Amelia Calani ed altri scritti - 08

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inciso; simili aggiuntature di periodo danno più fastidio che altri non
pensa agli esercitati, per gl'imperiti poi sono disperazione
addirittura; adesso importa sapere come si possa limpidamente abbreviare
la orazione, ora come si deva con onesta pompa dilatare, e nell'uno e
nell'altro stile come si conservi la chiarezza, suprema dote dell'arte
dello scrivere e del dire. Lo studio della lingua consiste massimamente
per ultimo nell'arte di studiare le opere degli scrittori dei varii
secoli, da tutti cernendo, e non imitando da alcuno, però che lo stile
importa che sia cosa tua come la seta appartiene al bigatto, il mele e
la cera all'ape, pasciuta che il primo abbia la foglia e la seconda
succhiato i fiori. Quando si legge delle lunghe ed assidue cure che gli
scrittori dell'antichità, non mica dozzinali bensì principi, come
Cicerone e Demostene, ponevano per venire a capo di possedere l'arte
della parola; i travagli che duravano, e perfino i viaggi che
imprendevano, parrà non pure nuovo ma forte che senza viatico di sorte
oggi taluni possano mettersi in cammino, sostenendo che le lingue non
hanno già a considerarsi mummie, bensì spiriti viventi e ambulanti;
formare il popolo le lingue; e tornare bene scrivere come si parla;
perchè a fine di conto scopo dello scrittore è che lo intendano. Di
queste sentenze parte errori, parte vero mescolato con molto falso. Il
popolo e l'uso compongono le lingue, però il popolo perito e l'uso
retto, altramente ti avverrà in lingua quello che partorisce in politica
il suffragio universale presso un popolo ignorante e corrotto; colà ti
deturperà l'idioma con ogni maniera sconcezze, qui ti eleggerà il
tiranno. Scrivi pure come parli, a patti però che tu parli bene, e
allora buon per te, se come pretendi sai; che se non va così, appunto
per essere capito da tutti importa tu ti sviluppi dal mal'abito tuo o
della tua terra, chè tu non iscrivi per Genova, Torino, Girgenti o
Roveredo, bensì per la universa Italia; e se il cielo ti arride, non per
gli uomini del tuo tempo unicamente, ma a quelli eziandio che lo
chiameranno antico. Posa l'animo, in tutto e sempre troveranno gli
uomini un fiore, una qualità scadente ed un'altra pessima, nè il fiore
sarà mai patrimonio dei troppi, la quale sentenza significata in altri
termini vuol dire che gira e rigira, tu non potrai levare l'aristocrazia
dell'ingegno, e per conseguente l'aristocrazia di rivelarsi con modi
ottimi. Puossi torre a Dante la patria, la facoltà del canto non si può.
Re senza regno ne furono visti e parecchi, e o Dio! come grami, e nonchè
serbassero parte alcuna di regio, appena parevano uomini, sicchè il
senso che ispiravano non era già disprezzo, e nè manco ira, compassione
bensì. Omero separare dalla sua Iliade non si può; dovunque vada, a
qualunque età pervenga, sempre appare come è pur troppo re:
E va dinanzi agli altri come Sire.
