Amelia Calani ed altri scritti - 06

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di bilanciare con lo immenso piacere dei suoi scritti lo abisso della
noia diffusa sul genere umano dai barbari dettati degli autori forensi;
e bisogna confessare, che se non giunse a saldare il debito, poco resto
si lasciava indietro; nè il Byron stesso ebbe a schifo i guadagni, i
quali poi spendeva in beneficii degni del suo cuore, ch'egli ebbe pari
alla mente altissima: e questo, lui morto, anco i detrattori di leggieri
consentirono.
Sogliono comunemente predicare che le lettere, in ispecial modo la
poesia, non approdano, come quelle che tenendo a sè l'anima assorta la
rendono incapace a qualsivoglia altro esercizio, ed è errore. Chi tale
adopera, piuttostochè letterato insigne vuolsi estimare uomo imperfetto
o tocco da qualche infermità. Di ciò andate sicuri, che chi più sa, più
può, e lo fece vedere Talete milesio, il quale schernito dagli amici
perchè avesse mandato a male la sostanza domestica per attendere ai suoi
vaneggiamenti, raccolse con endica tempestiva gli olii della contrada,
che rivendè in tempo di diffalta presagita da lui in virtù delle scienze
fisiche nelle quali si versava; e così ridivenuto ricco d'inestimabile
tesoro, lo distribuì agli amici, tornandosene povero e sgombro di
fastidii a filosofare.

II.
Qui cade in acconcio inquisire se sia o no giusto il rammarichío della
poca protezione o nessuna compartita dai governi ai letterati, e se sia
vero che promovendo essi le lettere prosperassero, derelitte
intristissero. Le lettere da Dio vengono, e ai popoli vanno; la luce per
essere creata abbisognò della parola; le lettere no, che sgorgarono
spontanee dal pensiero divino, e se tu avverti la potenza donata allo
spirito umano di esercitarle in qualsivoglia più misera condizione della
vita, alla indomata libertà del concetto, alla impossibilità da un lato
d'impedirne il baleno, ed alla agevolezza dall'altro di tramandarlo
durevole e lontano, non potrai dubitare un momento ch'elle sieno della
Provvidenza vicarie veraci per incamminare gli uomini a migliori
destini. In carcere l'uomo pensa; anzi, misericordia di Dio!, il carcere
come la cote, acuisce l'acciaro, dà il taglio alla mente, onde ella
ferisce più affilata che mai; l'esilio raddoppia le voci, imperciocchè i
cuori che lasciasti nella terra del tuo nascimento ti rispondano co'
mille echi di desiderio e di affetto. Su le anime il tiranno nulla può.
Adesso abbi per fermo, le migliori rugiade che bagnino le lettere, fiori
dalla ghirlanda di Dio caduti sopra la terra, consistere nella
persecuzione, e subito dopo la persecuzione nell'oblio dei re.
Mosso da pari sentimento Schiller cantava: «la musa alemanna non vide
fiorire per lei il secolo di Augusto; i favori dei Medici non le
sorrisero, non conobbe auguste protezioni, nè le sue rose ai raggi
principeschi sbocciarono. Lontana dal soglio del massimo fra i figliuoli
dell'Allemagna, Federigo, ella non ebbe da lui sussidii nè onori; però
l'Allemagna quando si sente battere poderoso il cuore nel petto può
gridare con voce altera: — devo a me quanto valgo, — e questa è la
ragione per la quale il canto del bardo alemanno sprilla più fiero, e
rotola le sue onde; questa la ragione per cui dovizioso di propria
abbondanza attinge dal fondo dell'anima, e ride delle regole.»
