Amelia Calani ed altri scritti - 13

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Hamilton prometteva appoggiare la pratica; e la pratica fu fatta presso
il granduca, e nella medesima insistito per quanto la decenza
comportava. Riformato il ministero, la malgradita Costituente sariasi
messa da parte. Il granduca accolse la proposta con liete parole, ma
circa a mandarla ad effetto gli parve bene differire. Indi a pochi
giorni _insalutato ospite_ andava a Siena, nè faceva le viste di volersi
movere; alla ressa frequente del ministero di tornare, rispondeva
fingendosi ammalato; alla proposta di accogliere la sua risegna
replicava con la preghiera: restasse, non si potere comandare alla
natura, tornerebbe appena sanato.
Andarono allora il gonfaloniere di Firenze e il generale della guardia
nazionale, e n'ebbero buone parole. Comparve loro infermo davvero;
sicchè tornando, per commission del principe invitarono taluno dei
ministri a recarsi presso la persona di lui; questo fece il presidente
del Consiglio, che trovò giacente, col berretto tirato su gli occhi,
affannoso, con una febbre da cavallo, emicrania da rompere le campane, e
tanti altri malanni da consegnare in capo a un'ora al catafalco anche il
Biancone di Piazza ch'è di marmo. Il presidente, per non dargli
disturbo, pian pianino in punta di piedi se ne andò rimproverandosi la
disonesta diffidenza. Durante la notte il ministro dello interno spediva
dispacci fervidissimi co' quali raccomandava al collega la tutela del
principe, che ad ogni costo anco suo malgrado si aveva a salvare. Il
giorno appresso il presidente si conduce al regio ostello, e il cuore
gli palpitava per tema di trovare l'augusto infermo aggravato. O
prodigio! Il principe era sano come un pesce; accoglie festoso il
presidente, gli dice che, dopo mangiato un bocconcino[17], giovandosi
del cielo sereno, andrà a fare una giravolta in carrozza; al suo ritorno
parleranno di negozi. Così il principe disertava dalla Toscana senza
neanche lasciare a reggerla un vicario, non diceva in qual parte si
sarebbe condotto; dai suoi scritti inferivasi non lo sapere neanch'egli,
dacchè asseriva andrebbe dove la Provvidenza avesse voluto: intanto
raccomandava i famigli al ministero, il quale per la sua assenza cessava
_de iure_; aggiungeva, non volere per questo abbandonare la Toscana, e
ciò sonerebbe contraddizione là dove non si avesse ad intendere, ch'egli
alla corona non intendeva di renunziare. Pretesto alla fuga lo scrupolo
di ratificare il decreto della Costituente, messogli in capo dal papa,
l'aborrimento che per lui si versasse sangue umano; entrambi bugiardi:
bugiardo il primo, dacchè da quanto si espose, e a lui fu contestato in
forma pubblica e privata, e non contraddetto mai, si ricava come fosse
in sua potestà negare la ratifica al decreto della Costituente: bugiardo
il secondo per ismentita troppo più crudele, imperocchè dimostrava ben
egli come dal sangue non aborrisse, quando il potesse senza paura
versare: non aborrì dal sangue quando a buglioli pieni gliel'offerivano
gli Austriaci assassini: non aborrì dal sangue quando a mani giunte, e
piangendo di rabbia, quel suo figliuolo Carlo (che il popolo dabbene si
reputava amico) supplicava gli artiglieri toscani ad eseguire l'antico
ordine di soqquadrare con le palle Firenze.
[17] MONTANELLI, Memorie.
L'operato del principe lo pose nelle condizioni medesime di Giacomo II;
egli era il colpevole davanti alla legge, ed ogni cittadino avrebbe
avuto il diritto di arrestarlo; all'opposto egli accusava, egli
condannava, giudice e parte.
