Amelia Calani ed altri scritti - 04

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le zampe, e con un filo di voce chiedono l'olio santo: ma che è, che non
è, in meno che si dice un _Amen_, eccoli su vispi, vivi, e più gagliardi
che mai canzonare i filosofi e i cani. Questo, come savia, molto bene
sapeva la Signora Contessa; quindi non dava tregua allo errore giammai,
porgendo documento efficacissimo a coloro che vorranno approfittarne.
[8] La Gazzetta di Savoia smentisce quella di Ginevra, e nega il
fatto; però _uno avulso non deficit alter_. La Gazzetta di
Fionia racconta nel 26 agosto 1856 essersi giustiziato ad Asten
un Olsen masnadiero famoso: sgorgando il sangue del capo reciso,
due giovanette di 15 e 17 anni averne raccolto il caldo sangue
in bicchieri, e bevuto. Condotte dal Magistrato, e da questo
riprese rispondono: non meritare rimbrotto, perchè circa a
prendere il sangue ne avevano la licenza (e qui buttano su la
tavola un foglio firmato dall'Olsen, che regalava loro tutto il
suo sangue, scapezzato che fosse); e intorno al berlo, egli
Giudice, doveva sapere, che preserva dalla epilessia, dalla
apoplessia, e da molti altri mali.
La _Palmira_ gli è racconto, che levò parecchi letterati a criticarlo
con molta acerbezza; in quanto a me, duolmi dirlo, condannando i modi
inurbani, non parmi dovere dissentire dalle critiche. Eccone il sunto:
un barone Nericci va in cerca di un sacco di quattrini con una sposa, e
li trova: poi vago di attendere ai giuochi, e ad altri consueti suoi
passatempi, pianta in villa la moglie in compagnia di certo suo pupillo,
giovane, lezioso, e vaporoso marchese: alla Palmira, negletta dal marito
barone, vezzeggiata dal pupillo marchese, accadde quello, che in pari
casi è solito accadere e che non importa raccontare. Il marito torna, e
accortosi della ragia (anche la suocera contribuisce ad aprirgli gli
occhi, ma non ce n'era bisogno) delibera vendicarsi, e in questa guisa
vi si apparecchia: avvisato come certa contadina lì presso si
travagliasse _in extremis_ per malignità di vaiolo, recasi a levarle la
camicia ingrommata di putridume, e portatasela a casa costringe con
minaccie e sacramenti la moglie febbricitante a vestirla: non istà
guari, che il morbo anche nella povera donna imperversa di natura così
trista e ria, che a grande stento ne scampa la vita, rimanendone però
nel volto sconciamente deturpata. Il marito dopo la bestiale vendetta
ridotto al verde dai disordini, e un tantino anco dal rimorso, muore,
mentre la Palmira aveva già cercato ricovero (anche qui secondo il
consueto) in Monastero. Intanto il pupillo marchese, che (adesso
spupillato) aspettando meglio viaggiava, udita appena la morte del
barone, gira di bordo e torna a tiro di ale a casa; poi, senza nè anche
mutarsi la camicia, corre al convento, picchia, gli è aperto, va
difilato al parlatorio, chiama l'amante sua, che anch'essa arriva di là
dalla graticola, e per di più velata. Oh Dio! che novità è mai questa?