Narrasi eziandio, come il Mirabeau significando certo giorno a Federigo
II il suo rammarico perchè egli si fosse astenuto dal promovere le
lettere germaniche, l'udisse scappare fuori con questa risposta: «voi
v'ingannate, avvegnachè io non sappia che cosa meglio avessi potuto fare
in pro delle lettere e dei letterati tedeschi, che valga al non ci avere
mai atteso, o letto i libri loro.» Parve strano al francese, e nol fu;
Federigo in quel punto apriva l'animo suo sincerissimo: di vero, se bene
tu cerchi troverai come nè Virgilio, nè Orazio ai raggi del sole di
Augusto si fecondassero: prima di lui nacquero, faville ultime del tizzo
repubblicano che si muore. Astutezza di Ottaviano fu attaccarli alla
propria fortuna, onde dopo lui i principi che bene appresero le arti di
regno studiaronsi fregiare i regali ammanti più che di gemme con la
gloria degli uomini famosi. Allora se i principi appellaronsi Augusto, o
Lorenzo, o Luigi, o Napoleone, invece di scintillare con la propria luce
soltanto, mescolaronci l'altrui, e ne aumentarono il bagliore, ossivvero
ebbero nome Alfonso, o Maria Teresa, e consapevoli o nescienti ne
rischiararono alquanto le tenebre dei tempi. Virgilio, ingegno
sostanzialmente didattico, plastica, imita e adula, povero fiore rapito
ai campi e chiuso dentro la stufa imperiale; Orazio pauroso del suo
genio lo costringe a commettere mosaici con frammenti greci, e tremando
di sentirsi levato in alto dalle penne pindariche si avvoltola per la
polvere, e canta la sua viltà. Mette sgomento al cuore considerare come
la storia, più che non si crede, spesso si faccia complice della
menzogna cortigiana ingannando il mondo; di vero, Luigi XIV impone nome
al secolo, e la storia per consuetudine di servitù continua a lui morto
la piaggeria, che vivo a forza gli compartiva; all'opposto ella doveva
avvertire come le lettere francesi, accese alquanto dalla scarmana per
le contenzioni della Fronda, alle sue mani ripigliassero la consueta
pallidezza; apresi il secolo di cotesto ventoso col Cornelio e col
Molière, e si chiude con Giovambattista Rousseau. Schiller non si appose
quando cantò le lettere promosse dai Medici, imperciocchè essi non
favorissero le lettere bensì gli eruditi e gli artisti; il che suona
troppo diverso; anzi Leone X protesse il Baraballo alternando con esso
lui esametri e pentametri da cacciare addosso la quartana al santo
collegio delle Muse, e lasciò morire di fame Marone. Quanto all'Ariosto
poi, quello che gli facesse Leone X e quello che da lui ricavasse egli
medesimo racconta giocondamente nella Satira III:
Piegossi a me dalla beata sede,
La mano e poi le gote ambe mi prese
E il santo bacio in ambedue mi diede.
Di mezza quella Bolla anco cortese
Mi fu, della quale il mio Bibbiena
Espedito mi ha il resto alle mie spese.
E dove conducesse te la munificenza del _magnanimo_ Alfonso, o miserrimo
Tasso, fa ribrezzo pensare; e tuttavolta importa rimettere dinanzi agli
occhi della gioventù italiana, molto più che conforta stupendamente il
consiglio dato di sopra, parte massima di umana dignità consistere nel
cavarsi fuori del bisogno, e formarsi stato. Giovanetto ancora egli ebbe
a vendere le poche masserizie domestiche, già impegnate ad Abramo Levi
giudeo, lire venticinque per mettere l'epitaffio al padre suo, e non fu
il peggio; più tardi implorò qualche frutto per saziare la fame, alla
quale, comecchè parchissimo egli sempre si mantenesse, non era bastata
la grama cena, e neanche questo fu il peggio; angustiato da turpe
necessità in altra occasione chiede a Scipione Gonzaga dieci scudi se
non per presto, almeno per _elemosina_, e ciò stringe il cuore, ma non
lo sbigottisce ancora; il cuore nostro resta percosso quando il nepote
Alessandro gli chiede aiuto, ed egli povero non gli può mandare altro
che _sonetti_, dond'egli spera che caverà danaro mercè la larghezza
degli elogiati; resta percosso quando per salvarsi dalla disperazione e
procacciarsi pane ebbe a strappare dalle labbra della sua Musa avvampata
di vergogna lodi a persone indegne, la memoria delle quali gli
lacerarono l'anima come rimorsi: allora maledisse alla fortuna, ed
ordinò si bruciassero le opere sue, e prima delle altre la
_Gerusalemme_. Gli amici suoi raccomandavanlo a Francesco I dei Medici e
a Bianca Cappello perchè a cavarlo di prigione non lo aiutassero; solo,
per carità lo presentassero di qualche danaro, ch'egli molto bene si era
guadagnato spogliandosi in farsetto per levarli a cielo; ed indi a poco
confortano lo stesso Granduca di chiamarlo a corte, non gli dovendo dare
noia la pazzia, imperciocchè _pazzia_ o _poesia_ arieggino fra loro. La
donna mandava venticinque scudi, Francesco duramente rispondeva non
volere matti in casa, e aveva ragione, ci aveva una mano di furfanti e
di sgualdrine, e bastava: per la quale cosa in questo turpe negozio tu
non sai distinguere, che più meriti infamia o le derisorie
raccomandazioni degli amici, o l'aspro rifiuto del Claudio toscano, o la
umiliante elemosina della granducale baldracca.
