessero potuto svellere dal cuore umano tutti i vizii, Dio sa se con
voglie prontissime l'arieno fatto: se poi non lo fecero, si deve
credere, che lunghe meditazioni gli abbiano condotti a inferire, tali
vizii occorrere tessuti per modo sul telaio insieme all'anima nostra,
che a volerneli sceverare verrebbe innanzi via il pezzo che la macchia.
Allora, quei divini intelletti, ricercata sottilmente la materia,
conobbero alcuni fra i vizii di natura così perdutamente maligna, ed al
fine del sodalizio umano tanto nemici, che con le discipline e le pene
li combatterono a morte; altri per lo contrario avendo sperimentato più
maneggevoli e manco perversi mansuefecero, e vennero accomodando alle
necessità.
Bacco prima che assumessero al cielo uomo fu, e i gesti suoi storia una
volta per molta età diventarono favola, ma i pratici a scuoprire la
dottrina antica sotto il velame dei miti, sanno come in simbolo di avere
egli corretto gli uomini con gli spedienti medesimi gli fossero poste le
tigri aggiogate al carro. Conciossiachè non si deva credere (che sarebbe
errore) dagli antichi fosse tenuto in pregio Lieo pel dono del vino
soltanto, che pure non sarebbe poco, ma sì ancora per barbarie doma, per
forte civiltà diffusa, e per leggi bandite: laonde non mancarono uomini
dotti, i quali con molta apparenza di vero sostennero Bacco e Moisè
essere stati una stessa persona. Ma per tornare al proposito nostro, le
passioni domate dalla rettitudine, e costrette quasi ancelle a compire i
cenni di lei, che altro sono elleno mai che tigri aggiogate al carro di
un Dio?
Adesso volgete la mente a quest'altra considerazione. Vittorio Alfieri
nome che, nonostante la proterva dicacità del francese Janin,
gl'italiani terranno caro in qualsivoglia fortuna; avvegnadio se felice
lo gratificheranno per averli rigenerati nell'anima, se avversa lo
invocheranno aiutatore contro alla viltà, Alfieri, dico, in qualche
parte delle sue opere lasciò scritto: la pubblica virtù essere figliuola
non madre di Libertà.
Questo apotegma, con la reverenza che devesi a tanto personaggio, per me
non giudico vero, almanco sempre; come dai vizii pubblici deriva il
servaggio, così parmi ragionevole la sentenza opposta, che dalla virtù
pubblica abbia a nascere la Libertà.
Piuttosto parmi che intoppo più duro sia pensare come sotto pessimo
principe la virtù si odii muto rimprovero alle scelleraggini sue, e
quasi delitto di maestà si perseguiti: per la quale cosa, innanzi di
avere agio a porgerne esempio, i cittadini avranno per bazza se
assottigliandosi e nascondendosi impetrino vivere.
Ma voi avete a considerare, come per vedere esempio di tanta miseria
bisogni risalire fin a Caligola, Nerone, Domiziano ed altri siffatti; e
poi che anco sotto coteste bestie imperiali questi stroppi cascavano
addosso a personaggi di conto, i quali percuotevano gli occhi del
tiranno o per l'altezza dell'ufficio, o per una certa tal quale iattanza
della virtù come successe a Trasea, che, uscito dal Senato giusta nel
punto che si decretavano onori divini a Nerone pel parricidio della
madre Agrippina, rovinò sè e non provvide alla Patria: che se ad ogni
modo la sua natura non comportava vedere le iniquità, e starsi cheto, o
avrebbe dovuto favellare prima (che sul principio del male qualche buon
frutto poteva darsi che le sue parole avessero partorito), o tacersi
sempre quando non ci era più rimedio: ma tanto è; conosce i suoi
saccenti anche la virtù. Donde si conchiude che la virtù modesta sotto
malvagio Principe anco in antico poteva vivere, e dare buon saggio di
sè.
Questa abilità tanto più agevole ci viene fatta adesso, che tra la
mitezza predicata da Cristo, i costumi meno truci, e quel tribunale che
per mancare di sbirri, cancellieri e accusatori non pronunzia meno
temute le sue sentenze, e chiamasi «_Opinione_», bene possono odiarsi i
virtuosi, e veramente si odiano, ed anche perseguitansi, ma spegnere non
si possono.
Adesso pertanto sarebbe desiderabile che i forti petti e gl'ingegni
gagliardi rimettessero alcun poco della loro ritrosia, e direi quasi
ferocia; si facessero umili; le imbecillità, le ignoranze, le debolezze
umane non dispettassero, bensì tenessero in conto d'infermità della
povera gente da Dio commessa alla misericordia loro: sminuzzassero
insomma il pane dello intelletto sopra la mensa della carità. Di questo,
come di ogni altra cosa divina, porse tenerissimo esempio Gesù Cristo
quando ammonì i suoi discepoli: «_deh! lasciate che i pargoli vengano a
me_», e già aveva salutato eletti nei cieli i poveri di spirito.
