Amelia Calani ed altri scritti - 09

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perfettibilità non consiste nel mortificarsi, murarsi fra quattro mura e
fare la pelle dell'istrice a quanto alletta e piace: mai no; coteste a'
dì nostri si stimano pratiche da insensati; in questo altro piuttosto
consentirà l'universale a riporre la perfettibilità dell'uomo: — nel
godimento della maggior somma di piaceri fisici e morali con vantaggio
del corpo e spirito così suoi come altrui.
Il corso della umanità verso il bene è quasi un fiume: appena egli esce
dalla sorgente montana, tu lo vedi esitare con acque dubbiose sul
cammino che deve tenere: in breve acquista baldanza e si caccia giù per
dirupi in corsa avventurata, rompendosi fragoroso e spumante: non vi
rechi sgomento se lo vedete volare in fiocchi di spuma e in sprilli
minutissimi, in breve saprà raccogliere le membra spante per ripigliare
copiosamente magnifico il suo sentiero: ad un tratto, senza che ne
apparisca evidente ragione, si strema, fa gomito, e, come vinto
dall'angoscia, si ripiega verso la sua sorgente. Qui molti dicono: la è
finita; e s'incamminano a casa. Ma il fiume, dal breve riposo ricuperata
balìa, torna a scorrere verso il mare: chi lo ha seguito si conforta, ed
ormai non teme più sinistro. Troppo presto ei confida: il fiume incontra
un lago, ed in quello sboccando, confonde le sue acque con le acque di
lui. Allora altra parte di gente che gli tenne dietro torna a disperare
e dice: abbiamo veduto la sua tomba, andiamcene con Dio. I più ostinati,
rimasti, vedranno come il fiume non abbia mescolato le sue con le acque
del lago, bensì all'opposto, traversandole con forza invincibile,
sbocchi per altra parte, aprendosi largo letto per la pianura, e
finalmente maestoso e tranquillo si acquieti nelle braccia della Teti
marina.
Guai all'uomo che non mira sempre davanti a sè! Tuttavolta, anche a
rischio che ne incolga la sorte della moglie di Lot, adesso ci bisogna
voltarci addietro, e vedere se veramente ci sia causa di disperare;
guardiamo dunque se il fiume della umanità abbia progredito, ossivvero
stornato verso la sorgente. Nella decadenza dello impero il tiranno
coronato era padrone del mondo, e con una rete lo circondava tutto:
questa rete era di ferro; l'ira sua inevitabile come il destino, la
forza prepotente al pari di quella dell'uracano; oggi molti i despoti
d'intenti uguali, ma di polso tremulo e con le coste fradice: allora la
schiavitù rodeva il corpo sociale come la lebbra i corpi fisici, adesso
non più servaggio nè lebbra: la confisca in quei tempi arnese ordinario
di regno, ai tempi nostri non si conosce confisca; e sì che non manca
chi ne avrebbe voglia ed anco bisogno, ma si vergogna, e, stretto
alquanto l'agrume co' denti, se gli sente alleghire, e comecchè a
malincuore, lo lascia andare: uno solo non si vergogna e divora; ma
siccome piglia a cui ha divorato, fa dire: non ci badate, la rabbia è
tra i cani! Il fideicommisso ed il maggiorasco ecco cascarono come
vecchia tappezzeria di damasco da vecchia parete: i delitti di lesa
maestà scomparirono da parecchi codici: di giorno in giorno vie più si
comprende come la misura unica, giusta e per tutti sia quella del
becchino; tre braccia avvantaggiate tanto pel carnefice quanto per la
vittima!... Certo taluni, non si vuol negare, riconficcarono gli assi
dei patiboli politici: pazienza! pazienza! chi conficca sa egli per cui
avrà conficcato? Le libertà del commercio in alcuni paesi hanno preso
stabile stanza; alla porta di altri picchiano, non mica a modo di
mendico, bensì dello esecutore di giustizia che viene a gravarti i
mobili di casa, e s'impazienta aspettare. Sicuramente a cui guarda la
superficie sembra l'aspetto della terra pari a quello che fu; anche a
Pompei, a Resina e ad Ercolano la gente nella vigilia della eruzione del
Vesuvio ballava. E poi nuove cause furono versate in seno al corpo
sociale, e la causa è seme necessario di altri effetti; ai piedi delle
donne chinesi si mettono con profitto freni di ferro, non già ai
cervelli italiani, e peggio ancora alle forze perpetuamente operative
del mondo.