Egli è mestiero che la gente si persuada, i Sacerdoti coltivarono le
lettere finchè nelle mani loro servirono a mo' di lanterna che ne
dirigeva, rischiarandoli, i propri passi nei secoli, sicchè in sicurtà
ed in ispeditezza vincevano quelli di coloro che andavano tastoni pel
buio; quando cresciuto il lume rischiarò zona maggiore e i passi altrui,
essi lo vollero spegnere; in questa parte più astuti i despoti dei
sacerdoti finsero proteggere le lettere per contaminarle; qui come
altrove gli odii loro meno funesti degli amori. Di ciò, per non
dilungarci troppo, valga uno esempio solo e stupendo. Veruno ignora in
quanta fama salisse di promotrice delle lettere e delle scienze Caterina
II di Russia; qualche pugno di danaro gittato furbescamente, una
pelliccia donata al Voltaire, un diluvio di piaggerie ai così detti
filosofi le fruttarono la nomea di Semiramide del Settentrione, quasi
che la Semiramide asiatica fosse ricordanza onorata: tre grossi volumi
formano le leggi dettate da costei sopra un tanto argomento, e con sì
forbito stile e concetti magnifici che ogni uomo è obbligato a farne le
maraviglie. Ciò nonostante Caterina II, femmina se altra ne visse mai
d'istinti regi, non promosse le scienze, molto meno le lettere; anzi
l'ebbe in uggia, e presentendole ostili, desiderò che si spegnessero:
questo alla libera ella confessa nella sua lettera al principe di Panin
suo bertone (chè la parola amante non si vuole profanare), il quale
prendendo ingenuamente sul serio le lustre della donna scettrata, si
affliggeva del poco profitto fatto dai Russi nella istruzione: «mio caro
principe, gli scriveva Caterina, non vi accorate per la poca
inclinazione che i Russi dimostrano agli studii, e pel fatto, secondo il
giudizio vostro, lamentabile, che gli ordini dati per fondare scuole ci
procurino piuttosto buona reputazione fuori che civanzo in casa, perchè
voi avete a sapere, che dal giorno in cui i Russi attenderanno agli
studii davvero nè io rimarrò imperatrice, nè governatore rimarrete voi.»
Come Caterina gli altri despoti tutti; ella non peggiore dei colleghi
suoi; più sincera forse, o piuttosto, consentendo alla natura muliebre,
meno discreta.
Quello che i letterati possono e dovrebbero adoperare di meglio così in
benefizio delle lettere come della fama loro sta in questo, che imitando
il caso di Diogene con Alessandro, dicano a viso aperto ai potentati i
quali presumono umiliarli proteggendoli: «fatevi oltre, e non ci
togliete quello che voi non ci potete donare, la luce della libertà e
l'amore dei popoli.»
A tanta gloria non furono sortite le arti cui chiamano belle, sia perchè
esse abbisognino di troppi aiuti materiali, sia perchè, secondo la
necessità della natura loro le consiglia, propongansi piuttosto il bello
che il buono, sia perchè impressionando del continuo lo spirito con la
immagine degli obietti fisici non arrivino a tenere il dominio
dell'anima indefessamente, profondamente. Le arti spettano al lusso;
finchè i popoli crescono in virtuosa potenza o le schifano, o consentono
che ci si affatichino dintorno i servi; nello scadimento l'esercitano i
cittadini; le idolatrano corrotti; ornato elegante ad ogni maniera di
turpitudini, pretesto splendido agli ozii codardi. Le lettere anche
perseguitate, anco peste dal piè del tiranno, possono, vibrando la
lingua, trafiggergli il calcagno con ferita più letale di quella
dell'aspide: togli al letterato lo inchiostro, egli scriverà col sangue,
e ciò fie meglio; nè occorre di rado nelle storie degli uomini. Le
lettere quando non ponno impedire la morte del Popolo, o lamentano come
Geremia, o incidono sopra il suo sepolcro un epitaffio truce come
Cornelio Tacito. Le arti ai favori della tirannide si espandono, a mo'
di pavone che spiega le piume della coda ai raggi del sole, le lettere
intisichiscono, o tacciono, e bevendo l'acqua del dolore, e mangiando il
pane dello affanno ritemprano la lena per giorni migliori. Come durando
il cielo tuttavia bruno si ode di tratto in tratto la nota confortevole
dell'allodola messaggera dell'alba, così le lettere prima di ogni altro
indizio prenunciano il fine della barbarie. Chiunque ne intende il canto
si frega le mani assiderate, e voltatosi a quella plaga, si rallegra
nella speranza della prossima luce.