Questi pensieri mi scesero spontanei nella mente meditando sopra
l'andazzo diventato ai giorni nostri universale di possedere libri di
fogli tersi composti, con bei fregi rabescati, taluni ricoperti di
velluto, e chiusi eziandio con fermagli di oro. =Albi= li chiamano, ed
affermano con francese vocabolo, che io tale non reputando ho voluto
adoperare, imperocchè se la nostra favella non lo possiede, lo conosce
la latina in senso di _ruolo_ e di _matricola_: avevano ancora i Romani
l'Albo ch'era il luogo dove si tenevano le leggi esposte agli occhi del
popolo, e la Chiesa romana chiama Albo il libro dove segnano i santi:
per tutte queste cose mi assicuro di non trovarmi accusato di maestà
contro il paterno linguaggio, se mi giovo di questo nome a significare
cosa nuova. Per legge latina tra genitori e generati non aveva luogo
l'azione _furti_, bensì l'altra _rerum amotarum_; ma che fantastico io
di mal tolto? Checchè altri possa pensarne, per me tengo inconcusso che
non solo possa, ma deva quante volte gliene faccia mestieri la lingua
nostra ricorrere a succhiare le mammelle della madre latina che la
partorì.
Quando prima gli Albi vennero al mondo, i Letterati non se ne dettero
per intesi, non potendo mai da lunge mille miglia supporre che avessero
a fare con loro: gli reputarono faccende da sarta, tutto al più da
crestaia; e qui come in troppe altre cose si trovò vero quel verso:
«Come lieve è ingannar chi si assicura!»
Non andò guari che l'Albo, a modo del fico indiano fatto di ogni ramo
ceppo, di campo allargandosi in campo minacciò tutta ingombrare la
repubblica letteraria.
Qui faccio punto, e ripeto repubblica letteraria perchè non ci caschi
equivoco; e poi mi attento avvertire con la debita reverenza come
siffatta locuzione gli Umidi, gli Alterati, i Cruscaioli ed altri
Accademici senza paura d'impicci poterono usare sotto il paterno giogo
di Cosimo I. Certo, e non lo nego, letteraria o no, potendo abolire
cotesta parola di repubblica sarebbe un tanto di guadagnato, ma il male
sta che su i vocaboli non si può dare di frego, pensate un po' se alle
cose! e ultimamente avendo veduto che la bell'anima di Cosimo I non si
scandalizzava delle parole «repubblica letteraria», ho pensato non ci
fosse guaio di adoperarle anche al dì d'oggi. In ogni caso metto innanzi
la buona fede, e mi protesto in tempo utile.
Le formiche trasformate in Mirmidoni, i denti del Serpente di Cadmo
convertiti in guerrieri non sono niente di petto al subitaneo e pauroso
crescere degli Albi. L'Albo diventò legione, si fece beduino, si mutò in
croato e prese a correre, foraggiare, taglieggiare, svaligiare le case
così urbane come rustiche dei Letterati, le stanze, gli alcovi, gli
studii, le vesti da camera, e perfino i calzoni. I Letterati
contemplando tante e tanto leggiadre donne armate di Albo giudicarono
che il diavolo, come accadde a Santo Antonio, avesse assunto sembianze
di femmina per tormentarli: come bufali (chiedo scusa del paragone),
anzi peggio dei bufali trafitti nei giorni canicolari dallo assillo
sotto la coda, presero a infuriare e sbuffando gridare: «Ohimè! ch'è
questo mai? Ma che con questi benedetti flagelli non si ha mai da
venirne a capo? Oh! non si era obbligato il Padre Eterno a lasciarci
vivere, ed aveva fatto rogare il contratto al notaro Arco-baleno? E
adesso come ci entra questo altro cholèra degli albi? Se Moisè conosceva
questo coso dell'Albo poteva risparmiarsi tutte e sette le piaghe di
Egitto con tanto sciupìo di miracoli; che a squagliare il cuore
dell'acerbo Faraone avrebbe bastato la minaccia di condannarlo a
scrivere una settimana su gli Albi delle gentildonne fiorentine, e ce ne
sarìa stato d'avanzo. Se l'Albo fosse saltato fuori ai tempi di David,
il profeta Natan recando la fame, la peste e la guerra al popolo
d'Isdraele avrebbe creduto portargli pan buffetto; con gli Albi avrìa
castigato cotesta moltitudine rea dell'adulterio commesso da quel
poveraccio del re David, il quale, da alcune taccherelle in fuori, era,
bisogna confessarlo, il fiore dei galantuomini pei suoi tempi. — Questo
mostro infernale (sono sempre i Letterati che parlano) nacque dal
matrimonio che il Re delle Pulci (di cui l'Hoffmann disegnò il ritratto)
contrasse con la Regina delle Vespe a mediazione della Granduchessa
delle Zanzare; e fu celebrato dal Grillo cantaiolo sommo sacerdote. —
Non senza che il sorriso saluti da lontano le mie labbra, ricordo che
visitando un giorno quel venerato amico, il quale come è cima
degl'intelletti toscani, così può salutarsi meritamente la immaculata
fra le coscienze di cotesta terra, che a me diede i natali e gli affanni
(e non importa il nome che la virtù lo palesa), mostrato ch'ei m'ebbe
parecchi Albi e lettere dove ricercavanlo di epitalamii per nozze, di
epitaffi per illustri defunti, dei quali la campana dei morti unica fece
conoscere la vita, e perfino di un sonetto per festa villereccia,
sbigottito, e lasciate cascare le braccia così mi disse: «ecco, io sono
fatto l'Asino di Santa Verdiana; i fedeli accorsero a cavalcarlo per
devozione, e la povera bestia in capo al terzo dì cascò morto!»