Causa di tradimento pur troppo era quella; bensì il traditore non istava
davanti il tribunale; e poichè questo lo scrittore disse quando lo
circondava forza austriaca, davanti coloro che avevano _preso a cottimo_
di condannarlo, così non gli sia imputato a viltà ripetere adesso che il
traditore senza rimorso, come senza vergogna, ha per interi dieci anni
abitato il palazzo Pitti.
Ciò che dopo avvenne come preordinato alla salute del paese non poteva
essere argomento di accusa; chè i paesi bene stanno e spesso anco
benissimo senza principi, senza governo no, e le fazioni nemiche
furiavano con ismisurato impeto agl'incendii alle rapine ed al sangue; e
come se tanta rovina fosse poca, il principe, che non sapeva tenere nè
lasciare, comandava ai soldati che abbandonando agli Austriaci le
frontiere, voltassero le armi contro al paese per ricuperargli lo
scettro ch'egli aveva buttato via; ma egli, che odiava tenerlo con la
legge, intendeva ripigliarlo con la punta della spada: e questo fu
visto. Ciò nonostante il Governo provvisorio pose studio affinchè ogni
cosa, comechè minima, del principe rimanesse inviolata, e fedele al
mandato volle che il paese intero con voti liberissimi decretasse il
governo col quale intendeva essere retto.
La fortuna allora continuò a mostrarcisi avversa: dopo la giornata di
Novara null'altro avanzava che salvare quante più reliquie si potessero
della libertà. La mente del Governo toscano allora fu questa: con ogni
provvidenza, fosse anco estrema, si tentasse mettere il paese in istato
di difesa; poi procurare che l'assemblea costituente statuisse: veruno
avere bandito il principe; il principe tornasse a patto, mantenesse lo
Statuto, e la patria da qualunque occupazione straniera preservasse. Se
si asserisse che questo partito era per riuscire di certo, sarebbe
iattanza e presunzione; solo ne sia lecito affermare che sembrava di
esito credibile. Si consideri che le cose dell'Austria procedevano
tuttavia avviluppate; la guerra ferveva in Ungheria, durava Venezia, a
Roma oscuravasi il tempo, la Francia tentennante dava sospetto: e
concorrendo tutti in un volere, la difesa poteva farsi. Per altra parte
non erano stati ommessi gli uffici, perchè potentissimi mediatori si
togliessero il carico di comporre il negozio in termini comportabili, ed
entrassero mallevadori dello adempimento dei patti. Sir Giorgio Hamilton
ministro d'Inghilterra (della benevola mente del quale verso la patria i
Toscani dovranno conservare grata memoria) non si tirò punto addietro, e
promise assumere il trattato, e si ripromise menarlo a bene; se
l'egregio suo fratello Carlo lo confortasse alla impresa non è da dire;
solo desiderava per più sicurezza pigliarsi a collega il ministro di
Francia, e questo si giudicava non sarebbe per mancare: disdetta volle
che dimorando alquanto a venire il signore conte Walewski, nuovo oratore
di Francia a Firenze, l'opera sua non si potesse avere: giunse tardi, e
giusto in quel punto che sprofondava ogni cosa. Però cotesto signore non
pretermise ogni maniera di onesto officio, affinchè molti guai non
succedessero; non essendosi presentato il destro fin qui allo scrittore
di queste pagine farne testimonianza, parrebbe a lui meritarsi taccia
d'ingrato se lasciasse correre questa occasione senza porgergliene le
debite grazie[18].
[18] Il signor Mario Carletti nell'opuscolo allegato a pag. 17
prosegue di lodi il Governo o Governi preceduti al Ministero 26
ottobre 1849, e questo biasima; della dittatura dice: non sapeva
quello si proponesse, nè ciò che le si minacciasse alle spalle.