Il senno antico non fece le arti sorelle delle muse, nè le commise alla
custodia di un Dio; negò loro nascimento celeste, anzi neppur concesse
che una ninfa le procreasse, bensì le dava figliuole alla povertà, e con
pari culto la madre e le figlie venerava: la più parte di loro
percuotono come il tuono; indi a poco gli echi propagandosi per gli
spazii remoti cessano, e se ne perde la memoria; altre durano per
maggiore periodo di tempo, ma confidate a materia, che il fuoco
incenerisce, l'acqua infradicia, l'aria consuma, si perdono anch'esse, e
delle maraviglie sudate appena sopravvive un nome; inoltre, se non
tutte, parecchie delle arti rimangono circoscritte da luogo, da tempo, o
dentro la persona del tutto; d'altre poi esce una immagine alterata,
diversa, e sovente deforme. Pongansi per esempio il canto (materia
armonica, che uscita appena dalle labbra si sperpera per l'armonia che
governa il creato) e la pittura, che si tramanda lontana o in grazia
delle copie o del bulino, ovvero ancora mercè i trovati moderni —
crepuscoli di sole tramontato. Più felici in questo le arti, che spesso
largamente retribuisconsi, e se non tutte ad un tratto, secondo la sua
stagione ciascheduna di loro si tuffa nell'abbondanza dei plausi, dei
guadagni e dei piaceri. Una volta toccò alla pittura ed alla scultura,
oggi tocca alla musica ed alle arti industriali. Le lettere in prima
commettonsi a tutte le materie alle quali partitamente si affidano le
arti, e sono metalli, marmi, legni, carte, pergamene, papiri, e via di
seguito, e poi alla Memoria. Questa Dea non si scompagna mai dalle sue
figliuole, e senza requie le porta attaccate al collo di su di giù
traverso il mondo e i secoli. Pari ai sospiri degli amanti, le lettere
percorrono in un baleno lo spazio che passa tra l'Indo e il Polo: alle
ossa dell'uomo si attaccano, gli si mescolano nel sangue, formano anima
all'anima di lui; cattoliche, apostoliche, universali veracemente le
lettere; se non curate adesso, poco loro preme; si assettano sopra un
termine della via donde passano i secoli, aspettano che gl'infesti
sfumino a guisa di nuvole per lo emisfero della eternità, poi si levano
come ristorate dal riposo, e tornano agli esercizii santi. L'Alighieri
quando capita al mondo il gesuita Bettinelli e il Lamartine, il quale
non è a propriamente parlare gesuita, _leva le ciglia un poco in su_, e
vede affrettarsi in difesa della sua fama la bella schiera di Parini,
Alfieri, Gozzi e Foscolo: dov'eglino si facessero attendere l'Alighieri
non se ne accorgerebbe, perchè i minuti nelle vite come le sue sono
secoli. Poichè dunque le lettere tanto trovano premio nella fama lontana
e nella immortalità, attributo massimo di Dio, non invidiano,
all'opposto cortesi consentono che le arti vengano largamente retribuite
di beni transitorii: queste vivano più di pane, perocchè esse vivano più
di Dio.
