Amelia Calani ed altri scritti - 11

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il partito migliore, molto più che a levarlo dal mondo non ci si trova
verso; nè egli dimostra indole tanto incocciata nel male, che con un po'
di tempo e di pazienza e' non si possa ridurre in termini comportabili,
anzi lodevoli.
Che vuolsi a ciò? Io l'ho già detto altrove; un po' d'imitazione di
Cristo, ma di quella buona, veh! Pongansi giù le burbanze e gli spregi:
fra i proverbii haccene uno, che si vorrebbe scrivere in oro, ed è
questo: _amor fa amore_ Ognuno si metta con animo grato a lavorare
intorno a questi Albi: io lo so bene, a dissodare di siffatta maniera
campi costa sudori di acqua e di sangue, ma non ti hai a confondere, il
cento per uno tu non lo puoi raccattare che dalla sementa della virtù.
Invano tu ti affaticherai a trovare industria, la quale tanto valga a
innamorarci di una creatura, o vuoi scienza od arte, quanto le
accoglienze benevole, il soave conforto, e il conto che mostrano fare di
noi gli uomini illustri e i maestri dell'arte. Di questo, come gentile
spirito, si accorse il Ghirlandaio, il quale costumò raccomandare ai
suoi scolari tenessero bene edificati coloro, che si mostrassero alla
pittura inchinevoli, epperò non rimandassero indietro dalla bottega
persona, fosse anche fantesca da paniere, ma si tutti con lieto volto
accogliendo, le opere commesse accettassero senza troppo attendere se
alla mercede corrispondesse la fatica. Laonde inestimabili crebbero in
cotesti tempi presso l'universale l'amore delle arti, e nei maestri la
conoscenza e la dignità di quelle. Bellissimo esempio di tale umanità
somministrava ai tempi dei padri nostri Messer Marcello, uomo,
secondochè attesta Giovambattista Gelli nei Capricci del Bottaio, non
solamente buono ma la stessa bontà, il quale ad ogni fanciullino, che lo
avesse domandato di qualchecosa arebbe risposto tutto quanto egli
medesimo sapeva; desiderosissimo com'era di comunicare le virtù sue. E
nè manco io vo' tacere, che sarebbe proprio peccato, della urbanità
egregia di Messer Francesco Vettori, che leggendo filosofia, e veggendo
talvolta venire a udirlo il capitano Pepe, il quale non intendeva la
lingua latina, subito cominciava a leggere in volgare, perchè potesse
intendere egli. Della quale urbanità, ond'io non paia perpetuo morditore
dei tempi miei, giusta il costume di cui invecchia, io vo' pur dire, che
in mezzo a molti malanni n'è rimasta la traccia in Firenze: appunto
come, bevuto il vino, ne resta nella boccia l'odore.
Animo dunque, Pittori famosi, non isdegnate richiesti di ritrarre sopra
i domestici Albi le immagini dei vecchi di casa, non mica perchè a me
estraneo calga troppo contemplare la effigie delle madri, e molto meno
quella delle ave defunte, ma sì perchè mi preme moltissimo penetrare se
la persona, con la quale intendo stabilire amichevole commercio o
vincolo altro più prossimo, sia ricordevole dei suoi morti e con pietoso
affetto proseguendoli si dimostri divota alla religione della famiglia,
dopo i parenti per sangue ponga il Pittore i ritratti degli illustri
italiani, parenti in ispirito a tutte le anime bennate: certo io temo
che pochi avranno ad effigiarne dei felici, e per converso abbonderanno
coloro a cui mancò la fortuna non la virtù, onde sperando, e pure
aspettando, meglio da questi trarremo presagi per le prove, che hanno
ultimamente a riuscire avventurose; conciosiachè quello che Popolo vuole
Dio vuole, a patto però che forte ei voglia.
