Amelia Calani ed altri scritti - 12

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caro signore, questa nostra società casca a pezzi, e mentre veruno edile
pensa ad appuntellare gran parte della fabbrica, che minaccia ruina,
altri si diletta di dipingerne alla raffaellesca il salottino della
signora: a questo modo non si opera in virtù di disegno preconcetto, e
con senno ordinato: mettesi sovente il carro innanzi ai buoi; manca il
necessario, abbonda il superfluo; qui brindelli e ciarpe, là porpore o
broccati; e volenti o no, e improvvidi o consulti alla imitazione
altrui, noi consentiamo, all'andazzo, all'agonia di un po' di vanità; e
talora a cause anco più biasimevoli. — Non muto sillaba di quanto ho
scritto sopra intorno agl'istituti carcerari, o vogliamo dire
penitenziari; pure sarebbe ad un punto argomento d'ira e di riso, e di
ambedue forse come la più parte delle cose umane, considerare che
negletti del tutto o poco curati gl'instituti di bene nudrire ed educare
i giovani innocenti, per acquistare titoli ad essere bene allevati fosse
mestieri comparire dannosi. — Altrove significo questo mio pensiero
forse con la capestreria consueta al mio modo di scrivere; ma ormai io
non posso emendarmi, e potendo non vorrei, imperciocchè io desidero
piuttosto scrivere turco, caffro, esquimese; breve in qualunque più
strana guisa, piuttosto che in quella sazievole e non pertanto malefica
tisana, nella quale ai dì nostri ci troviamo inondati. Comunque sia non
badate la scorza, attendete al midollo. Pertanto, in altra parte, così
scrivo: parlo della prigione in genere, e dei penitenziari in ispecie.
La _civiltà_ ha preteso ordinarli in guisa, che se il popolo vuol essere
tenuto per carne battezzata, per creatura di Dio, per fratello dei
fratelli in Cristo, per qualche cosa in somma come sarebbe un'anima, ha
mestiero di risolversi ad ammazzare uno o due dei suoi simili, o per lo
meno a sfondare un magazzino. Ecco il figlio del popolo onesto: cammina
la notte co' piedi nella neve, sopra il capo ha neve, nè verun letto lo
ricovra ospitale: le mani ha crispate dal freddo, i piedi dolorosi dai
pedignoni, e non trova chi gli faccia luogo al caldano. Chi lo ricopre
ignudo? Chi lo sfama? Chi lo disseta? Chi? — Certo qualche cuore che non
sia tutto pietra il poverino qualche volta lo trova. Ma tu osserva
quanta passi diversità tra il ladro e l'onesto. Il ladro che ignudo e
intirizzito dal freddo rubò nel mezzo della città in un dì di gennajo,
cascato in mano ai giandarmi, veraci angioli custodi della società, per
evitare scandali si trova prima di tutto ad essere messo in carrozza
dandogli il posto di dietro, e quello è già un diletto, che in vita sua
il meschino non aveva provato mai: condotto al penitenziario cominciano
a ficcarlo nel bagno caldo, ed anco questo gli giunge insolito piacere;
poi lo puliscono, e questo pure gli avveniva fare da sè di rado, per
opera altrui giammai; gli tagliano i capelli: quando era onesto non
aveva tanto da farsi tosare, ed ecco perchè la più parte dei poveri
galantuomini vanno zazzeroni; lo rivestono; ed ecco la veste che non gli
aveva voluto dare la carità o potuto il lavoro, gliela dà il delitto; ha
stanza, ha letto, ed oh! miracolo nuovo, lenzuoli anco e coperte.
All'ora debita pane, minestra e legumi; due volte la settimana carne, ed
anche vino, certo da mettere il ribrezzo della febbre quartana per una
mezza ora addosso; è tuttavolta vino. Che è questo mai? Pargli
travedere, fregasi gli occhi e torna a guardare. Sì signore; egli non è
punto ingannato, cotesti sono veri e vivi pane, legumi carne e vino.