Tuttavolta sarebbe errore grande tacerlo, non tutti gli artisti
abbisognarono, od avrebbero avuto bisogno di potenti protettori; egli è
difficile persuaderci che Michelangiolo, il quale andava convinto che il
concetto dell'artista in sè circoscrivesse il marmo, onde a lui non era
mestieri di altro che sviscerarnelo con la mano obbediente
all'intelletto; egli è difficile credere che il Dio agitantesi
nell'anima sua non si rivelasse anche senza la protezione del Magnifico
Lorenzo. Nondimeno, comecchè riesca più destro irritarsi della verità e
maledirla, che confutarla, vuolsi manifestare apertamente, le arti
ritraggono sempre qualche cosa del cortegiano; più spesso accompagnano
la decadenza de' popoli che gl'incunaboli loro; nè di questo solo esse
hanno colpa, bensì ancora di avere fatto amabile l'errore, e diffusone e
perpetuatone il culto nei cuori degli uomini, molto più delle donne. I
Sacerdoti abbandonati dalle lettere virili si appigliarono alle arti
come a tavola di naufragio; alle are di Venere celeste diserte
sostituirono i simulacri di Venere terrena, ingegnandosi ritenere co'
sensi i mortali, di cui fuggivano loro l'intelletto e la fede.

III.
La seconda necessità dello scrittore italiano consiste nel farsi forte;
e la forza naturalmente distinguesi in fisica ed in morale. Innanzi
tratto vuolsi indagare a che queste forze giovino; in processo come le
si acquistino, smarrite ricovrinsi, acquistate mantengansi. Non si può
negare che qualchevolta le gagliarde membra si uniscono a piccolo
ingegno e a cuore perverso, mentre per lo contrario in fievoli membra
talora balenò anima di fuoco; ma ragionando si devono mettere da parte
l'eccezioni, e tenerci a quello che per esperienza vediamo
ordinariamente accadere; però il senno antico insegnava uomo, giusta sua
natura complesso, doversi giudicare quello il quale possedeva in corpo
sano mente sana. Altri, e per noi ancora, parecchie fiate fu avvertito,
come i Romani solenni plasmatori di uomini appellassero virtus la forza
non feroce, o gladiatoria, bensì corretta da intendimento buono: e così
la sentiva quel santissimo petto del Parini (le poesie del quale valgono
a ritemperare l'anima meglio di venti volumi di filosofia) quando induce
Chirone a favellare al giovanetto Achille così:
Garzon nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra
Perchè alla lotta e al corso
Io ti educai le membra.
Che non può un'alma ardita,
Se in forti membri ha vita?
Il petto dell'uomo forte rimbomba gagliardo all'urto delle nobili
passioni come lo scudo di acciaio al picchio della mazza guerriera. La
forza fisica comparte potenza di fare e di sopportare, e in verun tempo
mai fu di necessità che gl'Italiani si trovassero capaci all'una come
all'altra virtù. — L'anima sola, comecchè prodigiosa nelle sue facoltà,
non basta per trattare ferro, nè durare alle fatiche ed ai dolori;
talora sembra che cavalchi il corpo a mo' di destriero, ed invero lo
cavalca, lo sprona e lo avventa, ma lo sforzo dura poco e vien meno.
Hanno i Córsi un proverbio egregio, che suona: «se il giovane volesse, e
il vecchio potesse, cosa è mai non si facesse?» La forza resulta dalla
sanità, la quale a sua posta deriva dagli organi sortiti da natura e per
industria mantenuti perfetti; e poichè degli organi si vale lo spirito
per conoscere le cose, egli è evidente, che quanto meglio in questo
stato mantengonsi, più distinte, precise e limpide porgeranno le idee,
dal confronto delle quali emana il giudizio.
La semplice sposizione dei magnanimi gesti rende sublime lo scritto,
poco rileva se prosa o poesia; adesso se nobile intento e degno di lode
è riportarle, divina cosa parrà certamente concepirle ed operarle: ora
senza che il corpo risponda amico all'anima questo non si può. Koërner
cantava e combatteva i nemici della sua Patria, e il commiato della
tremenda canzone fu il sangue sparso sul campo di battaglia; gl'italiani
scrittori abbisognano di membra ben disposte e gagliarde prima per
sentire profondamente quanto si avvisano far sentire altrui; poi per
confermare con l'esempio le parole. Ai tempi nostri furono visti
istigatori indefessi ad avventurarci ad ogni impresa per quanto
arrisicata si fosse: se non arrivava l'ora del pericolo, davvero tra
Achille e loro pareva non ci avesse a correre divario; ma l'ora venne,
ed essi cagliarono; anzi fecero peggio, avversarono e calunniarono chi
qualche ultima favilla della virtù italica accoglieva nel cuore: donde
ciò? Forse da anima venduta? Dio guardi da supporre viltà anco negli
emuli. Questo fie più retto come più onesto credere, che derivasse dalle
membra infievolite troppo nella ignavia e nelle mollizie, cui per
salvare dall'obbrobrio che meritano, decorano col nome di studii civili.