E voi, Letterati, vergando le carte dell'Albo badate a non inquinarle
con la loda della bellezza della donna, che a voi le presenta, però che
spesso ella questa bellezza non abbia, e ad ogni modo suoni
corrompitrice piaggerìa per colui che la fa, e fatua inverecondia in lei
che la ostenta: può lodarsi la bellezza, meritamente essendo ella fiore
caduto dai giardini celesti ad avvizzire sopra la terra, ma guardisi
alle occasioni e ai termini: tuttavolta il meglio fie sempre lodare
taluna delle virtù, e sia qual vuolsi fra loro; imperciocchè nella
maniera medesima che le Ore dinanzi al Tempo menano il ballo tondo,
tutte le virtù, come tutte le libertà, mani intrecciate a mani, girano
intorno al soglio dello Eterno, che di sè balenando le innamora. O menti
divine, o sacri ingegni, o tutti voi altissimi letterati e poeti, verbo
di Dio fatto carne, attendete che come dai rami dell'olibano stillano
lagrime d'incenso, delizia dei numi, così caschino dalle vostri mani
sopra coteste carte ammonimenti per le diverse fortune, conforti alle
moltiplici languidezze, lode ai felici, compianto ai miseri, onore a
tutti: e, ciò che sta in cima ad ogni altra cosa, sensi immortali di
amore, anzi pure di furore di Patria; — imperciocchè gli antichi nostri
sapienti definissero il patrio entusiasmo una spezie di furore ispirato
da Dio.
Io mi vado raffigurando un figliuolaccio del tempo nostro incamminarsi
con pensieri obliqui alla dimora dell'amabile posseditrice di uno di
questi Albi; suonare, aprirglisi, accogliersi e dirglisi tanto volere
essere cortese di attendere alcun poco la signora in salotto: egli dopo
avere scomposto e ricomposto le chiome, la barba e le vesti, come il
capitano che ordina e arringa i suoi soldati prima d'ingaggiare
l'assalto, facendosi lo indugio lungo e la pazienza corta, per fuggire
la noia, visto il libro elegante, recaselo in mano, lo sfoglia e lo
legge. Veramente a leggere non era venuto egli, ma tal bue, che crede
andare a pascere, ara. La prima pagina, a quanto sembra, non gli va a
fagiuolo, e la seconda nemmeno: schizza alla quarta, peggio: a mezzo, a
due terzi, in fondo, sperpetua sempre: allora fattosi serio incomincia a
pensare che e' potrebbe molto bene avere preso un granchio, non parergli
cotesto terreno da piantare vigna, e, fatti i conti, tornargli meglio
innanzi che trovarsi ridotto a riporre le trombe nel sacco, non le
mettere fuori nè manco. In questa ecco uscire dalla camera la donna
leggiadra, e sorpreso il giovane col libro in mano, commendarlo della
occupazione e seco lui congratularsi, che di cotesti severi ammonimenti
prendesse diletto, e poi pregarlo a crescere il tesoro della buona
morale con qualche cosa di suo, e qui gli porge sorridente la penna
invitandolo a scrivere. Oramai e' ci era, e sapendo che in compagnia dei
lupi bisogna stridere, si mise come Saule, quando entrò in Rama, a
profetare co' profeti. Tu l'avessi visto! con la penna in mano a
scrivere sentenze di buona morale sopra a quel maledetto libro, pareva
proprio il Diavolo condannato a recitare il _confiteor_. Ipocrisia!
osserverà taluno; nè io vorrò negarlo, ma qualche volta la ipocrisia è
omaggio del vizio alla virtù; anzi una volta ho sentito raccontare ai
miei vecchi che la Ipocrisia si acconciò con la Virtù per battistrada,
la quale le disse: «va, precorrimi se ti piace, purchè sia alla lontana,
e la Vergogna ti seguiti.»
Io vorrei che l'Albo diventasse un Penate della famiglia; vorrei.... ma
per fuggire la taccia dicendo parole non cose, di avere preso a nolo
tutt'oggi la Rettorica, stringendo i miei voti in uno vorrei che l'Albo
stesse depositato dentro le domestiche pareti come il Breviario della
Virtù.
Da tale intenzione mosso, io non ho mai ricusato, comecchè talora mi
sembrasse anzi che no fastidiosetto, scrivere quello che mi si
affacciava alla mente negli Albi, i quali mi venivano di dì in dì
presentati, e di leggieri confesso che altri mi avrà vinto nelle forme
elette del dire, nella gravità delle sentenze; in amore di Patria
veruno. Duolmi adesso averne disperso i ricordi, che assai costumo, come
la Sibilla, sperperare i fogli, dato il responso: pochi me ne rimangono,
e non so come superstiti a tanti naufragii. Se il mondo li conoscesse
vedrebbe quanto nel cervello mi stava fitta e stia quella solenne
verità: «_che se la piena del torrente stianta in un attimo, e manda
sottosopra ogni cosa, anco la stilla perenne ha virtù di sfondare il
granito_.»
Bastia, 15 settembre 1856.