Guaio grande allo studio della lingua consideriamo questo, che essendo
il trattarne difficile, riesce più che in altra materia spropositarne
agevolissimo. Onde gli uomini di alto intelletto, quale l'argomento
richiederebbe, volentieri lo adoperano in opere più illustri non però
più utili di quello che sia la filologìa, e poichè le aquile lasciano
questa preda vi si affollano i corvi. La è proprio esultanza quando
vediamo Dante volgere la mente a discorrere le ragioni della eloquenza
volgare, e il Macchiavello impiegare nelle faccende della lingua l'acume
di che fece prova in quelle di Stato; e degli antichi tacendo, documenti
bellissimi sopra il soggetto arduo lasciarono Monti, Perticari,
Giordani, Leopardi, Tommaseo, Niccolini, Manzoni ed altri, che pure
dovrieno nominarsi, e che si passano non già perchè demeritino onore, ma
per istudio di brevità. All'opposto angustia l'anima l'aspetto di non
pochi (e comecchè degl'insetti umani fastidiosissimo provammo sempre
l'insetto pedante, ad ogni modo vuolsi dire apertamente), i quali ai dì
nostri più che altrove a Firenze si versano in lavori filologici con
pretensione molta e senno poco, sia dettando regole, sia rivendicando
alla meritata polvere quisquilie, che per dirne meno fanno perdere un
tempo del quale dovremo rendere conto a Dio. Questo non vorremmo noi,
che così adoperando costoro ci sembra voglianci mettere al pane bollito;
dacchè se ci mostriamo teneri alle belle parole, volentieri poi
consentiamo che le parole senza concetto suonano rumore vano; anzi non
ci pare bella la parola se adoperata a esprimere ree o futili cose.
Checchè se ne sbottoneggi, torna più facile mettere in canzona
l'Accademia della Crusca, che farne a meno; non badisi ai termini nei
quali adesso la vediamo condotta; supponiamo che ci fossero chiamati
partecipi quanti con amore e felicità coltivano le lettere italiane, e
per legge dello istituto e più dall'animo benevolo venisse loro imposto
il doppio obbligo di specolare il passato ampliando e correggendo
dirittamente l'antico vocabolario, ed il futuro naturando i segni co'
quali i nuovi trovati si appellano, questo sarebbe massimo benefizio
alle lettere italiane, e quandochesia sarà fatto; le fortune delle cose
grandi come delle piccole in Italia si tengono per mano a mo' delle Ore:
e il Tempo, deposta la falce, si recò su le ginocchia la lira, e
musicando ne affretta la vicenda.

VIII.
Taluni dei nostri vecchi costumarono dire: _nihil de Deo, parum de
Principe;_ altri rovesciando ammonivano _nihil de Principe, parum de
Deo_. Omettendo decidere quale dei due avesse ragione, rimane vero che a
senso loro di teologia e di politica si avesse a tacere: ai giorni
nostri per lo contrario molto si favella dell'una cosa e dell'altra,
come quelle che importano massimamente alle nostre sorti presenti e
future. Di ciò porge testimonianza il ragguaglio delle opere esposte in
vendita alla fiera di Lipsia, dove le teologiche superano di gran pezza
le altre, e nel 1826, a mo' di esempio, le prime sommarono a 327,
mentre, fra le altre facoltà, le arti meccaniche che andarono innanzi a
tutte toccarono appena la cifra del 200; ed è ragione, imperciocchè
quanto maggiore distende l'uomo l'ala della mente, tanto più in lui si
agita l'agonia di conoscere quello che gli si serba nel secolo
immortale, parendogli questo, com'è veramente, transitorio troppo e
caduco.
Però andrebbe errato chi credesse che i libri teologici che appaiono per
le stampe in giornata promovessero tutti la esistenza di Dio;
all'opposto molti si affaticano a negarla; nè basta, chè oltre
procedendo intendono a dimostrare con supremi sforzi la ragione del
nego.
Nel passato secolo i filosofi francesi, considerando di quanti mali
fosse stata origine la religione per colpa dei tristi sacerdoti,
reputarono savio rifarsi alla radice del male, epperò non pretermisero
industria capace di sovvertire la religione cristiana. Gli alemanni,
adesso più universali, ed anco nello errore più logici, contemplando
come sacerdoti crudeli, ipocriti, seminarii insomma di errore non
fossero privilegio del cristianesimo soltanto, bensì ogni religione
annoverasse i suoi, e tutti tinti nella medesima pece, si avvisarono
prendere le cose più dall'alto negando Dio addirittura; e parve loro bel
fatto, dacchè le viscere della filosofia non si hanno a commovere
partitamente pel cristiano, l'ebreo, il maomettano, il buddista,
l'idolatra, e per gli altri cultori di religioni quante ve ne ha diverse
sopra la terra, bensì per la universa famiglia degli uomini.