Di tutte le arti tiranniche dobbiamo maledire quella che divezzò i
cittadini dalle armi, le quali sono tutela in guerra, nella pace decoro,
e conferiscono sempre alla prestanza del corpo non meno che alla ferma
salute.
Un atto risoluto può uscire, anzi per ordinario esce da un furore, il
quale per essere subito non cessa di comparire divino, come a mo' di
esempio fu quello di Pietro Micca quando appiccò il fuoco alla mina per
salvare la Patria; e di questo come di tanti altri gesti conformi
troviamo idonei anco i temperamenti segaligni e morbidi, ma la pazienza
delle lunghe e replicate sensazioni dolorose, l'impero dell'angoscia, la
mente indomita fra le torture sono frutto di membra provate al
travaglio. Tommaso Campanella durò 40 ore il tormento a Napoli atroce
così, che le funi segavangli le ossa e le vene gli laceravano; costretto
a sedersi di tratto in tratto sopra il legno acuto e tagliente che gli
_divorò_ la sesta parte della carne, e la terra bevve dieci libbre del
suo sangue, egli non disse verbo, e se ne vanta a ragione. Dei
circostanti, egli racconta, taluni gli dicevano vituperio, ed a
esasperargli il dolore squassavano le funi, tali altri alla sfuggita
della mirabile costanza lo commendavano, ma egli si tacque, perchè
favellando gli sarebbe parso di restare vinto, servo del dolore, e
affatto indegno di vivere. Nè l'uomo può rimanere contaminato se prima
nol consenta; e poichè consentire sta in noi, così del pari sta in noi
serbarci puri. In questa guisa del pari Epitteto scrisse e con lo
esempio confermò, ma nè l'uno nè l'altro avrebbero retto allo strazio
crudele se per abito lungo non si fossero assuefatti alla fatica e
all'ambascia. E per noi Italiani la stagione del dolore, oh! non è anco
passata, no; e in ogni caso giova starci parati a tutto: dicono che
Annibale da quando venne in Italia costumasse portare il veleno dentro
lo anello, nè lo depose dopochè ebbe vinto alla Trebbia, al Trasimeno, e
a Canne, e fece bene, che lo adoperò più tardi, e noi da gran tempo
proviamo la fortuna nemica. Forte di membra pertanto d'uopo è che sia lo
scrittore italiano per sentire e per patire, per significare alla Patria
parole magnanime, e per confermarle con l'esempio.
Le membra gagliarde apparecchiano albergo convenevole all'anima forte;
donde deriva cotesta ordinata compostezza di concepire, di esprimere e
di fare. La forza vera non si mostra mai arruffata, nè disonesta la sua
dignità con moti violenti; i forti quasi mai sono feroci, i deboli
impauriti sempre. La massima parte dei simulacri vetusti di Ercole
rappresentano il semideo in atto di riposo, e ciò dovrebbe avviare la
mente a meditarci sopra, perchè più c'insistiamo col pensiero e più
troviamo stupenda la sapienza degli antichi effigiata per via di
simboli. Dalla contemperata fortezza dell'animo e del corpo emana il
senso del buono e del bello morale, quasi dalle corde l'armonia; e
l'armonia insomma invita ad operare il gesto illustre, e a cantarlo:
piacciono le azioni magnanime perchè armoniche e belle, le nefande
aborrisconsi perchè stonano e appaiono laide. E qui ancora a significare
intero il concetto bisogna ricorrere al senno amico, che finse Amore
seduto sul dorso del Leone guidarne i passi modulando la lira. Giammai
fu vista più bella immagine significare concetto più bello.

IV.