Ma per tornare all'argomento, si potrebbe aggiungere, in prova del
maggior danno che, disperando, partoriscono le storie sopra la poesia,
quest'altra considerazione, che lo storico si presume almeno abbia a
ragionare per tutti, mentre il poeta per sè solo sente.
E ciò nonostante il poeta disperando sgomenta troppo più dello storico.
Lo storico per ordinario favella a pochi eletti; il poeta alle
moltitudini; il primo sponendo i suoi pensieri incontra intelligenze
assuete a meditare; donde l'esame e la confutazione, fecondi entrambi di
benefizio inestimabile in pro della verità; il secondo commove cuori con
la percossa della convinzione, la quale non si discute ma si sente, e la
più parte dei cuori geme inferma pei mali presenti e pel presagio degli
avvenire. Questa convinzione poi casca giù pesa come mazza da arme
qualora si parta dal Byron o dal Leopardi.
Però il Byron troppo diverso dal Leopardi: quegli è quasi vento che
manda sottosopra l'oceano, questi il simoun del deserto, che dove passa
sterilisce; lo spirito del Byron, come Giacobbe che contende con
l'angiolo, lotta, si contorce, urla smanioso, tenta mordere e talora
anco morde: insomma è battaglia di anima legata alla materia, sforzo
d'intelligenza che vorrebbe spingere il volo nelle regioni più sublimi
dell'empireo e rompe l'ale ai ferri della gabbia: bufera d'ira e di
dolore suscitata dalla impotenza a penetrare la ragione de' misteri che
non può conoscere nè dare all'oblio: ma la procella passa e torna il
sereno così profondamente limpido, così gloriosamente divino, che
appuntandoci gli occhi ci vedi lassù nell'alto la Speranza e Dio. Non
così la disperazione del Leopardi: come infeconda, la sperimentiamo del
pari generosa: infelicissimo egli era per cause intrinseche ed
estrinseche; fuori di lui padre rigido, censo angusto, uomini avari,
tempi o nemici o poco propizi alle lettere; dentro lui salute incerta,
deformità umiliante, inettezza a operare da uomo; di qui l'umore nero
che a mo' di caligine si frappone tra lui e gli oggetti circostanti, e
la sazietà di tutto, perfino delle cose che non poteva avere
sperimentate, la scredenza e il decreto che condanna gli uomini a
miseria immortale, perchè egli si sente senza rimedio infelice. Dai
canti del Byron nessuno cavò argomento di appiattarsi dietro la lapide
del sepolcro dinanzi ai certami della vita; molti per converso ci
trovarono acciaro per farsene usbergo al petto e combattere pertinaci
contro gli uomini, le cose, e, se la necessità lo portava, contro lo
stesso destino; mentre è ricordo pieno di amarezza quello di avere
trovato il volume di poesia del Leopardi in tasca al giovane che sul
principio di questo anno 1857 si precipitò dal ponte di Carignano. Che
fosse piccolo ingegno Giacomo Leopardi non è da dirsi, pure torremmo
volentieri licenza di dubitare assai se la fama a cui saliva egli
meritasse intera per ciò che spetta a splendore d'immagini ed altezza di
concetti e a facile eleganza di eloquio, ma senza dubbio poi, giusta la
opinione nostra, la demeritò come poeta cristiano e come poeta civile.
Per ultimo, qualunque potessero essere state le colpe di Giorgio Byron,
gli vennero riscattate dall'ultimo canto agitatore della sua anima ad
infiammarsi di entusiasmo per la Grecia a guisa di leone che si sferza i
fianchi, e dalla morte incontrata per rivendicare in libertà cotesta
patria del bello. Meritamente la sorella Augusta volle che su la tomba
di lui si tenesse memoria del pellegrinaggio del fanciullo Aroldo e di
cotesta morte; tanto basta per raccomandarlo alla ricordanza, e, quello
che importa più assai, allo amore immortale degli uomini.