LETTERA A PIETRO ELLERO
(Estratta dal primo fascicolo del Giornale per l'abolizione della pena
di morte.)

_Mio riverito signore ed amico,_
La pena di morte è una questione intorno alla quale si sono piuttosto
affaticate, che esercitate le menti degli uomini; e con quanto frutto
non so; certo se ne dovessimo giudicare dal resultato, dovremmo dire
poco; imperciocchè i Governi che in ogni altra cosa peccano del gretto,
in questa poi procedono liberali, anzi spreconi; massime il Piemontese,
che per la morte a piene mani nel suo codice largita si acquistò
meritamente fama di munificentissimo.
Voi avete richiesto il mio parere su questa materia, e poichè non bastò
a dispensarmene la scusa che l'autorità mia, in ogni altro argomento
scarsissima, in questo poi non aveva importanza veruna, io antepongo
espormi piuttosto ad essere reputato da altri di poco discorso, che da
voi di poca cortesia. Esporrò parco e liberissimo quello che io ne
sento; e voi nella discretezza vostra ne farete il caso che merita.
La quistione della pena di morte, per mio avviso, non si approfitta
niente, anzi scapita mescendosi co' dommi della religione, e
avviluppandosi con le astrattezze della filosofia. Di fatti supponendo
che il nostro consorzio sia stato primitivamente composto per via di
contratto, s'inferisce da ciò che veruno abbia potuto cedere diritti che
non aveva: ora l'uomo manca per l'appunto del diritto di essere violento
contro la sua vita. Pitagora prima, poi Platone, in seguito i padri
della Chiesa, Ambrogio di certo, ed Agostino, parmi, uno dopo l'altro
vanno ripetendo l'uomo essere quasi sentinella messa di guardia, a cui
non lice disertare dal suo posto senza il comando del superiore. E qui
noto innanzi tratto che le sentenze dei primi per noi cristiani hanno
pregio come apotegmi morali: unicamente i santi Ambrogio ed Agostino
valgono come autorità religiosa. Torno poi a considerare (però che io
l'abbia avvertito altrove) come i ragionatori, quando messo da parte il
modo dimostrativo danno mano alle similitudini, mi cadono in sospetto;
ciò per ordinario significa che di ragioni si trovano proprio al secco.
Valga il vero, o che ha che fare la sentinella con l'uomo? Alla prima
furono trasmessi ordini chiari e precisi, e assieme con gli ordini le
facoltà per eseguirli. Ma quali furono gli ordini dati all'uomo
nell'uscire alla vita? Chi gli udì, chi gli lesse? Certo nessuno: ma, si
dice, che bisogna argomentarli: e sia così; ma allora sapete voi che
mormora il cuore se ci apponete l'orecchio pacato? Provvedi alla tua
felicità; il fine della vita è il piacere; non già il turpe o volgare
piacere, chè cotesto proviamo gravezza ed affanno, bensì l'uso delle
facoltà nostre per procurarci la maggiore copia di diletti onesti quanto
al fisico, e di diletti divini quanto allo spirito. Lasciate pur dire
gli spigolistri essere questa dottrina epicurea, chè Epicuro non nocque
mai, bensì Aristippo; e se questa dottrina ai nostri dì vediamo
professata da chiarissimi e piissimi uomini, quali sono gli onorevoli
amici miei barone Vito D'Ondes e cavaliere Emerico Amari, giudico non mi
rechi disdoro a chiarirmene parziale ancora io. Quando pertanto le
angoscie superino le gioie, massime poi allorchè le angoscie sole si
accampino contro la tua esistenza _in acie ordinata_, come scrive il re
David, e in modo irremediabilmente perenne, le ragioni del vivere ti
verranno meno, o vogli pei fini della natura o vogli eziandio pel fine
figurato dai filosofi e dai santi padri: imperciocchè lo sprofondato nei
mali così del corpo come dell'anima, a che cosa abbia a fare la
sentinella davvero non si comprende.
Occorre un'altra ragione, la quale è questa, che io chiamerò di
ritorcimento. La legge vecchia come la nuova, base della nostra
credenza, nell'Esodo, nel Levitico, e nei Numeri, e nel Vangelo stesso
la morte o prescrive, o attesta come pena all'omicidio: ciò messo in
sodo come possiamo supporre che la mente divina ordinasse all'uomo
quello che per istituto di natura gli è vietato di fare?