L'amante non potendo ingolare quel boccone amaro _in primis_, come vuole
ragione, muove urgentissima istanza affinchè per via di provvedimento i
maluriosi veli alzinsi, od abbassinsi, talchè l'effetto sia il volto
abbia a rimanerne scoperto: ricusa risoluta la donna, conquide smanioso
l'amante, donde un flagello di pianti, rammarichii, singulti, ed
ultimamente rimbrotti. — Ah! ora sì che comprendo il mistero, esclama
all'improvviso l'innamorato marchese, tu vuoi serbarti ad un rivale! —
La Palmira allora, chiusa fra l'uscio e il muro, _multis cum
lacrymis_[9] si leva il velo... Urlo e svenimento del marchese, il quale
a suo tempo tornato in sè, o piuttosto uscitone affatto, scrive alla
donna: non fargli caso s'ella sia rimasta con un occhio solo, e con
mezza guancia di meno; avere egli trovato rimedio a tutto;
abbacinerebbesi, e poi così cieco avrebbesela presa per moglie, godendo
nella immaginativa le note bellezze. La donna non gli dà retta, e fa
almeno questa cosa di bene: arrogi qualche erbuccia di episodio, e
termina il dramma. Povero dramma come vedi, senonchè il racconto serve,
si direbbe, di trama per ricamarci sopra una sequenza di considerazioni
circa lo stato delle donne sotto il giogo del matrimonio. Se le mogli
con le ruinose grullaggini loro mandano a gambe levate la casa, se la
empiono di vergogna e di scandolo, se la fede coniugale contaminano, di
cui immaginereste voi che fosse la colpa? Ve la do a indovinare su
cento. La colpa è tutta dei mariti, di questi tristacci, che calunniando
dipinsero la donna che va a marito con la fiaccola nella destra tesa per
davanti, e con lo uncino nella manca tesa per di dietro, come per
significare che arraffando di casa al padre quanto più può, va a mettere
in fiamme quella dello sposo; di loro, che ridotto a digesto il
concepito maltalento misero in voga nel mondo i proverbii, che: chi mena
una moglie merita una corona di pazienza, e chi ne piglia due
guadagnasela di pazzia; di più: due essere lieti i giorni del
matrimonio, quello in cui la donna entra in casa, e l'altro quando ne
esce morta; con altri più assai, ch'è vergogna udirli, peggio
raccoglierli, e poi da chi? Da un poeta, e da un marchese; e per sopra
mercato darli al Lemonnier perchè gli stampi.
[9] Divitiacus multis cum lacrymis Caesarem complexus. — _C. J.
Caes de Bel. Gal._
La Signora Sand, o come con altro più vero casato la si abbia a
chiamare, parmi sicuramente letterata di polso; ma io confesso, che con
quel suo difendere che fa a spada tratta la donna riversando tutte le
malizie sul capo dell'uomo mi riesce mortalmente sazievole: oltrechè
quel suo sempiterno chiacchierare di amore in tutte le chiavi, assai mi
arieggia il convito della marchesana di Monferrato, da cima in fondo
composto di galline, comecchè in molte svariatissime maniere le avesse
accomodate il cuoco sagace. Non basta a questa valorosa donna
ripetercelo a lettere da speziali più volte, che mercè gli scritti suoi
ci ribadisce pur troppo nel cervello: l'amore, episodio della vita
dell'uomo, formare il poema intero in quella della donna; ed io per me
direi meglio, la cronaca, chè troppa cosa è il poema.
Ma, o credono queste benedette donne che i costumi in virtù degli
scambievoli rimbrotti, si possano emendare? Con questo _dixit latro ad
latronem_, la non finirebbe mai. Orsù, poniamo che la colpa abbia a
ricadere tutta e sempre su l'uomo, che monta egli questo? Per avventura
vorranno le donne desumerne il diritto di vivere disoneste? Da quando in
qua il fallo altrui potè allegarsi ad escusazione del proprio? Quando il
Corvo disse al Merlo: come sei nero! questi, secondo che affermano
coloro i quali lo udirono, rispose: e tu non canzoni! Infatti nero di
fumo ambedue. La donna e l'uomo sacramentano al cospetto di Dio portare
insieme di amore e di accordo la croce della vita; immaginiamo adesso
che l'uomo spergiuro, ritirata la spalla, si rifiuti più oltre al
carico; quale delle due donne pensiamo noi che abbia a procacciarsi
loda? quella, che scossa la croce a sua posta dalle spalle la lascia
cascare nella mota, o piuttosto l'altra, che astenendosi dai rimbecchi
se la reca intera addosso, e, senza porre mente se altri falla, intende
a non fallire ella pure?