Allora si appiglia al cuore del misero un pensiero molesto: che avessi
proprio sbagliato a dare retta fin lì ai ricordi di mia madre, ai
rimproveri di babbo, agli avvertimenti dello zio prete? Il cammino del
galantuomo sia per lo appunto quello che mena diritto a fiaccarti il
collo? Sente la contrizione rovesciarglisi addosso, e buttandosi di
sfascio ginocchioni a terra recita il _confiteor_; e al _mea culpa_ si
picchia più volte nel petto da spaccare un muro maestro per avere
resistito tanto alla vocazione, che lo tirava al ladro. Dopo il primo
giorno, le faccende procedono di bene in meglio; da un lato pigliano a
educarlo nella lettura, nella scrittura, nell'abbaco, e se più ne vuole,
e più gliene versano; in qualche buona arte lo istruiscono ancora,
dandogli agio a perfezionarsi col non curare il guasto che mena della
roba da principio, però che chi non fa, non falla; e dove onesto e
libero gli avrebbero rotto il regolo sciupato sul capo, e menatogli un
calcio da mandarlo a ruzzolare in mezzo alla strada, adesso ch'è ladro
gli mettono in mano un altro scorcio di tavola, e lo correggono con
carità. Anche i suoi bravi maestri di morale non mancano. Veramente
stanno lì quasi a dimostrare il significato del proverbio: chiudere la
stalla quando sono fuggiti i bovi: ma non fa caso, tanto gli recitano la
predica: nè basta; letterati di fama, _insignis pietatis viri_, come
sarebbe a dire preti e frati, _eccetera_, che, incontratolo onesto per
la via, o lo arieno fuggito come il bue che cozza; o dettogli Dio te ne
mandi; ovvero guardatolo a stracciasacco fatto un rabbuffo con le
parole: — vattelo a guadagnare, sciagurataccio perdigiorno — adesso
degnansi trattenersi con esso lui in geniali colloquii sostenendo
strenuamente l'assalto della moltiforme famiglia degl'insetti annidiati
dentro le celle dei ritenuti, quanto i nostri bersaglieri la mitraglia
di un ridotto; e non si fermano qui che, uscito dal carcere, il nefario
è messo sotto la protezione di un valentuomo, il quale lo accomoda con
qualche operajo di sua conoscenza, perchè nel mestiere si perfezioni, e
col vigilarlo, ammonirlo, soccorrerlo s'ingegna a farlo diventare
persona agiata. — Dunque sta bene che si ripeschi l'annegato, ma sta
meglio che s'impedisca annegare; giova avere carità dei perduti, non
però prima che siasi speso ogni studio perchè altri non si abbia a
perdere. Insomma bada che un mezzo onesto od uno ipocrita di onestà non
ti abbia a costare più di una dozzina di buoni ed innocenti figliuoli.
Per ultimo dirò cosa che parrà crudele, ma io la sento, e la voglio
manifestare: vale egli il pregio che tu ti affatichi intorno a colui,
che notte tempo, per cupidità, si accostava al letto del padre, e a lui
dormente tagliava la gola? Di quanti domatori di belve ho visto, nessuno
tolse a mansuefare il serpente a sonagli. Ora può senza ingiustizia
paragonarsi il parricida col serpente a sonagli? —
Adesso io temo udirla, mio riverito signore, esclamare: ohimè! io aveva
chiesto un parere, che rincalzasse la mia dottrina avversa alla pena di
morte, e tutti questi discorsi, sembra che mettano capo a persuaderla.
La non si sgomenti; e per non tenerla più oltre su la corda, vengo ad
esporre la ragione per la quale io giudico che si deva abolire. Questa
ragione io la trovo nello esempio; vale a dire per l'appunto colà dove
altri deriva ragione, per conseguenza contraria alla mia; e perchè io
possa chiarire il mio concetto intero chiedo venia di premettere certe
mie brevi avvertenze.
Così in politica, come da per tutto, occorre una maniera di cervelli, i
quali per procacciarsi credito di sapienti (e quasi sempre riescono)
pigliano in prestito certe idee astratte e parole, le quali avendo fin
qui adombrato pratiche rinvenute utilissime, e ne rivestono o errori, o
viltà, o astii, o tradimenti: il volgo deluso trae dietro all'antico
suono, e scambiata la nuvola per Giunone, si accorge tardi e invano di
essersi messo in casa un armento di Centauri. Lasciamo da parte la
politica: nella materia che abbiamo tra mano, il moderato dire, e pargli
dire gran che: la questione della pena di morte governa la opportunità,
sicchè con profitto può abolirsi là dove per educazione diventarono
mansueti i costumi, ma è forza mantenerla colà dov'essi durano feroci.