Considera adesso com'ella molto bene il sapeva: anzi lo sapeva
anco il signor Mario, se leggiamo la nota a pag. 145 della sua
traduzione dell'opera del Gouraud, stampata a Firenze dal
Mariani 1852: pare che egli se lo sia dimenticato; sette anni
sono lunghi e molti accidenti nascono tra mezzo. Circa il
pericolo dietro le spalle, non è chiaro, e non possiamo
rispondere: però da chiunque movesse, macchinare dopo le spalle
è cosa vile.
Se bene o male il Municipio di Firenze e la Commissione aggiunta
operassero non torna opportuno cercare, nè importa al fine del mio
ragionamento; il quale ha dovuto chiarire che il granduca non ebbe
ragione di percotere il paese per colpe che il Governo provvisorio non
commise; ad ogni modo, se fu in peccato il Governo provvisorio, certo
non avevano demeritato presso lui il Municipio fiorentino e la
Commissione aggiunta, della quale il fallo fu appunto quello di aver
fatto col principe troppo a fidanza. E se pure in essi trovò ad
appuntare qualche cosa, perchè mai flagellarne la intera cittadinanza?
Invano si metterebbe in campo Livorno come pretesto: certo, non si può
celare; allora (non so per quale maledizione di Dio) così procedevano
gli spiriti ciecamente appassionati, che parve onesto e savio apporre ai
Livornesi di ogni ragione misfatti, e metterli in mala fama presso
l'Europa, esagerando con malignissimo intento qualche trascorso vero, e
apponendone loro molti di falsi; e tutti ne furono puniti anche troppo.
Se rammento questo, lo faccio affinchè d'ora innanzi biasimino o lodino
meno i Livornesi secondo che il vento tira e torna comodo, o gli studino
di più; rispetto ai Livornesi, calde, spensierate e generose nature, non
portano rancore; offendili pur quanto vuoi, voltati in là, non è più
nulla: anzi per la dolcezza di fare alla pace, quasi quasi ti vogliono
bene per avere loro cagionato del male. Badiamo però ve'; ogni pesce ha
la sua lisca, e a me non garbano idillii. Tuttavolta, malgrado lo
sbottoneggiare della impronta e stemperata setta, che dei moderati si
appella, Livorno si mostrava di facile composizione, e il motto
partorito dallo impeto popolare volgeva al termine: certo fu colto
pretesto alla chiamata dei Tedeschi in Toscana; ma quando vidersi
distendere da per tutto, allora ne apparve intera la fallacia. Si
buccinava eziandio: ciò essere senza il consenso, all'opposto contro la
volontà del granduca, il quale si sarebbe messo in quattro per non ce li
pigliare; anch'egli pagava il fio della guerra bandita all'Austria,
quando agli affetti privati antepose la carità patria, e via e via con
altre melansaggini siffatte, spifferate dai moderati a cui la
dissimulazione parve sempre rimedio; se non tutti la trangugiavano, nè
anco mancavano baggiani a crederlo: finalmente il generale D'Aspre,
soldato tagliato con l'accetta, stizzito per siffatti tranelli, buttò
carte in tavola, e da Empoli mandò fuori un bando col quale fece sapere:
che veniva in Toscana perchè ce lo avevano chiamato; e chi ce lo chiamò
era il granduca.
Il libretto dell'_Austria e della Toscana_, delle immanità toscane
incolpa l'Austria e Radetzky, come quelli che violentemente avevano
usurpata l'autorità sovrana tra noi: questo è falso e dannoso: falso,
imperciocchè al principe piacque cavare la castagna dal fuoco con la
zampa del gatto; dannoso, perchè purgava il granduca delle sue colpe; e
di sacrificatore voleva farsi comparire vittima agli occhi dei popoli
ingannati: ma forse cotesta arguzia si reputò spediente, prima per non
inciampare nelle Murate, e poi per mantenere in buona reputazione la
stirpe, che pur si voleva continuasse a reggere la Toscana, e fu tempo
perso, perchè a Belvedere la si scoperse da sè. Nuovo e non volgare
esempio della inanità di dire le cose a mezzo, nelle faccende politiche.