Ricordo ancora che, giovanissimo essendo, da certa patrizia genovese
capitata a Livorno venne esibito a quel bizzarro umore di Carlo Bini, ed
a me il suo Albo veramente magnifico, affinchè de' nostri scritti
l'onorassimo. Manco male! Almeno le gentildonne quando impongono i
balzelli non fanno a spilluzzico con le parole vezzose. Il guaio fu che
entrambi noi avevamo in uggia la signora, e non _sine quare_, avvegnadio
ci avesse istruiti la fama che, mentre il marito di lei gemeva allo
Spielbergo reo di tal fatto, che da per tutto mena alla gloria ed in
Austria alla morte, costei non abborrisse avvolgersi strepitosa per le
città italiane lasciando la gente incerta se facesse maggiore spreco di
pecunia o di onestà. Carlo mio, poichè vide tornargli corte
l'escusazioni, tenuto tre dì l'Albo, lo rimandò con questo tratto: 10.
34. 52 _buoni a giuocarsi per l'estrazione di Roma!_ E sotto il suo nome
in mezzo a egregi svolazzi lineari, chè assai egli fu valente di penna.
Veramente non poteva immaginarsi sfregio più acerbo pari al merito: ma
io considerando come l'anima nostra per ammonizione sbaldanzisce, e per
disprezzo s'irrita, ond'è che picchiando nella iracondia quasi cembalo
di donna folle ne leva rumore, il quale impedisce che la voce della
coscienza arrivi a lei, tenni altra via, ugualmente severa, meno
oltraggiosa, e sopra le bianche e lucide pagine segnai: _vade, et jam
amplius noli peccare. Evan. Joan. c. 8 n. 11._ — Lì per lì le parole di
Cristo al cospetto della patrizia non trovarono migliore grazia dei
numeri dati per giuocarsi al lotto, anzi io so che si partiva da Livorno
sbottoneggiandola peggio che se fosse stata terra di Lestrigoni: non
importa, la freccia l'aveva ferita, nè per agitarsi, nè per bociare
ormai poteva più staccarsela dal fianco. Ella, io non ne dubito, avrà
stracciata l'esosa pagina dall'Albo, altra sostituitane tutta bianca;
vani rifugi: gli occhi della sua mente ci avranno letto sempre la parola
di Cristo non cancellabile mai, e suo malgrado avrà sentito quinci
emanare una forza che costringeva la sua fronte a piegarsi, a
vergognarsi, a pentirsi. —
I Letterati, mi reca angustia dichiararlo, sbagliarono nel comporre
l'albero genealogico dell'Albo: si conosce chiaro che non consultarono
l'Avvocato Passerini, quel solennissimo segretario dei campisanti,
imperciocchè avrebbero saputo da lui, come la Vanità, la quale pari ai
bacherozzi e ai moscerini non ha bisogno di contatto maschile per essere
fomentata nella sua prodigiosa fecondia: _Lucina sine coitu_; la Vanità
che mostra due volte tante le mammelle dell'antica Cibele per allattare
le generazioni infinite dei suoi figliuoli, la Vanità, dico, avesse
partorito anco l'Albo.
Ciò messo in sodo, voi avete ad argomentare così: puossi o no questa
Vanità genitrice dell'Albo sbarbarsi dal cuore degli uomini, ed in
ispeziale maniera da quello delle donne? Ella è di natura sua indomabile
affatto, ovvero, ammansita che fosse, sarebbe capace di approdare la
ragunanza umana? Insomma, dagli Albi ci è verso di cavarne qualche
partito? Alle quali domande parmi non esorbitante nè strano rispondere.