Conseguenze di siffatto ragionamento sono, che i costumi devano
precedere l'azione della legge, e la pena di morte si abbia a
considerare come un mezzo per educare e incivilire i popoli. O questi
sono errori, o nessuno. Il consorzio umano presenta due epoche
principali; la prima quando l'uomo aspro tuttavia della nativa barbarie
domanda al legislatore modo e norma di più urbano vivere; la seconda
quando di rovina in rovina sceso all'ultimo grado della corruzione e
dello avvilimento, tocco come Saule caduto dalla voce di Dio, sente che
ha da rilevarsi, ma fatto cieco non conosce la via, e chiede che altri
gliela mostri. Nella epoca prima tu hai dinanzi il sasso che hai da
riquadrare; non ardua impresa: basta scemarlo con discrezione, che ti
secondano le voglie come le facultà degli uomini: questo toccò a
Licurgo, a Romolo, a Numa e ad altri più antichi: all'opposto nell'epoca
seconda tu miri un sozzo pattume dove tutto è logoro, virtù e vizii
diventati una roba sfatta: vinto il ribrezzo di tuffarci dentro le mani,
la società umana ti schizza fuori delle dita; qualche frammento rimasto
intero meglio degli altri, ricoperto dalla infamia universale, non
avvertito, te le feriva; e questo è stato come più miserabile,
infinitamente più difficile ad acconciarsi del primo. Qui se il
legislatore per dettare le sue leggi ha da attendere la miglioria dei
costumi, in fede di Dio aspetterà un pezzo; adesso egli ha mestieri con
le leggi fecondare non solo, bensì creare senso morale, coscienza
pubblica, amore della virtù, costumi buoni, santità di vincoli,
gentilezza di uffici; e tutto in somma. Noi Italiani usciti appena da
lunga e vergognosa servitù veruna parte possediamo della prima epoca,
ed, ahimè! troppo più che non si vorrebbe della seconda.... In questa
epoca pertanto la legge importa sia educatrice per eccellenza, corregga
i costumi rei, non attenda i buoni costumi a correggersi, e norma di
vita ella si presenti agli occhi di tutti come un Cristo sul colle a
predicare alle turbe i precetti dell'onesto vivere.
Ho detto che la società nostra rovina, e mentre corrono dietro alle
farfalle, non badano al terreno che trema, e si spacca sotto ai piedi
degl'improvvidi; e tra mille vi fia argomento la discordia delle
istituzioni umane, la quale cresce di tutti i partiti, che tu avvisi
adoperare per rimediarci.
Date ascolto alle mie osservazioni, che io mi diletto delle cose
pratiche, e quantunque ammiri chi va su pei sentieri delle dottrine, io
non gli so imitare. Io vivo qui in Genova su di un colle a piè del quale
il Municipio ha murato uno edificio, che, quantunque sia buttato là con
la simmetria con la quale vediamo disposte in città tutte le altre
fabbriche, e le balle, e le botti, ed i barili in porto franco, pure non
cessa di essere bello e profittevole molto; forse più questo, che
quello. Lo edifizio di che ragiono serve di pubblico macello, perocchè
meritamente i cittadini procedendo per le vie anguste di Genova
rimanessero percossi dal grido di dolore, e da rantoli di agonia, e
quasi a forza sospinti a guardare vedevano uomini a mezzo rischiarati da
sinistre lucerne avventarsi con le coltella ignude sugli animali, e
scannarli, e scoiarli, e squartarli tutti imbrodolati di sangue. Simile
spettacolo partoriva doppio effetto, e disforme; in parecchi gentili,
una tristezza da non potersi significare con parole; nei più feroci
libidine di sangue. Provvedendo al pubblico costume il Municipio non
solo ordinò il pubblico macello, ma prescrisse altresì che i quarti
delle bestie macellate, per non contristare o insalvatichire i
passeggieri, alle botteghe dentro carrette chiuse si trasportassero,
dove poi ridotti in minuti tagli si vendono; e sta bene. Ma in faccia al
medesimo colle, dove io abito, giace il molo pieno d'innumeri legni,
frequenti di popoli convenuti da ogni lato della terra; qui vidi, e
quante volte occorra rivedrò, piantare una o più forche e sul rompere
del giorno impiccarvi due o tre sciagurati... Il pilota innanzi l'aurora
avrà spinto nel firmamento lo sguardo per salutare Lucifero, prima che
scompaia avrà veduto un uomo spiccare un salto su le spalle di un altro,
e dipinto per lo azzurro sereno dell'orizzonte una baruffa immane fra
una creatura che impunita e pagata viene ad ammazzare, ed un'altra che
si punisce di morte per avere ammazzato. Vero inferno d'iniquità! Così
in un medesimo paese l'occhio non deviando dalla linea retta vede in un
luogo il Municipio sottrarre alla pubblica vista la uccisione delle
bestie da cibarsi, perchè il costume se ne avvantaggi, in un altro il
Governo che espone alla pubblica vista la impiccatura di uno, di due e
fino di tre uomini, perchè i costumi si emendino...