Inoltre hassi ad avvertire che, favellando della umanità, non si hanno a
confinare le ricerche dentro una parte più o meno numerosa della
medesima, bensì a tutta. Quindi importa desiderare, e giova sperare che
il cristianesimo un dì raccolga nel suo grembo le divise famiglie degli
uomini, ma per adesso egli è mestieri dire che nè tutti nè la più parte
degli uomini si confessano cristiani, invece neppure la frazione
maggiore segue la dottrina di Cristo, bensì di Budda. Nell'Asia, che
senza fallo fu cuna della razza umana, i sacrifizi di sè durano ancora,
non mica abborriti; all'opposto dalla religione persuasi, e dai costumi
promossi. Non è antico esempio quello del Bengala, dove avendo il
Bentink, che vi governava presidente per la Compagnia delle Indie,
voluto sopprimere le _Souttie_, a scanso di sommosse, ebbe a dire alle
donne indiane: — poichè così vi piace, arrostitevi quanto volete, chè
non dobbiamo guastare per questo la nostra amicizia.
Innanzi al cristianesimo (postochè questo vietasse la pena di morte come
sequela del principio, che all'uomo non è dato disporre della propria
vita) furono religioni di cui talune scomparvero, altre durano tuttavia.
I Greci non pensavano fare cosa contraria alla religione uccidendosi: ho
letto che i violenti contro a sè non potessero passare lo Stige; ma
questo non sembra vero, però che Ulisse incontrava nell'Averno tanto
Achille che rimase ucciso, quanto Ajace che si ammazzò; ed Ercole dal
rogo sorse fra i Semidei: ad ogni modo coll'attaccare due fantocci ad
una corda e dondolarli per un pezzo all'aria si rimediava a tutto.
Rispetto ai Romani, non riputavano commettere peccato, uccidendosi; e
taciuto ogni altro esempio, basti a persuadere quel mite e gentile
Pomponio Attico, di cui la morte volontaria e i ragionamenti agli amici,
che ne lo voleano rimovere, riferisce Cornelio Nipote con elegantissima
narrazione. A Marsiglia si conservava nel pubblico tesoro certa
composizione venefica, deliziosa al gusto, la quale largivasi a
qualunque giustificasse dinanzi al Senato dei Seicento le cause che lo
consigliavano a morire, e queste si cavavano così dalla prospera come
dalla iniqua fortuna; ciò narra Valerio Massimo, ed afferma altresì,
come cosa di cui fu testimone insieme con Sesto Pompeo, avere veduto
nell'isola di Ceo praticato un siffatto costume; dove certa matrona,
respinti i prieghi dei congiunti e dello stesso Pompeo, libò il veleno
propiziando a Mercurio, che con lene viaggio la conducesse agl'Inferi.
Io non ho letto i libri sacri degl'_Indus_, bensì trovo in parecchi
luoghi affermato che s'incontrano non che vietati descritti vari modi
violenti per lasciare la vita o col morir di fame, o col bruciarsi mercè
il letame di vacca, o col seppellirsi nelle nevi del Tibet, o col farsi
divorare dai caimani, o col fiaccarsi il collo sulle rive del Gange. Da
Plutarco si ha di Calano, che molestato di dolori di ventre si bruciò
secondo il patrio costume; e attesta che lo stesso pure fece un altro
indiano in Atene dov'era insieme con Cesare. Apertamente poi ricaviamo
che tale avesse ad essere la dottrina dei Bramani, quando narra che
Alessandro avendo interrogato uno dei Ginnosofisti: fino a quando fosse
buono vivere; n'ebbe in risposta: fintantochè non reputi il morire
migliore del vivere. —
Io non so, nè altri, io dubito, sanno, quando e come questo consorzio
umano accadesse, ma di sicuro quando per prova dolorosa gli uomini
conobbero che con le forze riunite si potevano meglio difendere dalle
ingiurie degli elementi, o tuttavia discordi o impazienti della frasca
concordia, delle belve feroci, e da quelle dei loro simili non meno
paurose: in questo periodo di tempo l'uomo sbigottito di sè poca cura
doveva avere; affetto primo il tremore; e sotto il perpetuo spavento il
pensiero impietrito. A paragone di vita così infelice poco più amara la
morte; gl'Iddii quali potevano insegnare i terremoti, i diluvi o i
vulcani; i sacrifizi conformi alle Deità; e poi, dalle proprie carni,
che altro possedevano allora gli uomini da offerire sugli altari? Di qui
i sacrifizi di sangue, e la truce fede, che quanto più caro a cui
l'offeriva, tanto più accetto a cui era offerto, onde il proprio
accettissimo. E questa fede come domina i primordi delle religioni, così
s'insinua nei processi, quando la cresciuta civiltà le ammansisce. Il
sacrifizio di Gesù figlio per placare la vendetta di Dio padre scende
giù diritto da cotesta premessa di sangue: il medesimo mistero della
Messa che adombra un Dio, il quale consentì ad essere sagrificato, anzi
cibato mille volte il dì per isconto dei peccati degli uomini, non
deriva da altro principio. Ben' è il sacrificio incruento, ma attesta il
sangue; la spiga venne sostituita alla carne, ma la spiga è simbolo
della carne. Ora riesce difficile sostenere che l'uomo non possedesse, o
non estimasse possedere diritto sopra la propria vita nei primordi della
società umana; se lo cedesse non so; so bene che al volere non gli avria
fatto impedimento il non potere.