Quante volte comparisce un libro di poesia fra noi lo dobbiamo salutare
stella mattutina promettitrice di giorno glorioso; e laddove il libro
parli di amore, deh! non vi dia fastidio l'abbondanza di amore,
conciossiachè ben comincia chi su l'alba del suo ingegno arde qualche
grano d'incenso su l'ara della Venere celeste; lì presso vivono le
Grazie, ed egli verrà propiziandosele per via di quel suo sagrificio
offerto con mente pura: ora chi non ha amiche le Grazie non presuma
salire in fama qualunque scienza intenda coltivare, fosse anco quella di
Euclide. Trista però è la stella che nasce e tramonta nello emisfero
dello amore; a mano a mano che salisce l'erta dei cieli, forza è che
raddoppiando colla luce il calore più largamente e più intensamente
illumini e scaldi. Poche poesie liriche abbiamo noi altri Italiani che
parlino di altro che di affetti femminili, e fra queste le famose
scarsissime: a parte la miseria delle condizioni pubbliche, la quale in
tempi barbari seppe ispirare persino ai rudi monaci sassoni lamentazioni
da non disgradarne a petto di quelle di Geremia; qui male si fanno
parlare le Muse di famiglia, di fortune private, di necessità, di
malattie spirituali; di tutto quanto insomma agita l'umano consorzio.
Giuseppe Giusti dotò il paese di liriche satiriche ed accrescendo il
nostro retaggio di poesia aperse nuovi e fecondissimi sentieri: a noi
però non apparisce la ragione per la quale altri non ce lo abbia
seguitato. Forse atterrì l'altezza alla quale egli seppe condurre questa
maniera di poesia e il terso stile; però il cerchio del poeta comparisce
adesso dilatato, che i casi succedentisi di giorno in giorno dissuadendo
il riso si accostano al gemito di Geremia, per quindi trascorrere al
furore di Ezechielle, od allo entusiasmo dell'Apocalisse, conciossiachè
parrebbe che non dovesse farsi attendere troppo il tempo in cui
l'angiolo con voce magna griderà al figlio dell'uomo che siede
incoronato sopra il suo trono tenendo in mano una gran falce acuta:
_mena giù la tua falce e mieti, che l'ora del mietere è venuta, e la
messe è secca davanti la faccia del sole_. E per la parte dello stile,
quantunque il Giusti molto abbia fatto ricercando argutamente l'eleganze
dello idioma materno, ciò non toglie che non si possa fare anche più,
apparendo or qua or là in taluna delle sue scritture un certo tal qual
intralciamento; chè la semplicità in lui non era spontanea, bensì con
indefesso studio conseguita: e per fermo se da un lato senza molto
studio non si arriva all'eccellente nelle arti, dall'altro però bisogna
dire che il soverchio lascia vestigia di stentatezza nelle opere; così,
comecchè magnificentissime apparissero le orazioni di Ortensio e di
Crasso, tuttavolta fino dai loro tempi per testimonianza di Cicerone
solevano dire che sapevano di lucerna. Altri molti virtuosamente in
altre maniere si adoperarono, ma mentre la nostra letteratura, mercè lo
eloquio soave dovrebbe essere ricca di tale poesia, non solo al paragone
degli altri popoli, ma in astratto apparisce oltre ogni credere grama.
Gl'Inglesi, i Tedeschi, gli Scandinavi, gli Spagnoli possiedono a
ribocco illustri canti così antichi come moderni di avventure, di gesti
eroici, di casi fortunosi, i quali hanno virtù di commovere altamente il
popolo che ne fa sua delizia. Presso noi niente di questo: pii deliri
paionci quelli di rimettere in onore gl'inni di san Francesco e le
seguenze d'Iacopone da Todi; ma lasciamo di loro, e che dovremo dire di
Guittone di Arezzo, di Guido Cavalcanti, di Cino da Pistoia e di altri
cotali; anzi pure delle canzoni dello stesso Alighieri? In cotesti versi
tutto parla, la teologia, l'astronomia, la fisica, la metafisica e via
discorrendo; una sola cosa per ordinario vi tace, il cuore e quel verace
ridondante affetto che trasportando sublima: però i popoli li tengono a
fastidio, e gli studiosi nel prenderne notizia hanno a combattere un
senso di sazietà che s'impadronisce di loro. Gl'Inglesi e gli Americani
vantano poeti pastori, fabbri, calzolai, i quali non già come tra noi,
indossata la giubba del dì delle feste, si recano in Parnaso, diventando
coda di leone da capo di botta che erano prima: bensì convitando le Muse
nelle loro officine, con molte lusinghe le inducono a trattare gli
arnesi fabbrili con le mani nudrite d'icore celeste. La libertà del
commercio destò uno stormo di cigni popolani, un altro la riforma
elettorale; forse un terzo sta per destarsi a cagione del taglio dello
stretto di Suez avversato dal Palmerston con più caparbietà che
sapienza. La Musa italiana procede schifiltosa, teme scottarsi e
bruttarsi le dita toccando gli arnesi del fabbro; anche in campagna
ostenta modi non pure urbani, ma cortigianeschi, nè sa cantare un
rispetto villereccio se non lo spolverizza col fiore di farina comperato
alla canova della Crusca. Che se vogliamo trovare qualche cosa da
contrapporre a queste poesie civili, ecci mestieri ridurci in qualche
alpe remota dove prorompono dal vivo masso poesie ed acqua del pari
schiette e del pari ignorate, o in qualche paese lontano che non piegò
la testa sotto le forche caudine della nostra pretesa civiltà.