Questo poi io non vorrei che si pigliasse nello aspetto di pretendere
condannata ad ogni modo la femmina peccatrice: mai no, ch'io non mi
sento così atroce, e so che le passioni quando si avventano come fuoco
sopra le anime umane le vincono, e carità ci persuase verso di loro Gesù
Cristo dal giorno che disse agl'ipocriti additando la adultera: «chi di
voi senza peccato le getti la prima pietra.» Tuttavolta tra scusa e loda
corre la differenza grande: anzi, chi vuole correggersi non si deve
scusare; lasci questa parte altrui; egli chiamisi in colpa, e pentasi
della offesa fatta a Dio, e alla onestà del consorzio umano.
Lo scritto che non possiamo leggere senza sentirci profondamente
commossi è l'elogio che la nostra inclita donna dettò per Andrea Cimoli,
prode, magnanimo, e non pertanto oscuro soldato della civiltà: povero
egli nacque ed umile in terra remota, su per erta pendice, senza
maestri, senza libri, e senza facoltà di procacciarsene: esempio non
infrequente di quanto possa questa nostra indomata italica natura: da sè
s'istruì, i libri accattò, ed ape infaticata della scienza il mele
raccolto nelle pertinaci vigilie deponeva ogni mattina amorosamente
sopra le giovinette labbra: da sè imparava per insegnare altrui: ebbe il
sapere pari alla carità, profondissimi entrambi; nè per sentirsi mancare
la vita, rimise punto l'ardore che lo moveva a istruirsi e ad istruire,
deliberato come era di rimanersi fino all'ultimo nel posto confidatogli
dalla Provvidenza: donde accadeva, che con i consiglieri amorevoli suoi,
i quali gli venivano persuadendo a posarsi alquanto per ripigliare con
maggiore lena la via, quasi si adirava, ed è per questo che lo salutai
forte soldato della civiltà.
Altri si abbia le pompe superbe e i trionfi, rumore di un giorno per
tacere eternamente; il nostro cuore trema di tenerezza quando assistiamo
con la immaginativa ai funerali che fecero a cotesto uomo dabbene i
montanari apuani insieme ai loro figliuoli alunni del Cimoli, chè prole
propria per natura, pure volentieri essi la riconoscevano per amore
comune con lui, ed in luce di spirito unicamente sua. Per mezzo di una
giornata rigida d'inverno camminando per parecchie miglia nella neve,
molestati da incessante nevischio, essi tutti lo accompagnarono
all'ultima dimora con pianti, e con affettuose parole, non si saziando
di raccomandarsi al caro capo come se potesse udirli, e fosse pur vivo,
e di dirgli addio. Nè si rimasero a codeste onoranze, chè di prontissima
voglia, quantunque di averi piuttosto poveri che scarsi, collettando fra
loro danari, tanti ne raccolsero che bastarono a dargli onestissima
sepoltura. Adesso sopra codesti gioghi possiede il Cimoli assai lodata
memoria, ma non si nega che di marmo la potrebbe avere più bella; però
nè più bella nè più laudabile, nè più onesta altri ed egli stesso
potrieno averla di quella che la gente apuana gli innalzò nel proprio
cuore.
La morte, come ordinò Natura, presto o tardi ti capita addosso a
chiarire se fosti virtuoso davvero o strione di virtù, e alla nostra
Filosofa incolse appunto in quella, che giunta agli anni virili, in lei
raggiava la pienezza delle sue facoltà spirituali; e giocondata si
godeva la vita pel consorzio di gente illustre sbattuta come grano di
spelda per le italiche ville dalla fortuna, ai virtuosi sempre nemica:
nei consorzii di quei valentuomini come in palestra di filosofia ella
s'ingagliardiva: contenta chiamavasi, ed era, del diletto consorte Conte
Mario Carletti, in cui pendi incerto se tu debba maggiormente ammirare o
la modestia o la bontà; doti, pei tempi che corrono, diventate più
presto uniche che rare; e nondimeno ella fece liete accoglienze alla
morte.