Considera altresì, che se all'uomo manca la potestà di consentire che la
sua vita si disperda per modo subitaneo, molto meno avrà volere e potere
di concedere che gli si tormenti con una sequela di dolori. Adesso io
vorrei sapere che cosa mai sia la pena se non tribolazione? Lascio dei
carceri penitenziali nella rigidità della prima invenzione, trovato del
Demonio infermo del male di fegato: imperciocchè per essi si pigliava
l'anima, e, tempratala a punta di acciaio, si metteva in mano alla
disperazione, affinchè ne trapanasse i visceri dell'uomo: favelliamo
degli altri sistemi, tossico più o meno annacquato, e pigliamo il più
mite, non pertanto tu vedrai in tutti il corpo intristirsi, le infermità
frequenti, l'anima farsi selvatica; spirito guasto in corpo guasto. Pel
cibo non abbastanza nutritivo il prigione scema di peso; per l'aere
chiuso, e le molecole maligne, ch'emanano dalle lane o dalle canapi
filate dentro le celle, si dispone all'etisia, e a questo contribuisce
anco e più il sangue sferzato dalla lascivia: io ho esaminato questi
prigioni, tutti malesci, dipinti in volto con le sfumature di quanti
verdi presentano l'erbe putrefatte pei pantani; gli occhi vitrei; appena
usciti di carcere vacillare all'azione dell'aria com'ebbri presi dal
vino. Quanto alla miglioria dello spirito, questa la vicenda, non altra,
o stupidezza, o ipocrisia spaventevole. Hanno provvisto a nuovi
concieri; e' sono novelle. Il lavoro comune, ma in silenzio, sembra il
supplizio di Tantalo. E parvi poca pena tôrre la parola all'uomo? E
reputate voi che scarso sia il danno che ne deriva? Per emendare l'uomo
parmi strano, che gli si abbia a tôrre o a scemare l'attributo per cui
si differenzia dalle bestie. La parola è la umanità, anzi la parola è
Dio.
Qui mi fermo, e conchiudo che se il consorzio umano ha facoltà di
affliggere, e co' dolori alterare e scemare la vita dell'uomo, la
possiede eziandio per toglierla; ovvero se manca del diritto di
spegnerlo, difetta eziandio dell'altro di tormentarlo.
E non mi muove neppure la considerazione che la pena non si abbia a
proporre per fine la vendetta, perchè anzi io giudico che se l'abbia a
proporre. Che vi abbiano di più maniere vendette si accorda; e che
l'uomo ridotto a vivere in comunanza civile deve cedere il suo diritto a
vendicarsi in mano al magistrato s'intende; come si capisce altresì che
vi hanno vendette ingiuste o per l'affetto che le partorisce, o pel modo
e per lo eccesso co' quali vengono eseguite, e queste tutte condannansi;
ma la vendetta giusta, pacata, correspettiva alla offesa non si può
condannare. In tutte le religioni, segnatamente in quelle che più
governano il vivere nostro, massimo attributo della Divinità è la
vendetta delle opere prave; anzi per la vecchia e per la nuova legge si
ordina espresso che la vendetta si lasci a Dio e ai magistrati; nel
linguaggio o sia filosofico o poetico o comune occorrono perpetue la
idea e la parola della vendetta: il Monti sacerdotale, e in Roma,
diceva:
«Sicchè l'alta vendetta è già matura,
Che fa dolce di Dio nel suo segreto
L'ira.....