Quando il debito dello ufficio, che tieni, non te lo vieti, allora solo
gioverai alla patria, se presa la balla pei pellicini, la scolerai per
quanto ti bastino le braccia.
Ho dubitato se avessi dovuto scrivere quello che segue, ed, anco
scritto, sono stato in forse di cancellarlo; poi mi vinse il pensiero di
lasciarlo correre, perchè, o m'inganno, o meglio di molto discorso
basterà a dipingere la natura dell'uomo. Il granduca portava tra i
ciondoli dell'orologio una girella composta di tre pietre dure co'
colori bianco verde e rosso; ogni volta che veniva in Consiglio recavasi
il libretto dello Statuto sotto il braccio, ed assettatosi se lo apriva
davanti sul tavolino dicendo sempre, talchè riusciva sazievole: — Siamo
nuovi in questa via; mettiamoci la falsariga dinanzi agli occhi per non
isbagliare: questo abbiamo giurato, questo vogliamo mantenere, e non
vorrei che, per inavvertenza nostra, ci pigliassero in fallo. — Che più?
Nel libro delle orazioni, ch'ei leggeva assistendo alla messa stavano
attaccati, per segni, nastri verdi, rossi e bianchi, orlati in cima con
un po' di trina di oro, e questi un giorno mostrando allo scrittore gli
diceva, le sue figliuole avergli fatto quel gentile lavoro.
Questo rammenta la famosa preghiera con la quale Luigi XI si
raccomandava alla sua diletta madonna di Embrun, e tenuto conto della
differenza dei tempi la rassomiglia.
Mettete quel poco, che ne ho riferito, insieme al berretto di cotone
tirato su gli occhi, nel quale arnese si fece trovare dal conte Chigi,
dal cavaliere Peruzzi e dal presidente Montanelli; impastatelo col
_bocconcino_ che diceva mangiare prima di partirsi lasciando il paese,
che tanto lo aveva amato, nella desolazione, e giuoco _Roma contro uno
scudo_, se anco di qui a mille anni gli storici, i romanzieri non lo
dipingeranno a capello.
Il granduca, appena arrivato a Ferrara, e non so in quale altro luogo,
protestò e riprotestò intorno alla slealtà e alla violenza patite. Pare
a me che violenza non si fosse usata, e quanto a slealtà sarebbe bene
che le sue labbra disimparassero cotesta parola: infatti se la storia
delle 4 ore è vera, e non apparisce causa onde noi l'abbiamo a reputare
falsa, si ricava com'egli, licenziato l'antico ministero, commettesse al
signore Neri Corsini di comporne un altro: questo gentiluomo vi si
adoperò, ma non gli venne fatto; dacchè le persone ricercate da lui
rifiutassero, se per condizione prima il principe non risegnasse la
corona al figliuolo. — Io so anche la ragione che addussero, e fu: che
veruno uomo onorato poteva accettare l'ufficio di ministro di Leopoldo
II. — Gravissimo sfregio, e meritato. — Altro da lui indegnamente
bandito gli faceva assapere: tanto sperare di vita da potergli un giorno
dire in faccia ch'egli non era _nè galantuomo, nè gentiluomo._ — Ma la
superba fortuna derise allora cotesta parola come sfogo di animo
scorrucciato, e pure non era così, e adesso nell'avversa con ragione
pari altri gliela confermano. Noi pur troppo agitano le sorti umane
irrequiete e voltabili, pure a cui cammina per la sua via dritta, se
incontra l'odio, non trova il disprezzo mai. E il disprezzo meritato è
l'unica ferita che per rimedio non sana. Nè patì violenza dai soldati,
imperciocchè questi negassero bene di sfolgorare Firenze con le
artiglierie, ma gli si profferissero in ogni altra cosa devoti e pronti
a mettersi in qualunque cimento per serbare incolume il capo di lui e
della sua famiglia.