E qual morte! Non credasi già che l'assalisse improvvisa, e seco la
portasse immemore delle cose dilette che lasciava: ahimè! no: a lei fu
di mestieri assaporarla a centellini; e' fu una di quelle delle quali
mostrò compiacersi tanto Caio Caligola quando ai carnefici suoi ordinava
che i condannati straziassero per modo, che _si sentissero morire_[10].
Infatti la infermità le strinse la gola, che prima sofferse trangugiare
cibi molli, poi liquidi soli, ultimamente nulla. La sola parola
rivelatrice di sensi preclari quinci trovava il varco: tirocinio di
divinità era cotesto, oggimai schiva di ogni sustanza, che corporea
fosse. Quando dal digiuno attrita e dalle veglie, il suo spirito stava
sopra la soglia dello infinito, a tale che la confortava a bene sperare
rispose: «se mi accostaste alle labbra una tazza colma di vita, io non
la berrei: non vale il pregio rivivere:» e questo disse Tito Pomponio
Attico, cavaliere romano elegantissimo non meno, che integro amico di
Cicerone, il quale per quanto scrive Cornelio Nipote, si lasciò morire
d'inedia per tedio di vita: nè in questo solo apparve pari a Pomponio
Attico, ma bene in altri particolari, così nella vita, come nella morte,
specialmente nei gravi ragionari sopra le materie più scabre della
morale filosofia. Perchè poi ella, a cui sì dilettabile sembrava che
scintillasse la vita, dimostrasse siffatta vaghezza di morte, non rimase
ai suoi familiari nascosto. Dopo tanta speme di Libertà goduta negli
anni 1848 e 1849, adesso il suo cuore fra questa caligine maledetta di
tirannidi, ascitizia, e nostrale, si sentiva oppresso; quell'anima
gentile strascinava le sue speranze, come la colomba le ali ferite, nè
per quanto ci si affaticasse d'intorno con immenso affetto le riusciva
levarle a nuovo volo verso le regioni dello entusiasmo, genitore di
concetti e di atti divini. «Che fai? che pensi? Anima desolata, a che ti
stai? Sovente, quasi garrendosi, diceva. — Come dal banchetto levarsi
non sazii ancora, per giudizio dei fisici, molto si confà alla salute
del corpo, così abbandonare tempestivamente la mensa della vita
contribuisce assaissimo alla salute dell'anima, conciossiachè quantunque
la morte costringa come necessità inevitabile, tuttavolta sentendoci
sempre in termine di gioventù e gagliardi condotti all'estremo, sembra a
noi che lo andare o lo stare sia lasciato nello arbitrio nostro; e
l'apparenza della volontaria elezione rinfranca l'anima al trapasso:
tempo è di andarcene; abbastanza vidi, onde io senza amarezza lasci la
vita; più tardi potrei maledirla; partiamo adesso, che io mi separo da
lei come da un amico che non amo più, ma che non odio ancora.»
[10] Ut sentiat se mori. — C. TACIT., _Hist._
Ella moriva con l'anima trafitta dalla spada del dolore, contemplando
più e più sempre montarle dintorno il diluvio della viltà universale.
Certo non si può mettere in dubbio; se la Patria avesse posseduto
parecchi uomini pari a questa una donna, o non sarebbe serva, o qualche
scheggia appena troverebbero adesso di lei dopo molto cercare sotto un
mucchio di cenere.