I vizii e le virtù nascono più o meno parenti fra loro; così vero che da
principio bisogna badarci bene per non iscambiare gli uni con le altre,
tanto si arieggiano. Questo riconoscere tutti l'origine comune è gran
che, e come dispone le prime, a sdrucciolare verso i secondi, sembra che
del pari renda agevole avviare i secondi verso le prime atteso i vincoli
del sangue. Qui si obbietterà, che essendosi vizii e virtù presi a
inimicare da gran tempo, la è fisima pretta pretendere di accordarli tra
loro a cagione della natura dell'odio, il quale s'invelenisce giusto a
ragguaglio della prossimità dei sangui in cui si mescola. Questo obietto
a me non reca, si può dire, amarezza, non mica che in sè io non lo abbia
sperimentato vero, ma sì perchè gli è caso raro; nè su l'eccezioni hassi
a fare fondamento: all'opposto i parenti per ordinario quanto più
stretti meglio si amano, e scorrucciati più di leggieri impacciano,
potendo sopra gli animi umani troppo più del transitorio rovello
presente l'antica consuetudine dello affetto, la memoria perenne della
benevolenza, il frizzore dell'odio, il desiderio dei pretermessi uffici,
tali e così moltiplici essendo i vincoli, i quali uniscono i parenti fra
loro, che non rimangono mai nè tutti nè per modo tronchi, che non
trovino congiuntura da rannodarsi.
Senza ambage io confesso che la Vanità non possa torsi via, come quella
che sostiene presso l'anima nostra lo ufficio, che fa la vena porta al
cuore: sopprimerla torna lo stesso che soffiare su la vita, e spegnerla
a un tratto: come poi, ancorchè si potesse, non si avrebbe a togliere,
io mi apparecchio ad esporre.
Prendi la Vanità, e recatela sul trespolo, quivi valle attorno con
amore, e con due sgorbiate, e un po' di scuffina scemala del soperchio;
ora mirala: che ti par'ella diventata? Orgoglio. Bene, e questo ti hai a
figurare essere avanzo, ed ecco come: la Vanità vacua essendo tanto va a
sbalzi che tu non la puoi tenere, e talora cacciasi su per le gole dei
camini, agguanta il fumo suo cognato, e incavallatacisi sopra galoppa a
sfregiare il sereno dei cieli finchè si sperperino in dileguo ambedue:
tale altra si arrampica ai campanili e scala le banderuole, si erpica su
le croci, e con l'estrema punta del piede sta sul vertice dell'asta
perpendicolare dandosi in balìa alla intera rosa dei venti che la
travolgono in giro vertiginoso, finchè, colta dal capogiro caschi a
sbrizzarsi sopra una nuvola che passa; dall'altra parte guarda
l'Orgoglio, come inceda aggrondato, a muso tosto da disgradarne un
metodista inglese: costui quando non fa dolere fa pensare; e dove arriva
a intromettere un dito, ficca la mano. Anche l'Orgoglio non è fattura
che approfitti; però da capo piglio agli arnesi; scalza di qua, costà
arrotonda, eccoti fatto; che ne usciva? la Superbia. Lucifero per lei
guastò le sue faccende; tuttavolta, benvenuta, imperciocchè la
esperienza dimostri la Superbia essere balsamo, che in difetto di meglio
preserva l'anima dalla putredine. Così gli Egiziani adoperavano profumi
preziosissimi per imbalsamare i corpi; mancando i profumi ricorrevano
all'arena arsiccia del deserto, e nel sottosopra conseguirono lo intento
medesimo, che fu di felicitare i longinqui nepoti con le care sembianze
delle mummie loro. Ma non cessiamo l'opera; compiuto il lavoro della
raspa, adesso usiamoci la lima, la pomice e l'osso di seppia. Guarda,
che n'esce? Ecco con maraviglia pari al contento tu miri avere cavato
dalla Superbia l'Alterezza; ed io in verità ti dico, che per un poco più
ti ci assottigli arriverai a scuoprire il nobilissimo dei sensi umani,
la Dignità. Dunque non ti perdere a volere la Vanità soppressa; la
quale, oltrechè ti resisterebbe invitta, tu, se sai, puoi accomodare ai
nostri bisogni: con peggiori denti si mastica il pane.
E dell'Albo, di questo figliuolo della Vanità, che cosa abbiamo a fare
noi? Dobbiamo lasciarlo perire come i parti mostruosi, o piuttosto,
legatogli per filo e per segno il suo bellico, darassi a balia, e
tirandolo su nel santo timore di Dio gl'insegneremo a leggere, a
scrivere, e, come si dice, a procedere da galantuomo? Questo secondo fie
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