Circa a slealtà, giova assaissimo fissare la mente sopra un fatto
riportato dalla storia delle 4 ore. Il signor marchese di Laiatico
(della svisceratezza del quale verso il granduca veruno, che io pensi,
ha dubitato giammai) narra come il suo augusto padrone anco nel 27
aprile si dichiarasse disposto a movere guerra all'Austria, a patto che
i Toscani continuassero ad obbedirlo come sovrano; posto ciò ne scende
sequela, o ch'egli nell'ora della disdetta si univa ai nemici della sua
famiglia, o ch'egli si apparecchiava a sostenere la seconda volta la
parte del 1848 e 1849. Nel primo caso era senza onore, nel secondo senza
fede; sleale sempre. Dunque silenzio! La lealtà in casa d'Austria ci sta
come i vescovi _in partibus infidelium_.
Riassumiamo. Il granduca senza ragione disertando dal paese lo espose
agli orrori della guerra civile e dell'anarchia; e ciò nel punto in cui
stava per combattere la seconda impresa italiana; pretesto la
Costituente: causa vera, starsi a cavallo al fosso per vedere dove
l'andava a parare, e godere i frutti così della vittoria come della
disfatta; a cui salvò il paese dagli orrori a cui lo esponeva egli, dava
in mercede l'esilio, la quinquenne carcere, l'oltraggio della condanna
infamante, la inopia e l'avvilimento; cui troppo si fidò della sua
giustizia espose al ludibrio delle genti, al rimprovero di avere
condotto al macello la patria, all'amarezza di essersi in mal punto
ingannati, e ad altre più cose che a noi fia bello tacere. Il paese
innocentissimo funestò con le stragi, avvilì con la occupazione
straniera, spiantò con gl'imprestiti per pagare il boia che lo
frustasse, empì di miseria e di lutto con le frequenti condanne per
cause politiche; tentò più volte consegnarlo in mano degli esosi
gesuiti, le libertà calpestava, i giuramenti tradiva, insultava la
cittadinanza toscana ostentando assisa austriaca senza bisogno alcuno, e
predicandola stupida e ignorante al mondo; s'ingegnò fulminare con le
artiglierie Firenze, spinse i nati di una medesima terra a sbranarsi.
Alla perfine rifuggì presso il nemico, anzi nella sua medesima casa ei
riparò: i figli suoi nello esercito austriaco comparvero solo per
dimostrare che, rinnegato il paese dove pure avevano aperto gli occhi
alla luce, quando avessero potuto, lo avrebbero con le proprie mani
messo a pezzi.


RACCONTO DI ERODOTO APPLICABILE AI NOSTRI TEMPI
SOMMARIO.
Si confortano i Lombardi a perseverare animosi, ed a non
ispogliarsi leggermente della libertà.

Narrasi da Erodoto nel libro settimo delle Storie intitolato a
_Polinnia_ come: — «i Greci, instando Serse con l'enormi sue forze
terrestri e marittime, si adunassero insieme in un medesimo luogo, e,
datasi fede scambievole, deliberassero prima di tutto _riconciliarsi e
far pace delle ingiurie passate_; conciossiachè la guerra durasse allora
vivissima tra diverse città, e segnatamente tra gli Ateniesi e gli
Egineti».
«E decretarono eziandio inviare legati ad Argo, a Gelone figlio di
Dinomene, a Corcira e a Creta per istringere alleanza con gli Argivi, i
Siracusani, i Corciresi e i Cretesi contro i Persiani, e sovvenire ai
Greci nelle angustie presenti. — Intendimento loro era di assembrare, se
la cosa poteva farsi, il corpo ellenico, e con supremi e concordi conati
vincere i pericoli sovrastanti a tutta la Grecia. Grande si presentava
in quei tempi la potenza di Gelone, e non occorreva stato nella Grecia
che superasse ed uguagliasse il suo».