Immensa, oscena, senza fine turpe viltà, che affoga il vulgo patrizio
nel paese a cui basta la fronte per iattarsi l'Atene d'Italia. Qual
gente in questa o in altra terra può mettersi in paragone di lui? Io non
ce ne vedo alcuna, a meno che non fossero i Lazzeroni di Napoli; e non
in tutto, conciossiachè i Lazzeroni non sieno vili, e lo hanno fatto
vedere.
Nel vergare le ultime linee di questo scritto, ecco mi accorgo avermi
fatto scannello di un volume delle Vite di Plutarco: però recatomelo in
mano, e fissamente consideratolo, dal profondo del cuore dico, come se
mi fosse dato di favellare al simulacro comparsomi davanti di questo
uomo dabbene: «Oh! quanto, bennato spirito, avesti a patire amarezza, e
sopportare fastidio dettando queste carte! però che gli uomini di cui
riportavi le inclite geste oggimai fatti erano polvere, nè la Patria
inferma e vecchia dava speranza alcuna di partorirne altrettali; ora è
questo, in fede di Dio, il tristo mestiere, raccogliere le foglie secche
dell'albero morto per iscaldarcene anco un tratto le mani intirizzite e
morire. Infelice diletto davvero lanciare nello speco dei tempi un
grido, il quale tornerà strepitoso, e non pertanto infecondo, a
piombarti su l'anima! Ormai deserta la libertà latina, tu avevi visto ad
Augusto succedere Tiberio, e, precipitando, la romana gente sopportare
Caio Nerone, e perfino Vitellio; e la tua fronte serena si era declinata
verso terra, pure pensando che Tito Quinto Flaminio consolo, e Nerone
imperatore due volte aveano affrancata dal servaggio la Grecia, e fatta
libera mai. Dopo la ingiuria di essere ridotti in servitù nessuna
maggiore ignominia può toccare ai popoli oltre quella di essere
restituiti in libertà dalla mano dei tiranni. Libertà mendace, e della
libertà vera sorella bastarda, non ignota agli antichi, e da loro
meritamente avuta in dispregio. Così vero, che quando allo schiavo erano
sciolte le catene da mano nemica, non diventava già libero, bensì
liberto; mentre all'opposto ingenuo ridiveniva veracemente colui, il
quale con le proprie mani le rompeva. Perchè scrivesti? Temistocle, dopo
le giornate di Maratona, Salamina, e Platea, a colui che gli si
profferiva insegnargli un metodo di ritenere a memoria le cose, ebbe a
dire: — Deh! perchè non m'istruisci nell'arte di obliarle? — Con quanta
maggiore ragione non dovevi, o Plutarco, giovarti della esperienza del
figliuolo di Nicocle?»
Pronunziate le quali parole, mi parve che i fogli del libro,
strepitando, mi fremessero fra le dita, e poi mandassero fuori una voce
corrucciata, che diceva così: «E tu perchè favelli? Tu che trascini la
vita traverso i tempi fra i pessimi i peggiori? E tali non già perchè le
terre italiche vanno tutte piene di tiranni; o perchè le angoscia il
servaggio più duro, dopo le prime benedizioni della libertà. Tempi
acerbi non tanto per la guerra combattuta con fortuna infelice, non per
il sangue sparso invano, non per lo oltraggio e gli assassinamenti
stranieri; non pei gemiti che prorompono dai pozzi dove le vittime
accatastate dalla tirannide pregustano l'inferno; non per la gente
ausonia sparsa sulla faccia della terra come le ceneri della prima
eruzione del Vesuvio; cose tutte veramente dolorosissime, e piene di
molta pietà; ma ahi! troppo più a cagione degli ignavi, e dei codardi, i