Le pubbliche e le private sventure si apprendono per ordinario come
castigo di Dio. Insomma la vendetta costituisce un compenso al male
patito ed una difesa, perchè a danno nostro non si rinnovi, e quanto è
feroce appetirla immane, altrettanto abbietto non cercarla onesta, e
tale sentenzia anco Cicerone. Infatti:
«. . . . . la sofferta ingiuria
Chiama da lungi la seconda offesa.
Il filosofo non si ha da gingillare con equivoci di parole, e tu il
debito che contrae il colpevole verso la società, e l'obbligo che corre
a questa di farglielo pagare, o chiami vendetta, o castigo, o in quale
altro modo tu il chiami fie sempre il compenso al male fatto. Ancora io
penso che se il singolo cittadino possiede facultà di perdonare, questa
manchi al Magistrato, sia pure supremo; e vi ha chi disse la grazia
bellissimo fiore della corona reale, mentre all'opposto è ingiustizia
enorme. Le leggi barbare davano ai parenti dello ucciso e del mutilato
un diritto, ed era il prezzo del sangue, che la legge indicava; il reo
l'offeriva, e non poteva ricusarsi dagli altri; ciò parve enorme, ed
era; perocchè nel delitto si abbiano a considerare due offese; una al
cittadino e l'altra alla città; nè parve bene che, soddisfatto quello
questa avesse a quetare; ora nei delitti nocivi alla sicurezza pubblica
il perdono degli offesi non leva di mezzo l'accusa, e la città tira
innanzi per conto suo; dunque per correspettività il magistrato (quando
anco ne avesse procura dall'universo corpo dei cittadini) non può
rimettere la ingiuria del privato. Qui mi cade a taglio avvertire come i
Legislatori nel classare i delitti abbiano avuto meno in pensiero la
gravità del reato, che il modo di commetterlo, ovvero la potenza di
difendersene. Formidabile di fecondità è la famiglia delle truffe e
degli stellionati, facile si propaga come la gramigna, ti s'insinua in
casa coperta o palese; si larva con tutte le maschere, e più spesso con
quella dell'amicizia, e tuttavia la truffa come delitto di azione
privata con la rimessione dell'offeso si lascia impunita; al contrario
il furto con frattura di serrame, o in altro modo qualificato per la
quietanza dell'offeso non si perdona. Perchè questo? e sì che rompere
una toppa parrebbe avesse a riuscire più agevole che abbindolare un
uomo; ma poichè la truffa non accade se non giungi a ingannarlo, ognuno
per naturale prosunzione sè reputa sicurissimo, altri per singolare
semplicità deluso; mentre simile estimativa di superiorità non può
riporre nella sua serratura, a meno che ei non sia di suo mestiero
magnano. — La vendetta, afferma il Guicciardino, conserva la riputazione
dei cittadini e troppo più degli Stati, la quale veruna cosa più spegne,
che il cadere in concetto di uomini incapaci o per pochezza di animo, o
per manco di volontà a risentirsi delle ingiurie, nè essere pronto a
vendicarle. Cosa sommamente necessaria, non pel piacere della vendetta,
bensì perchè la penitenza di cui ti ha offeso sia di tale esempio agli
altri che non si attentino violare la legge. — Che se il parere di
Messere Francesco, il quale certo non fu dolce di sangue, non vi andasse
a genio, io conchiuderò con la sentenza di Plutarco giudicato
dall'universale mitissimo dei filosofi: — ora, egli scrive, come
l'arcatore insegnandoci ad arcare non ci vieta già di scoccare
quadrelli, ma sì di colpire di riscontro, così non s'interdice la
vendetta; solo tempo, e modo desidera. — Però ancora io credo che, se
non solo, almanco uno dei fini della pena abbia ad essere la vendetta. —
Predicasi ancora che lo scopo della pena non ha da essere la vendetta,
bensì il miglioramento del colpevole. Anco questo scopo possono proporsi
a fine le pene; non però esclusivamente; ma come io lo confesso santo,
così per pratica ho da affermarlo in molti casi impossibile; in tutti
difficile. Nè a smentirmi allegate _Statistiche_, perchè io vi dico in
verità che se esse non sono bugiarde quanto un diario ministeriale, però
stanno a pari con gli epitaffi. Forse dopo la prima o la seconda colpa
ti fie dato guarire l'animo guasto; commessa la terza sai tu, che puoi