Certo non è nuovo il vezzo di abusare della parola; ma che, come ai dì
nostri, si sia posto studio a crescere la dignità del discorso alla
stregua della indegnità del fatto io dubito assai; comunque vada adesso
le parole non contano o poco, e se non quanto rispondono ad opere
oneste; però soli gli esempi possiedono la virtù di persuadere e di
educare; donde come per via di corollario la conseguenza, che male
possono mansuefarsi i costumi colà dove la legge ordinando i sagrifizi
umani come norma dell'ottimo vivere civile si pretende venerata; e gli
uomini che la morte del proprio simile comandano, ricevono onori e
stipendio.
Fallacia di giudizio e supposta necessità hanno indotto il legislatore,
e chi ci ha interesse, in un accordo tacito a cumulare da un lato con
ogni diligenza gli onori... sopra alcuni capi, dall'altro con industria
maggiore a raccogliere la infamia di tutti, ed avventarla sopra un capo
solo, e questo consacrare vittima espiatoria alla pubblica esecrazione.
Simile bindoleria tanto non potè pervertire la coscienza degli uomini,
che d'ora in ora non le si sollevasse contra, e come accade sovente,
eccessiva: così Aristotile nella _Politica_ annovera il carnefice fra i
magistrati, anzi pure fra i meglio spettabili a cagione della necessità;
e gli altri di mano in mano crescono la posta sino al Rousseau, il quale
trova conveniente nel suo _Emilio_ che il principe gl'impalmi la propria
figliuola: con mente più retta e con giustizia il popolo, invece di
levare il carnefice alla dignità del magistrato, ha tratto giù il
magistrato che condanna a morte il suo simile fino alla indegnità del
carnefice.
Di vero come, e perchè dovria abborrirsi il boia, e il giudice no? — Il
boia, dicono, è salariato: sta bene; forse non tirano paga i giudici? —
Questi non mettono le mani addosso, l'altro sì: e questo che monta? Gli
uni mettono il pane su la pala, l'altro lo inforna. Forse il carnefice
si attenterebbe torcere pure un capello al paziente se non glielo
comandassero? No di certo; dunque la penna prima della corda lo ammazza.
Pigliarsela col sasso, e non con chi lo ha scagliato cosa è bestiale. Il
carnefice uccide con animo pacato, si obbietta ancora, e il giudice
ordina forse la morte con animo iracondo? Anzi il carnefice sia tristo o
pessimo rileva poco essendo il suo atto meramente materiale, ma nel
giudice ogni lieve alterazione, comechè transitoria, torna funestissima.
Il giudice adopera intelletto, volere e potere; il carnefice è
infelicissimo arnese. — Ma in che nocque il paziente al boia? — E in che
nocque al giudice? Ancora, in che i nemici a cui indisse guerra il
Principe ingiuriarono i soldati, che levano a cielo come eroi, quando
per 20 centesimi al dì e un gotto di acqua arzente movono a menarne
macello? Oh! ingiuria grande loro fanno minacciando la Patria; e sia
così; ma i facinorosi non guastano la Patria? E avverti, i nemici di
tratto in tratto, ma questi senza tregua, sempre. Nè il carnefice
impiccandoti tre, quattro, sei e più, se il Giudice comanda, immagina
condurre tal gesto di cui gliene sarà tenuto ricordo nell'epitaffio, nè,
io penso, presumerà chiederne collare, o croce, nè anco quella di San
Giuseppe in Toscana, tanto, poverina! decaduta ai giorni nostri; mentre
i Magistrati e i Soldati mietono a piene mani onori, allori, ricchezze,
e taluno così dei primi come dei secondi (ma più dei secondi) i sorrisi
«Della tenera altrui moglie a te cara!