quali alla paura diedero faccia di prudenza, cauti celebrarono i
consigli avari od inetti, o invidiosi; arguti trovatori dei ripostissimi
sofismi della viltà: senza ire per la tirannide; conciliatori insensati
degli agnelli e dei lupi; consiglieri di tranquillo vivere tra ugnolo e
ugnolo del rapace uccello. Gli sdegni magnanimi loro, le facili ire, i
securi latrati, le calunnie, gli anatemi che in frotta loro sospinge
alla bocca la sterile e prosuntuosa parlantina contro chi morde il
freno, e grida, che ha da tacere di Patria e di Libertà chiunque non si
sente capace da mettere in isbaraglio la vita per quelle. —
«Ecco, per questi vigliacchi, la ragione del futuro è manomessa; a causa
delle parole ignave, il tesoro della vendetta disperso, le anime,
invilite co' precetti e con gli esempii; dallo sbadiglio in fuori altra
potenza non lasciano: poichè la Libertà diventò popolesca, la Tirannide
ridivenne gusto patrizio. Libertà vollero, ma non cercarono, finchè
suonava per loro partecipazione del comando; e servi, si offrono
tuttavia al mercato per dominare. Il Popolo stesso giace sbigottito,
imperciocchè tema di essersi ingannato, e d'ingannarsi, nè alcuna stella
in cui possa fidare scintilla per lui: egli va tentone, si perita far
male restando, peggio andando, e poi dove? e come? Dopo che tutti lo
blandirono, gli dissero fratello, chiesero il suo sangue, ed egli lo
mescè attorno generoso come vino alle mense ospitali, tutti lo
rinnegarono più tardi, e sputandogli in viso, lo chiamarono _raca_: però
egli si avvolge torvo nelle sue sventure, nei suoi sepolcri si strugge,
e non fa motto: non piange ma tace, guarda sospettoso e non dà retta a
persona.
«Dunque a che le memorie? Qual pro rammentare la virtù dei morti se non
se ne giovano i vivi? Se nè anche ci attendono.... anzi, se la pigliano
a tedio? Carità e pudore persuadono lasciarne in pace le ceneri.»
Ma il savio di Cheronea la pensò altramente: Egli, meditando, toglievasi
al senso dei mali circostanti, e l'anima sollevava alla contemplazione
del bello morale: seduto sopra le tombe dei suoi eroi, sorrideva alla
immagine della vita futura dove lo spirito combattuto avrebbe quietato
nella grande anima di Dio, di cui particole furono Aristide, Fabio,
Temistocle, Marcello, Scipione, Milziade, e gli altri che
«. . . . . . . . non saranno senza fama
Se l'universo pria non si dissolve.»
E che dunque premevagli se a nessuno giovava il suo dire? Che cosa, che
veruno lo ascoltasse, od anco ascoltandolo lo deridesse? Narrasi da
Valerio Massimo che Antegenida musicante allevò con infinito amore
nell'arte di suonare i flauti certo giovanetto, confidando ritrarne non
mediocre onoranza; vedendo poi il giorno che lo espose sul teatro, come
gli Ateniesi, ormai guasti dalle lascivie dei modi lidii, lo
dispettassero, lo tolse per mano e, senza ira, senza cipiglio, anzi
dolcemente gli disse: «fa core e suona per le Muse e per me.»
Ma no: piccolo conforto è cotesto, ed io lo rifiuto: palpita eterna la
speranza nel cuore, e moriranno insieme, o piuttosto la speranza
chiuderà gli avelli, ma non iscenderà co' morti là dentro: ella aperse
gli occhi alla prima alba, ella deve chiudergli all'ultimo tramonto;
seduta su la lapide delle generazioni che passano, rinnoverà la sua
prece, finchè Dio non la esaudisca.