Come nella vita attiva un fatto vale più di cento parole, così nelle
discipline speculative un esempio vince in bontà qualsivoglia
insegnamento, massime nelle poetiche, dove per precetti non riescirai
mai a esplicare intero il tuo pensiero, nè altri potrà concepirlo; ond'è
che per noi si domanda licenza di raccontare un caso, il quale
confidiamo che, come atto ad allietare l'aridità dei raziocinii, così
conferisca a farci comprendere meglio che non ci verrebbe concesso in
diversa maniera.
Immaginate due archi congiunti insieme con una delle parti estreme, e
questi archi dilatarsi di parecchie miglia, voi avrete idea di due seni
che l'isola di Corsica fa dirimpetto alla Italia, l'uno a sinistra
termina con la punta del Capo Sacro, quello a destra con la foce del
Golo, di qua il Capo Corso rigido per ardui colli, brulli in cima, da
mezza costa in giù chiomati di olivi di ombra mesta più che altrove,
fitti, intricati nei moltiplici rami così da diventare paurosi come
altrettanti capi di Medusa seminati costà; e casolari sospesi a scogli,
dove parrebbe non si potessero reggere a brucare le capre: ville più
popolose immerse quasi nella marina, talchè dalle finestre di talune si
pesca: di là la inamabile città di Bastìa, e dietro la Bastìa, la bella
pianura di Biguglia, i colli placidi, lo stagno immenso di Chiurlino,
clima beato, suolo fecondo, e che potrebbe per molti conti tenerci luogo
di paradiso terrestre se non si opponessero la poca solerzia (chè dire
trascuranza degli uomini da un pezzo in qua non sarebbe giusto) e l'aere
pestifero che esala lo stagno: il punto nel quale si congiungono gli
archi forma quasi un promontorio quinci e quindi battuto dal mare, e sul
promontorio sorge una casa isolata, asilo maraviglioso ai cuori feriti
se avesse copia, come pur troppo patisce scarsezza di ombre e di acque;
molto più che dinanzi a lei stanno l'Elba, Montecristo, la Capraia ed
altre isole minori, a mo' di branco di foche che si spassino nelle acque
tirrene: più oltre in anfiteatro le vette dei colli etruschi e dei
liguri, donde ne viene il presagio dei tempi foschi e dei sereni.
Su la terrazza di questa villa, certa sera di state stavano raccolti
taluni toscani e taluni côrsi lasciando vagare lo spirito loro in balìa
di vari ragionamenti, come le nuvole che in quel momento dondolavano ai
fiati vespertini per lo azzurro dei cieli. Di cosa in cosa il discorso
venne a fermarsi sopra la povertà dei lirici civili in Italia, e sopra
le cause di questa inopia; quindi con naturale trapasso l'uno l'altro
interrogava quale fosse per suo avviso la migliore lirica che da lui si
conoscesse.
Il primo, cultore appassionato del Byron, così rispose: — Cose note
favello, ma se non so dirvene delle nuove non è mia la colpa. Voi
rammenterete i colloqui del capitano Medwin avuti col Byron, quando ei
si condusse a visitarlo a Pisa. Or be': fra loro ed altri compagni certa
volta accadde di ragionare sul proposito che adesso ci è capitato
dinanzi; chi dava la palma a Coleridge, chi a Moore, chi a Campbell; il
Byron affermò non conoscere oda che superasse quella composta da incerto
poeta intorno la morte di sire Giovanni Moore, e la recitò agli amici, i
quali veramente la trovarono quale _quel re del canto_ l'aveva
giudicata. L'oda diceva così:
IL FUNERALE DI SIRE GIOVANNI MOORE.