«I legati Greci giunti al cospetto di Gelone favellarono in questa
sentenza: «I Lacedemoni, gli Ateniesi e gli alleati loro noi commisero
verso te ambasciatori per confortarti a unire le tue alle nostre forze
contro i Barbari. Tu per certo hai inteso il re di Persia in procinto
d'invadere la Grecia, e gettato un ponte sopra lo Ellesponto, seco
menando quante ha forze l'Oriente, sul punto di assaltarla. Sotto
pretesto di vendicarsi di Atene egli disegna ridurre la universa Grecia
in servitù. Tu sei potentissimo re, e la Sicilia che tu governi forma
parte non piccola della Grecia. Sovvieni pertanto i vendicatori della
libertà, e unisciti a noi per conservarla. Dove la Grecia tutta
colleghisi, noi comporremo potenza capace per combattere il nemico che
sta per assalirci; se poi alcuno di noi tradisce la patria, o ricusa
sovvenirla, — se la parte più valida dei suoi difensori si astiene da
imprendere la guerra, noi presagiamo sicuro lo eccidio di noi. Armati di
provvidenza avanti. — Noi soccorrendo procaccerai la tua propria
salvezza. Le imprese prudentemente concertate riescono a prosperevole
fine».
«Greci, — rispose Gelone concitatissimo, — e con qual fronte me
confortate ad aggiungere le mie forze alle vostre incontro ai Persiani,
mentre io quando vi pregai di sussidio nella guerra Cartaginese, ed
implorai il vostro ajuto per vendicare la morte di Dorieo figlio di
Anassandride contro gli abitanti di Egeste, voi, nonostante le mie
profferte di affrancare i porti per voi sorgente di comodi e di utilità
grandissime, non solo rifiutaste sovvenirmi, ma eziandio negaste
vendicare meco la strage di Dorieo? Per voi non istette pertanto che
questo paese non cadesse pienamente in preda dei barbari; ora le cose
mutarono aspetto, e adesso che la guerra vi sta sulle porte, anzi pure
in casa, vi ricordate alfine di Gelone. Io però non voglio imitarvi;
manderò a sostenervi 200 triremi, 20,000 opliti, 2000 cavalli, 2000
arcieri e 2000 frombolieri; ancora provvederò di grani tutto lo esercito
fino a guerra vinta, a patto che io ne sarò condottiero; diversamente nè
io verrò alla guerra, nè vi spedirò veruno dei miei sudditi.
«Siagro male frenando lo sdegno soggiunse: Gemerebbe l'ombra onorata di
Agamennone se sapesse come gli Spartani avessero consentito lasciarsi
spogliare del comando da un Gelone e dai Siracusani. Se vuoi soccorrere
i Greci, obbedisci ai Lacedemoni, se ricusi, tienti le tue milizie, noi
sapremo farne a meno».
«Gelone, considerando cotesta repugnanza insuperabile, di nuovo riprese:
«Spartani, la ingiuria profferita contro gente animosa muove a sdegno;
ma la vostra tracotanza non mi dissuaderà dal rispondervi pacato. Se
tanto alligna in voi desiderio di comando, naturale cosa è che io più di
voi lo pretenda, imperociocchè io manderei maggiore copia di milizie e
di navi che voi non avete. Ma poichè la mia proposta v'irrita
componghiamo fra noi. Se voi assumete il comando delle forze terrestri,
sia mio quello delle navi, o se voi scegliete le navi, a me le milizie
di terra. Accettate una di queste condizioni, altrimenti partite, e fate
a meno di me.»