Che se taluno osserverà, nè pietoso nè savio essere stato il consiglio
mescere tanto odio nel discorso funerale di mitissima donna, io gli
rispondo a viso aperto: pietoso e savio, la mia religione m'insegna
acuire, sopra le tombe, sopra gli altari, su i fonti battesimali, su
tutto, la spada che deve alla fine affrancare la Patria dallo aborrito
straniero. Catone il Censore costumava, sia che il soggetto lo
richiedesse o no, conchiudere ogni sua orazione col motto: _vuolsi
sovvertire Cartagine_: sicchè poco prima che spirasse, la sua anima
esultò delle puniche fiamme; così gl'Italiani a posta loro finiscano
prece, lettera, orazione, predica, confessione, insomma tutto, con le
parole: _fuori stranieri_; e gli stranieri sotto lo indomabile odio
andranno dispersi. Allora poi favelleremo di amore.


DELLO SCRITTORE ITALIANO

Avendo meco stesso considerato questa materia dello italiano scrittore
con quella gravità che il mio intelletto mi consentiva, tale e tanta
ella venne ad allargarmisi per mano, ch'io la conobbi argomento di
nobilissimo volume. Di vero nessuno speri vedere il tempo della messe,
se quello della seminatura non preceda; ora, in questo verno apparente
del mondo, spetta allo scrittore ammannire la lieta stagione;
imperciocchè a cui bene intende nel gennaio sta la ragione del luglio.
Volendo pertanto fare cosa profittevole, non era dato conseguire lo
scopo mettendo fuori lo scritto a brani, e ad intervalli di tempo non
brevi; chè il nesso dei raziocinii si smarriva, e forte correva pericolo
di comparire avventata, e peggio una proposizione disgiunta dalle sue
premesse, la quale, unita a quelle, i lettori avrebbero accolta come
naturale; forse anco necessaria. Cessiamo per queste cause la
pubblicazione della opera in frammenti, e ci riserbiamo a farla tutta di
un tratto, parendo a noi, che i tempi desiderino di questa maniera
libri. Gli anni crescono, la libertà diventa adulta, e gli uomini dei
liberi istituti stannosi sempre al _pappo_ e ai _dindi_: perchè poi
altri giudichi se come sembra a noi il libro meriti uscire alla luce,
porremo in termini stringatissimi gli argomenti, che abbiamo preso a
discorrere.
Come, ed a che fine le scienze fisiche si abbiano a studiare; quali
vantaggi ne attenda la Patria: sapere in parte è ritrovare, ma oggimai
non possiamo più perdere, nè rinnovamento di barbarie vuolsi temere.
La economia politica, ora fa pochi anni negletta, oggi massimo assunto
di scienza: il fine della vita umana è la ricerca del meglio: non si può
contrastare, che i garbugli piacciano ai malestanti, donde deriva nei
prudenti la necessità di torne via le cause. Lo scopo delle rivoluzioni
comparisce ordinariamente moltiplice, ma in fondo ci si agita sempre
l'interesse; massime ai giorni nostri: si dimostra la materia. La
Francia nel sovvertimento degli ordini politici nel 1848, ebbe in mira
mutare gli economici; riuscita a male la prova, oggi s'industria, dacchè
forza non valse, venirne a capo con la pazienza. Il debito pubblico fa
l'ufficio di vincolo estremo, che tiene uniti gli Stati decrepiti,
essendo ogni altro legame caduto in pezzi. Della indifferenza dei popoli
agl'istituti liberali qualora gli sperimentino inetti a fruttare copia
maggiore di beni. Incapacità su tale proposito degli uomini di Stato, e
non italiani soltanto. Dimostrazione del come il dispotismo non possa
partorire altro che danni.
Paure di governi artatamente esagerate: nel moto consiste la vita; ogni
secolo si trova sospinto da speciale corrente, cui contrastare è
temerario e vano, provvedere che proceda ordinata, prudente ed utile:
secolo oggi va composto di 10 anni.
Le scienze economiche tollerano meno delle altre i parabolani, e sono
quelle dove ne occorrono più. Le teorie come e quanto ingannino: errori
intorno al debito pubblico: errori su la libertà del commercio.