Conchiudo pertanto che volendo tôrre via dagli animi la ferocia, onde
altri desume la necessità di conservare la pena di morte, bisogna per lo
appunto come esempio supremo di educazione abolirla, e con essa removere
dalla mente del popolo lo spettacolo d'iniquità e di contraddizione, pel
quale chi ordina la morte dell'uomo si pretende onorato, chi mette a
compimento il comando si dà in balìa alla pubblica esecrazione.
Rimarrebbe, e questo massimamente importa, a discorrere qual sistema di
pena possa surrogarsi affinchè un reo non aggravi più di dieci
innocenti, e come il suo lavoro possa tornare proficuo alla società ed
alla famiglia offese; quali opere dovrieno affidargli, dove, in che
termini; con altre assai più ricerche che ometto. Questo dipende da
studiare le isole, le maremme, le miniere, e simili argomenti; ed io non
ho modo, nè tempo di farlo. —
Con ben'altra scienza ella persuaderà altrui l'abolizione della pena di
morte; e lo ha già mostro col suo trattatello stampato a Venezia l'anno
scorso; ma per diverse vie si giunge a Corinto, dicevano gli antichi. Mi
piacerebbe le tornasse grato lo scritto, ma questo o non importa, o
poco; quello che preme si è che duri ad esserle gradito lo scrittore,
che la saluta, e le si raccomanda.
_Affezionatissimo_
F. D. GUERRAZZI.
Genova, 5 marzo 1861 — Villa Giuseppina.


RITRATTO MORALE DI LEOPOLDO II

Leopoldo II ha sempre aborrito qualunque limite alla sua potestà
assoluta, o sia che tale gli persuadesse la propria natura, o la indole
ricevuta; e quantunque mostrasse diversamente nel 1848, esse furono
lustre per parere, onde molte volte la memoria mi ha riportato il caso
che adesso dirò. Nel 1831, quando la Italia commossa dalla rivoluzione
di Francia e dalla belgica desiderò sollievo al dispotismo, non
mancarono personaggi dabbene, i quali, amici al principe e non avversi
al popolo, colto il destro, si attentarono suggerire a Leopoldo II
temperasse gli ordini dello Stato; egli accolse questa entratura con
torbida faccia, e, comecchè pacatissimo, tanto non seppe frenarsi, che
rizzatosi in piedi, e scorrendo con passi agitati la stanza non
prorompesse in queste parole: — I Toscani vogliono la costituzione; non
la darò, io voglio prima che mi mettiate a pezzi. — Questo riportava a
quei tempi un marchese Pucci in casa del generale Colletta: presenti
erano a cotesto discorso il marchese Capponi ed io scrittore; se altri
con essi non rammento ora.
Nel 1848, tardi, a rilento, e sopraffatto dal turbine, concesse lo
Statuto, e dichiarò la guerra all'Austria: secondato dai ministri,
fingeva andarci di buone gambe; in sostanza l'attraversava; di ciò
potrei allegare molteplici fatti e dicerie; me ne basti uno: certo mio
fidatissimo amico, sollecito meritamente per due suoi figli accorsi
volontarii al campo, si condusse alla capitale per conferire col
ministro, a quei tempi in delizia del principe, intorno alle faccende
della guerra. Ora il ministro reputando l'amico mio persona da potercisi
sfogare, come quegli che apparteneva a non so quale amministrazione
regia, così gli disse: — La stia tranquilla, signore Lionardo, che per
me i suoi figliuoli moriranno di scarlattina, se ne hanno voglia; di
palle tedesche no davvero[14].
[14] Ormai questa è storia; il signore Lionardo è Lionardo
Romanelli, il ministro, Cosimo Ridolfi, archimandrita dei
moderati toscani. Questi fatti meglio di molti volumi
chiariscono di che razza gente sieno codesti moderati; e
dall'uno all'altro non iscatta un pelo.