Non fu sentito un tamburo, non un canto funerale, mentre noi
trasportavamo anelanti il suo cadavere su i baluardi: non soldato
scaricò l'ultimo addio sopra la tomba dove seppellimmo il nostro
eroe[12].
[12] Per bene intendere questa oda, è mestieri che il lettore
ricordi come gli Inglesi, cui premeva assai che la Spagna
sostenesse la guerra contro la Francia, mandarono in aiuto degli
Spagnuoli sire Giovanni Moore, generale di buona reputazione,
con 30,000 uomini. Intento il governo inglese, secondo il
vecchio costume, a fare il maggior guadagno possibile con la
minore posta possibile, lasciò Castanos e Palafox avventurarsi
soli su i piani di Tudela, dove furono disfatti; allora il
Moore, il quale non si era inoltrato tanto da soccorrerli
efficacemente, nè tanto poco da ritirarsi senza pericolo,
stretto da Napoleone e da Soult, disegnò, traversata la
Gallizia, ridursi in Corogna dove lo aspettavano le navi
onerarie. Comecchè parecchi gesti illustrassero questa ritirata,
ella fu disastrosa oltremodo, avendoci perduto gl'Inglesi meglio
di diecimila uomini, e fu anco infame, avvegnadio inaspriti
dalla sventura eglino commettessero a danno degli Spagnuoli di
ogni ragione eccessi. Sopraggiunto dalle forze del generale
Soult, il Moore conobbe che non poteva effettuare lo imbarco
eccettochè in virtù di capitolazione, o per forza di arme:
scelse l'ultimo partito, e bravamente combattendo fu colpito a
morte, mentre animava i montanari del quarantesimosecondo
reggimento con le parole: «Rammentatevi dello Egitto, dove
mancando i cartocci adoperaste le baionette.» Lo seppellirono su
i baluardi, e intanto che gli uni ributtavano i Francesi, gli
altri s'imbarcavano. L'oda poi non fu composta dal Byron come il
Medwin sospetta, bensì da Carlo Wolfe.
A mezza notte squallidamente lo seppellimmo, scavando la terra colle
baionette, al dubbio lume della luna velata di caligine, al fumoso
chiarore delle lanterne.
Noi non chiudemmo il suo cadavere dentro inutile cassa; bastò un
lenzuolo: egli giacque come dorme il soldato, avvolto nel suo mantello
di guerra.
Brevi le preghiere che proferimmo, verun rammarichio proruppe dalle
nostre labbra; solo fissammo i nostri occhi su la faccia del morto, e
pensammo amaramente all'indomani.
Pensammo, mentre lo componevamo nella stretta fossa ed acconciavamo il
suo solingo guanciale, che in breve calpesterebbe la sua testa il nemico
straniero, e noi pressava la necessità di allontanarci sul mare.
Egli dirà vituperio a cotest'anima che aperse le ale; egli ne oltraggerà
le fredde ceneri: lui avventuroso! se lo lasceranno dormire tranquillo
nel sepolcro dove i suoi compatriotti lo hanno deposto!
Appena avevamo compita la metà del nostro ufficio che suonò l'ora della
partenza, ed il rombo del cannone ci fece accorti che il nemico veniva
per assalirci alla sprovvista.
Tristi e dolenti ci affrettammo a coprire di terra lo eroe insanguinato
e rapito ai campi dei suoi gesti: non gli tracciammo un motto, non gli
levammo una pietra: noi lo lasciammo solo con la sua gloria.

L'ora del tempo che imbruniva contribuì a dare risalto alla profonda
melanconia di cotesta oda; però non istette guari che un altro degli
amici, commendando come meritava la poesia, pretese poterle contrapporre
un altro canto, il quale, secondo lui, lo superava, o alla più trista,
gli reggeva il paragone: aggiunse venirci d'oltre Oceano, figlio di Musa
americana, e avere per titolo: _L'orologio di per le scale_. Invitato a
palesarlo, recitò:

Poco innanzi al sentiero che mena al villaggio si trova il vecchio
castello: altissimi pioppi di qua e di là ne guardano il portone, e
l'orologio antico posto sul pianerottolo della prima scala visto di su
la soglia pare che dica a cui passa: _Sempre e mai_.
Eccolo lì in capo della prima scala con le sue lunghe dita di ferro di
dietro alla grave cappa di quercia alterna cenni misteriosi come il
frate, il quale per di sotto la veste di bigello si fa il segno della
croce e sospira: poi con suono lugubre saluta i passaggeri: _Sempre e
mai_.