Sventura massima della facilità di sbagliare non solo nella economia
politica, bensì in tutte le scienze le quali si versano sul reggimento
degli Stati, donde avviene che le riforme non giovino, anzi nuocano. Si
discorrono alcuni errori circa alla libertà della educazione, e circa la
libertà della stampa; ancora degli errori su l'autorità dittatoria, e su
la magistratura immutabile. Come siensi provati i giudici la più parte
avversi ai liberi istituti, e perchè. Digressione intorno alla qualità
delle leggi, alla condizione dei tempi, ed all'ufficio in che abbiamo
veduto spesso adoperata la legge. Errore rispetto al modo di esercitare
il suffragio universale, ed errore anco più grave, intorno alla
efficacia e potenza di quello.
In che cosa consista la pratica dei negozii, e quale possa meritamente
appellarsi uomo pratico.
Scopi delle scienze economiche rispetto al governo dei popoli sono
questi: giungere in virtù di legge a far sì, che i pesi nei bacini della
bilancia pareggino, o di troppo non differiscano, o con perpetua
altalena si alternino; poichè la somma dei beni a tutti non basta,
voglionci istituti, che da un lato promuovano la parsimonia, dall'altro
agevolino l'acquisto. Lusso, flagello economico e morale dei popoli: i
buoni costumi rimediano meglio alla ulcera del lusso; le buone leggi
rimediano meglio alla difficoltà di acquistare. Esempii di leggi a
questo fine adattate, e di altre no.
Esame del sistema delle tasse quanto alla indole loro, al modo di
repartirle, e al modo di esigerle: importanza del modo di repartirle:
danni derivati dal modo di esigerle, praticato fin qui. Quanto ardua la
distribuzione della imposta; se giovasse aumentare la prediale; le
gravezze spartite in ragione geometrica, odiose, e causa di subuglio.
Balzello improvviso sopra il lusso pericolosissimo a motivo delle
industrie urbane cresciute a dismisura in danno delle agricole. Guai
nati da siffatto squilibrio; necessità e difficoltà di rimediarci.
Se possa farsi a meno di classi privilegiate negli Stati, e quali queste
classi sieno. — Innanzi tratto ragionasi delle cause di alienazione dei
cittadini dai carichi pubblici, e perchè la famiglia sia divenuta ostile
alla comunanza. Propongonsi i rimedi, e si discorrono i benefizii così
morali come economici che ne hanno ad uscire. Di qual maniera la
operosità generi la operosità, e della vita pubblica e privata degli
antichi.
Sacerdozio presso gli antichi che fosse, e se potesse rinnovarsi fra i
moderni. — Se i cittadini possano e devono decidere i piati civili:
assurdo del reputarli capaci a giudicare i commerciali, e i civili no:
assurdo peggiore del proporli a giudicare della vita, e ributtarli dal
decidere degli averi degli uomini. Delle leggi, e quali il mondo le
aspetta.
Si cerca se possano risparmiarsi gli eserciti stanziali, e, potendo, se
di qualunque maniera armi: posto che di tutte non si possa, con quali
modi si abbiano a comporre gli eserciti. Considerasi la soppressione
degli eserciti stanziali rispetto alle economie, alla morale, alla
salute del corpo.
Come sia in parte vero, ed in parte no, che i moderni trovati della
scienza nuocano, o almanco nulla giovino alle classi bisognose.
Degl'istituti di credito; e scopo vizioso ed utile di questi; però
siffatta spuma di denaro sbattuto al povero non giova o poco, e di
rimbalzo. Che cerchino i prestatori; e si dimostra essere quello che
esclude per necessità la chiesta del prestito. Il capitale va in traccia
del capitale vero o presunto, la probità non cura, o poco; e sola
ordinariamente non basta. Si chiarisce come con piccolo soccorso le
popolesche industrie si alimentino. Si propone base più razionale per le
banche di credito: disegno di una banca ordinata per provvedere ai
bisogni del popolo, come abbia ad amministrarsi, e su che fondarsi;
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