Argomento di arguta disamina ci somministra il quesito se giovi o no al
letterato torre donna. Oltre al vero fece fortuna il detto (come ai
mordaci ordinariamente avviene) che il matrimonio nasca dallo amore come
l'aceto dal vino, mentre spesso anco avviene che l'amore, quasi
ritraesse dalla natura del bigatto, non partorisca seta se prima non
abbia perduto le ale. Però difficilmente si potrebbe negare; il fatto
non cammina favorevole allo assunto di coloro che vorrebbero l'uomo
letterato con la moglie al fianco e i figliuolini in grembo; fra gli
antichi Omero per quanto sappiamo, non condusse donna, e dei Latini non
la ebbero Virgilio nè Orazio; dei quattro Poeti, che noi altri Italiani
salutiamo principi, se togli Dante, gli altri rifuggirono le nozze, nè
egli si lodò di cotesta sua Gemma Donati; fra i moderni si mantennero
scapoli l'Alfieri, il Parini, il Foscolo, il Niccolini, il Giusti ed
altri parecchi, e certo quel sentirsi appellare coniugato, per via di
traslazione desunta dal giogo che preme il collo alla coppia dei Bovi,
non è cosa che vada troppo a sangue. Il Byron sperimentò martirio questo
benedetto nodo, e forse lo fece provare. In sentenza poi hacci ribocco
piuttosto che abbondanza d'improperii così in prosa come in rima contro
il torre donna non pure dei letterati, ma di ogni altra maniera
cittadini altresì: anzi la satira contro il matrimonio per coloro i
quali si esercitano in cosiffatti componimenti somministra soggetto
obbligato come sarebbero pei predicatori le anime del purgatorio; e la
fiera filippica di messere Giovanni Boccaccio, da disgradarne quale
altra più acerba di Demostene o di Tullio, vuolsi tacere per non venire
in fastidio alle donne gentili, quantunque, come per mettere un po' di
faldella alla piaga, egli la conchiuda così: «nè creda alcuno, ch'io per
le sopradette parole voglia dissuadere agli huomini torre moglie, anzi
il lodo molto, ma non a ciascuno: lascino i filosofanti sposarsi a
ricchi sciolti, a signori, e a lavoratori; essi con la filosofia si
dilettino, la quale molto è migliore sposa, che alcun'altra.»
Ciò nonostante sembra potersi affermare, che se a molti tornò di
pregiudizio la cura della famiglia, parecchi altri stupendamente
promosse: donde ne deriverebbe a mo' di regola, che per salire in fama
torna lo stesso condurre moglie o lasciarla, e forse giova più averla,
che no. E poichè questo non verrà di leggieri consentito, massime dopo
le premesse poste in capo al capitolo, sarà necessario discorrere
parcamente alquante parole a mo' di dimostrazione.
E non ci ha dubbio, l'amore finchè gli durano le ali e la balìa di
volare vive una vita tessuta col profumo della infinita famiglia dei
fiori; ma i fiori cessano, e la dolce stagione con essi; in breve
sopraggiungono i giorni mesti dove è povero il sole e la natura arcigna,
nè le membra intirizzite tu ti scaldi se non gettando con le proprie
mani legna nel tuo focolare, e l'anima gelata col calore degli intimi
affetti. Havvi una gioia che non teme mutamento di tempo, e per
primavera non cresce, come per autunno non menoma, ed è la domestica: se
la donna torna incresciosa pel vaniloquio, non è sua colpa, ma di cui la
educò frivola; s'ella ti empie d'inezie, di vanità, di voglie
perpetuamente mutabili, di bambineschi intenti, di lussi rovinosi e non
pertanto ridicoli la casa, non è sua la colpa, bensì di quelli che
l'allevarono arnese di voluttà, non compagna nella vita. Con le donne
quasi sempre siamo a tempo per correggere: il nodo sta nel saperlo fare.
Poco basta alla donna per apprendere molto, imperciocchè il cuore col
soperchiante affetto le illumini la mente; e in poesia tutto, nelle
altre discipline massima parte resulti dall'intelletto acceso dallo
amore. E se la donna virtuosa è corona di gloria sopra la fronte del
marito, va sicuro che neanche la donna muterà l'illustre consorte
avventuroso o no per veruno di quelli (e fingitelo potentissimo) che a
null'altro sanno raccomandare la propria memoria, eccettochè alle
monete. La donna e l'uomo non uscirono alla vita per vivere separati, nè
per costumare a modo di belve, chè questo non consentono lo spirito
arguto e il senso della dignità, quindi ebbero doti alquanto diverse, le
quali conferite insieme si compiono perfezionandosi. La donna, impera
gli accesi desiri della balda gioventù; la donna quando l'ambizione od
altra più acuta cupidità delusa ti accese la febbre nel sangue, può
posando il tuo capo sopra il suo seno, e con le amorose mani
abbracciandolo, ricondurci il sereno; ti visiterà prigione, ti curerà
infermo; se la vita ti fie croce da portare sul Golgota, quale troverai
Cireneo che più ti sovvenga della donna? E se al contrario un tripudio
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