«Tali furono le offerte di Gelone. Il legato di Atene prevenendo lo
Spartano così favellò: «Re di Siracusa, la Grecia non abbisogna di
Capitano ma di forze, e noi verso te deputava per domandartene. Però tu
neghi concederle se noi non ti eleggiamo Capitano; tanto in te arde la
libidine d'impero. Finchè chiedevi l'universale comando, noi tacemmo
persuasi che il legato di Sparta risponderebbe per ambedue. Rigettato
dalla condotta universale ti se' ristretto a quella delle navi. Adesso
sappi che, dove te la consentissero gli Spartani, noi negheremmo: perchè
dopo loro spetta a noi. Se i Lacedemoni intendono capitanare le navi,
noi nol contrasteremo, ma non cederemo altrui. Noi che possediamo la
massima parte delle navi greche, e ci vantiamo popolo antichissimo fra i
Greci, abbandoneremo il comando ai Siracusani? noi che soli dei Greci
non mutammo mai suolo, noi che fra i compatriotti nostri annoveriamo il
capitano che navigò allo assedio di Troja, e per testimonianza di Omero
fu peritissimo ad ordinare lo esercito e schierarlo in battaglia! —
Forti di questa testimonianza noi senza inverecondia possiamo celebrare
la patria nostra».
«Ateniesi, replicò Gelone, voi non di capitani ma di soldati difettate.
Or via, poichè siete così ostinati, tornate in Grecia e dite ch'essa
delle quattro stagioni dell'anno si toglie la primavera».
Gelone negò i sussidii e mandò Cadmo di Coo a Delfo con tesoro grande e
parole di pace, istruendolo che stesse ad osservare, e se il re vincesse
lo presentasse del danaro, e la terra e l'acqua per tutto il suo stato
gli offerisse; se all'opposto superassero i Greci, se ne tornasse in
Sicilia.
I Greci senza i soccorsi di Gelone vinsero i Persiani sul mare a
Salamina, su la terra a Platea.
Così i Greci, avendo a fronte uno esercito di un milione e
settecentomila fanti e di ottantamila cavalieri, ed una flotta di
milleduecentosette galere, non disperarono. Ai Lombardi stanno contro
forse quarantamila combattenti, e si avviliscono. Contro ai Greci stava
un Re potentissimo, signore di contrade vaste 165,300 leghe quadrate,
copiose di pecunia, abbondanti di biade, capaci a mettere in piedi nuovi
eserciti, e non disperarono. Contro ai Lombardi sta un reame stremo di
danari, cadente, commosso da interne perturbazioni, diviso e già
precipitante allo estremo esizio, e si avviliscono. I Greci convocarono
un congresso di popoli amici allo istmo di Corinto, e quantunque i
Cretensi e i Corciresi mancassero alla posta e gli Argivi tradissero,
non disperarono. I Lombardi vedono accorrere da tutte le parti d'Italia
uomini armati per la comune difesa, e si avviliscono. I Greci non
consentirono cedere a Gelone neppure una parte del comando in mercede
degli aiuti promessi; i Lombardi renunziano alla libertà in premio del
sussidio sperato. Così i Lombardi si mostrano vogliosi meno di libertà
che di mutare signoria, e così mostrano che noi anime pallide d'oggidì
rassomigliamo i grandi avi nostri di Pontida e di Legnano quanto un
verme nato dalle viscere del cavallo morto e corrotto rassomiglia al
feroce destriero, ch'empie le campagne del potente nitrito, drizza la
criniera, e spumante e fumoso si precipita nel folto della battaglia
quando la tromba guerriera suona l'ora in cui i magnanimi o vincendo o
morendo si rendono immortali.


IL PORTO DI PIOMBINO
Intorno alla necessità di ristaurare il porto di Piombino, che
tuttavia dura; e provvedimenti ministeriali censurati.

Io me ne stava seduto sopra un mortaio di bronzo napoleonico alla Stella
(la quale per parentesi non era la _Stella di Venere_, ma la fortezza
ove il 9 gennaio dalla salutifera incarnazione 1848 mi trasportarono),
e, quantunque non paresse, aspettava con impazienza la barca della
posta. Da gran tempo era trascorsa la ora consueta dello arrivo, e non
si vedeva: parevami il tempo buono e non sapeva persuadermi del ritardo.