Mentrechè il giorno dura, l'antico orologio manda fuori la voce
abbastanza soave, ma durante la notte casca giù con misura avvicendata,
come un passo che alternando desti l'eco nelle sale solitarie. Pei
soffitti, su i pavimenti cotesto passo corre, e da per tutto. Alla porta
di ogni camera si accosta, e pare che dica: _Sempre e mai; mai e
sempre_.
Traverso i giorni della gioia e dello affanno; traverso quelli delle
nascite e delle morti; traverso le fuggevoli vicende che il tempo muta
perpetuamente, egli solo invariabile ripete senza posa le parole
solenni: _Sempre e mai; mai e sempre_.
Un dì in questa casa l'ospitalità aveva messo stanza: immensi fuochi
dentro il focolare crepitavano; qualunque straniero vi capitasse sedeva
a mensa convitato; ma pari allo scheletro dei festini di Babilonia,
questo simbolo del tempo che consumandosi consuma avvertiva irrequieto:
_Sempre e mai; mai e sempre_.
Costà gruppi di bimbi folleggiando ruzzavano: là le ragazze porgevano
ascolto pensose ai lusinghieri favellii dei dami: da questa camera uscì
nella notte nuziale la sposa bianco vestita: giù in quello androne muto
stettero distesi i morti ravvolti dentro il lenzuolo di neve: poi, in
mezzo al silenzio che tiene dietro alle preghiere dei morti, si faceva
sentire la voce del vecchio orologio: _Sempre e mai; mai e sempre_.
Tutti adesso andarono dispersi; chi si accasò, chi morì, e quando nel
fondo del cuore amareggiato io domando: dove e come si troveranno essi?
Vedremo tornare un'altra volta i giorni che passarono? Il pendolo antico
risponde: _Sempre e mai; mai e sempre_.
Quaggiù _mai_, e _per sempre_ lassù dove non sono cure, nè affanni, nè
tempo che separa, nè morte che distrugge. _Sempre_ lassù; quaggiù _mai_.
L'orologio dell'eternità batte indefesso: _Sempre e mai; mai e sempre_.

E il terzo amico a sua volta favellò: belli questi canti, anzi divini
per copia di passione e d'immagini, comecchè svariate congiunte
strettamente al soggetto, ed a questi che ricordaste del Wolfe britanno
e del Longfellow americano potrebbonsi aggiungere a cento a cento altri
non meno portentosi; però importa che voi notiate che se i Sassoni non
lasciarono agl'Inglesi la loro lingua intera, che questa ebbero a
spartire co' Normanni; quanto a sentire, il sangue sassone primeggia; e
in ogni caso anco i Normanni venivano da tramontana: ond'è che se per
affetti ed eloquio derivano dalla contrada immensa che si chiama
Alemagna, non vi parrà cosa strana nè forte se io vi affermi cotesta
terra possedere due cotanti più poeti lirici così antichi come moderni,
varii, moltiplici e tutti sublimi: ve ne ha taluni aerei quasi fiocco di
nebbia che scivoli traverso il disco della luna, ve ne ha dei caldi da
digradarne il reverbero del sole su le sabbie del deserto, ve ne ha dei
precisi quanto le pitture domestiche dei fiamminghi; insomma vasche
piene di diamanti quali appena s'incontrano nelle _Mille ed una notte_;
io ve ne dirò una del conte Alessandro d'Aversperg austriaco, notabile,
a parer mio, pel modo nuovo col quale ci dipinge la storia di trent'anni
di vicissitudini che capovolsero il mondo: udite; questo canto si chiama
l'_Invalido_, e suona così:

Nel prato dirimpetto all'osteria siede il povero veterano; colà ei narra
sovente battaglie e vittorie, e qualche volta canta una canzone
scarmigliata.
La gioventù turbolenta del villaggio lo circonda seduta su l'erba: le
zitelle dalla guancia vermiglia badano a tenergli sempre pieno il
bicchiere.
Un ragazzo gli sta cavalcioni sopra le ginocchia e si trastulla co'
capelli grigi e le basette di lui: due altri montano la guardia col
bastone e la sciabola che hanno preso al veterano.
Il maestro di scuola del villaggio, il Dionigi tiranno dei fanciulli,
antichissimo compagno dello invalido, siede a sua posta allato del
vecchio amico.