insegnare al pertinace nel male? L'ottavo peccato mortale, che consiste
nella ipocrisia di onestare o ricoprire gli altri sette. Ed ho detto
forse, imperciocchè il primo delitto, sebbene sia il primo fatto, che si
palesa con le qualità degne di punizione in ordine alle leggi, ciò non
significa che altri consimili non ne siano stati commessi in segreto; e
quando pure non accada così, quanta rovina di morale, quale strazio di
educazione e di religione non si è menato prima che lo spirito dal
peccato veniale sdrucciolasse giù fino al delitto! Quanti sforzi, che io
dirò atroci, perchè l'occhio stornandosi dalla culla della infanzia,
dalla immagine materna sia condotto a fissare senza battito di palpebra
la galera e il patibolo! Io dubito forte, che quando il delitto consegna
il colpevole in mano della legge, a questa poco più altro rimanga a fare
che a punire. La madre, il maestro e il sacerdote sono i ministri a cui
si commise la cura di educare la innocenza umana, così che per procella
di passioni non si rompa; se non riuscì a questi, altri non isperi
riuscire. Lo ufficio della madre si mantiene buono, e, con poco di cura,
può diventare ottimo, però che la natura ne susurri perenne i rudimenti
negli orecchi alla donna. Per me ho sempre stimato la Confessione
instituto di bontà e di efficacia supreme; ora la sbertano come quella
che partorì sequele spesso funeste e non si nega, ma io vorrei sapere
quale sia l'ordinamento umano che non sia stato guasto, e poi io non
intendo la confessione come ora si pratica e si praticava prima nella
Chiesa, che allora si costumava pubblica. Egli è argomento di non
mediocre meraviglia considerare come in tutto il mondo la confessione
dei propri peccati sia, o fosse instituto religioso; anco adesso in
China i ministri e i governatori hanno l'obbligo di dettare le colpe
commesse rendendole note al popolo... I Greci e i Latini si confessarono
nei misteri di Cerere, d'Iside e di Orfeo: presso di loro la confessione
si faceva da uomo ad uomo; anco Marcaurelio si confessò allo Jerofante
nei misteri di Samotracia. Il Voltaire narra di un Greco a cui lo
Jerofante persuadeva si confessasse: a cui il Greco: — Devo confessarmi
a te, o a Dio? — A Dio — rispose l'Jerofante. — La cosa non istà così:
il Greco fu Lisandro, e come lo Jerofante lo confortava ad aprirgli i
suoi peccati quantunque ripostissimi, Lisandro che covava il disegno di
farsi tiranno, e non lo voleva dire, interrogò se questo gli domandasse
per sua elezione, ovvero per volontà degli Dei; e udendo che ciò faceva
per volere del Nume, quegli soggiunse: tratti in disparte, e se il Nume
me ne ricercherà a lui lo confesserò. I Cristiani forse tolsero la
confessione dagli Ebrei, non già dai Greci o dai Latini, ma o dall'uno,
o dall'altro, o da ambedue la pigliassero, o da nessuno; questo non
monta, e giudico che la confessione, come si adopera adesso, sia pel
modo, sia per le persone non può fruttare che male. Il prete dovrebbe
essere prete, cioè vecchio, e provato per lunga vita bene spesa in opere
di carità, discreto molto, e perito in questa matassa arruffata delle
passioni umane; nè dovrebbe preporsi a udire la confessione di cui per
età ha ormai messo il tetto; costoro, bene nota il Voltaire, confessansi
a mo' che i ghiotti si purgano; per avere più appetito; all'opposto a
lui arieno a confessarsi giovanetti, i quali per avventura senza malizia
gli svelerebbero la mala disposizione dell'animo; e il medico
spirituale, senza ch'essi il sapessero o se ne accorgessero, ordinerebbe
i rimedi più acconci a svellere il male dalla radice, o a imprimergli
moto verso scopo lodevole; dacchè le sorgenti del bene e del male
sgorghino dal medesimo sasso, appunto come quelle del Tevere e
dell'Arno.
E poi date mente, io vo' bene che le pene propongansi lo scopo di
migliorare i rei, e ci si spenda attorno, ma non prima di avere con ogni
industria provveduto all'allevamento ed alla educazione dei buoni:
altramente in rattoppare un mal cristiano tu verrai a spendere tre o
quattro volte più di filo, che a cucire di pianta un uomo dabbene. Mio
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