Guardava il Fanalaio, e poi il Capo, e dal Capo riportava gli occhi sul
Fanalaio, ma egli non segnalava la barca. Finalmente ruppi il silenzio e
domandai al Fanalaio: o come avviene che non giunge la posta? Non soffia
favorevole il vento? — Soffia, rispose, ma, quando il mare è niente
grosso, nel Porto di Piombino non si entra nè si esce. — E da
Portoferraio? — Si entra e si esce con tutti l venti: cosa che piacque
poco anche al Diavolo onde depose il pensiero di farsi marinaro. — Se
invece fosse stato nel Porto di Piombino... — A questa ora il Diavolo
sarebbe Ammiraglio!
Simile discorso mi condusse, secondo mi persuade la mia natura curiosa,
a ricercare un po' sopra le ragioni del Porto di Piombino, ed ecco
quanto mi venne fatto trovare. Il Porto presente di Piombino pur troppo
offre le comodità celebrate dal Fanalaio, ma mezzo miglio lontano poco
più poco meno tirando verso levante si trova il Porto vecchio, che fu
Porto Pisano. Adesso è interrato, ma di leggieri si potrebbe affondare.
Il regio architetto Caprilli a cui venne ordinata la perizia fece
ascendere la spesa a L. 170,000 e il Principe l'approvò con Rescritto.
I Piombinesi reputarono avere toccato il cielo col dito, ma ebbero a
sperimentare la verità del proverbio che tra il detto e il fatto corre
un bel tratto; e di vero continuano a possedere lo egregio porto, ove e
d'onde anche in tempo buono non può entrare nè uscire una barca.
Questa impresa meriterà la grave attenzione delle Camere come
urgentissima, poichè Portovecchio essendo posto nel Canale di Piombino
presenta opportuno ricovero ai bastimenti che vanno a caricare alla
Torre del sale, a Follonica, a Torre mozza, a San Vincenzo e a Bibbona,
e comodo rilascio alle navi che veleggiano per levante quando
imperversando il vento mezzogiorno-ponente non possono proseguire il
cammino a ponente nè a levante, nè ripararsi a Longone, nè a
Portoferraio.
A dimostrare la importanza di cotesto porto, basti sapere che i Genovesi
assumevano la spesa dello affondamento a patto di averne la privativa
per 20 anni: pretensione smoderata, che non poteva concedersi
ragionevolmente (il che non toglie per parentesi che in Toscana non si
concedesse), e come a Dio piacque non lo fu. Tuttavolta Piombino ha il
porto ove non si entra, e donde non si esce a tempo buono, il
Portovecchio rimane interrato e non giova a Toscani, nè a Genovesi, nè a
nessuno.
Altre volte dimostrai la inanità delle strade ferrate per la Maremma
paralelle al mare: queste dichiarai impossibili nonostante lo
schiamazzo, il frastuono e il brulichio degl'interessati a smentirmi.
Più riposato consiglio mi dava ragione. I provvedimenti in quanto a
strade per promovere la prosperità delle Maremme consistono nel
praticare strade perpendicolari al lido, e quivi erigere porti comodi e
sicuri. Insomma stringere gl'interessi e i commerci della Maremma con
Livorno. All'opposto il Ministero Toscano ogni dì più s'ingegna a
segregare Maremma da Livorno, e ciò si manifesta dalla Legge 9 marzo
1848 che toglie Guardistallo, Montescudaio, Casale, Bibbona e tutto il
Vicariato di Rosignano dalla giurisdizione del Tribunale di Livorno,
allontanandone così gl'interessi, le cause di frequenza e le occasioni
di concertare negozi. — Per fare così male come il Ministero toscano, ma
per Dio santissimo bisogna avere proprio sortito dalla natura un genio a
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