Parecchi libri di storie moderne hanno stampato certa lettera, che si
affermò scritta dal maresciallo Radetzky, con la quale s'invitava il
granduca a fuggire di Toscana; anco il Montanelli nelle sue _Memorie_ la
riporta; io non omisi pratica per arrivare a conoscere se la fosse vera,
e non ci sono riuscito, o piuttosto sono riuscito a confermarmi nel
dubbio che mai sia stata; però ne scopersi un'altra a mille doppi più
rea; se mi appongo, altri giudichi. Vi rammentate della festa del
settembre 1847? Certo nessuno può averla messa in oblìo. Da tutta
Toscana movevano i popoli ebbri di gioia, a cui pareva che il principe,
per avere alquanto rimosso il freno, avesse donato il sole. Da per tutto
era un drappellare bandiere, un abbracciarsi, un baciarsi, un piangere
di allegrezza; e tra canti e suoni tutta cotesta gente pigliava la via
del palazzo Pitti, dove affermavasi giacere infermo l'ottimo principe; e
lui benediceva, e il cielo con fervide preci supplicava che quel caro
capo salvasse. Come fu giunta sotto i balconi del palazzo, ecco si ode
che il granduca, malgrado la infermità, vuole godersi lo spettacolo
tanto diletto al suo cuore paterno dei figli esultanti: ora viene, ora
non viene; ma non pigli disagio; chi può trattenere quello spirito
avvampato nell'amore dei suoi sudditi? Di repente si aprono le finestre
del terrazzo, ed ecco apparisce il granduca vestito da generale di
guardia nazionale, circondato dalla moglie e dai figli (questi non so se
con la stessa assisa) e rispondere ai saluti, e agitare anch'esso la
bandiera italiana. I babbi recavansi i figliuoli a cavalcioni sul collo,
perchè mirassero quel paterno volto, e ai figliuoli loro più tardi lo
descrivessero; le mamme sollevavano fra le braccia i pargoli perchè con
le manine infantili plaudissero: per poco non ci fu piena in Arno per la
copia del pianto. Or bene, cotesto principe cortese, il giorno dopo,
mentre il popolo lo reputava tuttavia convulso dalla commozione, egli,
proprio lui, scriveva in Germania, non già all'imperatore, bensì alla
sua figliuola maritata in Baviera. Mandare a lei per buoni rispetti la
lettera, affinchè facesse ufficio presso l'imperatore, assicurandolo del
suo inalterabile attaccamento alla sua persona e agl'interessi della
casa: avere saputo come gli si apparecchiasse una manifestazione
rivoluzionaria al teatro della Pergola, per evitare la quale si era dato
per infermo; ciò non avergli giovato, perocchè il popolo si fosse volto
al palazzo: allora avere reputato spediente mostrarsi, e fingere tenere
per gradita cotesta baldoria: passerebbe presto, e ogni cosa sarebbe
tornata allo aspetto primiero.
Anche ci era noto per relazioni particolari, che il granduca manteneva
continuo carteggio con Vienna spedendo costà le lettere a un tale
Bottaro, o Bottero, che assunse poi qualità pubblica di agente
granducale. Queste lettere potevano sorprendersi e di lieve; non fu
fatto, un po' per rispettare la lealtà della posta, e un po' per non
iscatenare un temporale, che non si sarebbe saputo a qual modo
attutire[15].
[15] Lo staffiere di Corte incaricato di scortare queste lettere
alla posta era livornese; parendo a lui che qui si tradisse la
Patria, venne a consegnarmele. E' fu cotesto un duro contrasto;
anche adesso non so se bene o male operassi, ma ordinai allo
staffiere le buttasse nella buca; devo aggiungere che avendo
profferto danaro a questo uomo, tentennò il capo e andò via
senza rispondere. Un moderato avrebbe preteso per lo meno la
carica di Consigliere di Stato.
Ho accennato altrove come fino dall'agosto del 1848 dal granduca si
richiedesse l'Inghilterra di alcune navi che gli facilitassero la fuga,
e le ottenne e se ne valse più tardi.
Rammenteranno, forse, i Toscani certo processo a carico del governo
provvisorio toscano del 1849; pochi, dubito, di cotesto processo
compresero i fini a quei tempi; giova adesso chiarirli: prestando il
granduca facile credenza a cui _esercitando onoratamente l'ufficio_[16]
glielo consigliava, pensò che dove si provasse davvero che se non tutti,
parte almeno dei Toscani avevano congiurato contro la sua autorità,
forse contro la sua vita, si sarebbe potuto far perdonare le abolite
libertà e la occupazione austriaca; però dopo un tentennare di più anni
comandava condannassero. Facile il comando, più facile ancora l'essere
servito subito: più difficile assai avere ragione. — Così fu provato che
il ministero del 26 ottobre non gli veniva imposto, bensì eletto
liberissimamente da lui, e non prima di essersi consultato col marchese
Capponi e col ministro inglese. Se da altri la Costituente accettò, ad
altri ancora ei la fece accettare: non mancarongli avvisi intorno ai
pericoli di quella, e siccome rispose: — averli previsti, e se la sua
deposizione dovesse tornare di benefizio al popolo, anche a questo lo
troverebbero disposto — così l'uomo a cui egli si spiegava a quel modo
non patendo che cuore di principe vincesse in generosità cuore di
popolo, non senza tremito replicò: — sè essere parato a tutto,
persistere nella opinione che egli non avesse meditato troppo codesto
disegno: ad ogni modo avvertirlo che dove, o per mutate voglie o per
impacci non preveduti, lo avesse preso in uggia, glielo manifestasse che
egli avrebbe provvisto perchè senza scapito della sua riputazione si
potesse mutare. —
[16] Tale il Governo provvisorio del 27 aprile 1859 dichiarava —
pensionando — un Bicchierai uomo di cui piglia fastidio fino a
dirne male.