Di un tratto il veterano si tira su le maniche del vestito, e dice: orsù
io vo' raccontarvi una storia, date retta, ragazzi! E i ragazzi, vedendo
il braccio ignudo, strepitosi schiamazzano intorno al vecchio: Oh! le
brutte bruciature che tu hai sul braccio!
Ed io mi fo capace di spiegarvi questi segni che vi ammonisco a
rispettare, però che essi, vedete, raccontano una buona metà della
storia del mondo.
Io passai i primi anni sul margine della Loira tutto fiori; colà un dì
la pace parve che mi volesse sorridere giocondamente sopra la faccia
bella della donna mia.
Conciossiachè sul margine della Loira tutto fiori, voi avete a sapere
che una donzella leggiadra mi promettesse amore: allora io feci incidere
per bene questo coricino sul mio braccio e circondarlo da due nomi.
In quel torno andando fino a Parigi riconobbi di colta il Re, quantunque
io non avessi contemplato la sua degna faccia, eccettochè sopra i
baiocconi di rame.
Più volte m'era venuto fatto di domandare a che diacine rappresentassero
del Re su i baiocconi la testa sola. E poichè veruno me lo sapeva dire,
pensava fra me: _gatta ci cova_. Chi avrebbe detto allora che io sarei
stato profeta!
Un giorno per valli e per monti rimbombò il grido: _alle armi!_ E la
gente mezzo ignuda, tratta fuori di sè, corse sotto le bandiere!
E dimenava i berretti rossi come lingue di sangue in cima a lunghe
picche urlando inebriata: _Libertà! libertà!_ A cui centinaia di
migliaia di voci rispondevano urlando: _Libertà! libertà!_
Il suono di questa parola mi solleticò forte l'orecchio, onde io mi resi
soldato: allora in gaggio di amistanza m'impressero col ferro rovente
sul braccio questo berretto vermiglio.
Un altro giorno poi passò davanti alle nostre file certo uomo pallido e
arcigno, il quale ci chiese se gli volevamo obbedire: noi non gli
rispondemmo sì nè no: egli prese a comandare, e noi gli andammo dietro.
Sopra la destra potente egli portava un'aquila orgogliosa, e dopo
avercela mostrata gridò con voce che ci parve un tuono: _per la patria e
per la gloria!_
Ci garbò il grido, e con immenso ululato ci precipitammo dietro i passi
di lui; egli trascorreva così veloce che qualche volta credemmo lui
stesso trasformato in aquila.
L'aquila incominciò ad aliare da mettere spavento: appena si posò un
attimo in Africa su le piramidi, in Russia sul palazzo delli Tzari, in
Vienna sul campanile di Santo Stefano, in Roma sul Vaticano: ma dove più
le piacque fermarsi fu in cima alle torri di Nostra Donna a Parigi:
quinci tuffava giù gli occhi sopra il fiume dei popoli — fiume dalle
onde senza fine.
Fra lo strepito dei cannoni, dei comandi sul campo e dei canti trionfali
nelle città, io incisi con la punta della spada quest'aquila sopra il
mio braccio.
L'aquila dalle ali poderose un bel giorno ci sparve davanti. — Ohimè!
noi non la rivedemmo più; l'aquila sparì per sempre.
Subito dopo turbe di stranieri ci calarono addosso da tutte le parti e
fu quasi un diluvio di nemici, — e non pertanto da galantuomo! io li
conosceva tutti da un pezzo — ci eravamo veduti spesso su i campi di
battaglia a mezzogiorno, a levante ed a tramontana.
E tutte queste turbe raccolte insieme andavano urlando: pace! Correvano
anni parecchi che questo grido usciva da casa loro; ma allora ce lo
rinnovarono con tale suono di voce che ci parve curioso.
Perchè bene essi urlavano: _pace! giustizia!_ ma intanto mandavano in
fiamme le nostre città e disertavano le campagne.
Costoro con la punta insanguinata della spada gettavano all'aria copia
di palme, e dalla gola dei cannoni ci lanciavano nuvoli di gigli
bianchi.
Uno di cotesti gigli infiammato mi cascò sul braccio, e, come vedete, da
indi in poi non se n'è andato più via.
Per questo modo io porto sul braccio metà della storia del mondo. Questo
cuore, questo berretto, questa aquila e questo giglio ve ne porgono
testimonianza fedele.
Il berretto da molto tempo fu messo in brani: l'aquila se n'è salita
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