La Costituente di vero increbbe più tardi al granduca, in guisa che negò
sempre firmare il decreto da presentarsi alle Camere, e il giorno stesso
che ne ricorreva la discussione non era sottoscritto. Partivasi il
presidente del Consiglio dalla udienza regia senza conclusione, e
disposto a resignare l'ufficio, quando il principe ridottosi a consiglio
col ministro dello interno, questi in sostanza gli disse: — Prossima a
rompersi la nuova guerra coll'Austria: ora di queste due cose
succederebbe l'una, dacchè nella guerra di rado s'impatta, che l'Austria
o vincerebbe, o perderebbe; nel primo caso, di Costituente _ne verbum
quidem_, e bazza se potessimo conservare lo Statuto; o perderebbe, e
allora pensasse quale sarebbe la condizione sua senza l'appoggio
materiale e morale dell'Austria: gli rinfaccerebbero ad ogni movere di
foglia la sua qualità di tedesco, gli torrebbero il credito, gli
converrebbe rannicchiarsi, farsi piccino, e nè anche gli basterebbe:
allora avrebbe l'Italia il suo servo dei servi di Dio davvero, e questo
servo sarebbe lui. In tanto estremo non poterlo salvare che la
Costituente, con essa si difenderebbe, con essa si commetterebbe in
balia del popolo italiano che, memore della sapienza dell'avo, della
mitezza paterna e grato alla benignità sua, lo tutelerebbe dalle
cupidità altrui, e farebbe comportabile la sua condizione, ampliandogli
lo Stato, da metterlo in equilibrio co' vicini ingranditi. — Rispose il
principe: dello altrui non essere stato mai vago; ma gli fu fatto
notare, come questo non fosse puntuale, dacchè avesse preso Massa,
Carrara, la Garfagnana, con altri paesi, al che il granduca oppose:
avere ricevuto cotesto bene in deposito per renderlo ai suoi legittimi
padroni: e questo pure gli fu chiarito inesatto, imperciocchè col
decreto del 12 maggio 1848 avesse aggregate coteste provincie
assolutamente alla Toscana. Il principe dopo riflettuto alquanto, disse:
— Qui dentro c'è del vero, ma il ministro inglese si oppone. — Forse,
soggiunse, il ministro sir Hamilton non considera la faccenda sotto
questo aspetto; dove lo conceda, andrò a conferirne con esso. — Non
occorre andare, riprese il principe, egli è qui, di là nel salotto
giallo. — Tanto meglio, permetta che io vada. — Anzi glielo raccomando.
— Il signor Carlo Hamilton rimase, o parve al ministro rimanesse
sorpreso, quando vide comparire lui invece del principe; sorrise
alquanto; poi, udite le ragioni, gli parvero buone, e tali da
determinarlo a consigliare la presentazione del decreto. Riferita la
cosa al granduca, fidandosi poco, volle accertarsi da sè, e lo fece;
quindi, piuttosto acceso che bene disposto, si dette a rovistare in un
monte di carte il poco anzi odiato decreto, e quello presto presto
segnando rimise in mano al ministro dicendogli: vada dunque, e procuri
che il Parlamento lo voti.
Ma l'esitanza cacciata dalla porta tornava dalla finestra, e di questo
accortosi il ministro dell'interno, avuto serio ragionamento col
presidente del Consiglio e col ministro inglese, persuase il primo a
rinunziare l'officio, e quegli sempre amante della patria, non di sè,
ponendo il proprio bene nel bene comune volentieri acconsentiva; sir
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