Tornerebbe sazievole riportarne i molti ed irti ragionari; basti dirne
ciò che meglio cade in acconcio al nostro concetto: virtù fiacca quella
che per operare il bene ed astenersi dal male abbisogna del prospetto
del premio e della pena, anzi nemmeno virtù, perchè governata dalla
paura o dalla cupidità: inoltre incerta, perchè dove la paura cessi, od
altra passione più veemente di lei sospinga, l'uomo irromperà al
misfatto e al peccato. Non su la fede, dubbia cosa sempre, ma sopra
fondamento invariabile aversi a basare la morale umana. Doversi e
potersi trovare una specie di abbaco, un'aritmetica, per così dire, alla
mano di tutti, con la quale riuscirebbe agevole formare un bilancio
esatto dello scapito che fruttano le male azioni, e del benefizio di
quiete d'animo, di estimativa universale, ed anco di sostanze che deriva
dalle buone; onde la pratica della virtù sarebbe persuasa alla gente
come vantaggioso affare. Difficile a concepirsi la esistenza di Dio,
impossibile comprenderlo nei suoi attributi, epperò disperato formarne
regola, sopra la quale ormare le azioni umane; e così di seguito.
Incominciando di fondo, si risponde: certo difficile la comprensione
della esistenza di Dio, ma troppo più difficile quella dell'ateismo,
appunto perchè l'uomo non avendo facoltà, per quanto astragga, perdere
di vista i sensi donde in lui derivano nozioni ed idee, non potrà mai
concepire fattura senza fattore. Gli speculatori devono volgere i
pensamenti loro su cose fattibili, su le altre no, chè allora non si
chiama filosofare, bensì svagellare: ora svellere dal cuore dell'uomo
Dio è tempo perso; nè sostituirvi la ragione unica e schietta potrai.
Per quanto ti ci travagliassi dintorno, non giungeresti a impedire che
negli uomini l'affetto soverchi il raziocinio; sentire è palpitare, e
ogni uomo palpita; argomentare è arte d'ingegno educato; e torre via col
tardo lavorìo del cervello quello che il cuore di slancio per tempo
sentì non sembra impresa da tentarsi nemmeno. Invece di combattere non
vincibile battaglia (lasciamo da parte se empia), liberate la fede di
Dio dalla caligine di che l'hanno circondata gli uomini, adoperate sì
ch'ei splenda archetipo di verità e di giustizia ai mortali.
E questo fie massimo fra gli assunti del letterato italiano.
Molte le male piante che si abbarbicano intorno alla religione:
principali fra queste la indifferenza, la superstizione, l'ateismo e la
empietà; ma quale istituto, quantunque nella sua origine santissimo di
perfezione, non partorì nelle mani dell'uomo immani sequenze? Qui
intanto occorrono maggiori gli abusi in quanto questo negozio così nella
vita dei popoli come in quella dello individuo tenga parte primaria.
E' non vi ha dubbio comprendere Dio nella sostanza e negli attributi
suoi noi non possiamo. Le nostre facoltà trovansi corte a tanto
concetto: sarebbe bene che la faccenda fosse diversa, ma noi non
nascemmo a tribolarci nel desiderio di cose vane, bensì a trarre il
maggiore profitto dalla condizione in cui ci collocò la natura. A Dio
assegninsi pure attributi quali alla nostra mente paiono grandi, e
soprattutto buoni pel tempo e le opinioni che ci si volgono dintorno:
più tardi potrà darsi che i posteri gli sperimentino insufficienti;
spetterà a loro in quei giorni accomodarsi lo stadio che avranno a
percorrere; a loro stringersi dove meglio gli tornerà la cintura. Gli
attributi di Dio dovrebbero essere quelli, che imitati adesso avrebbero
virtù di generare maggiore copia di bene alle presenti generazioni. Se
nelle religioni che ci precederono su questo suolo latino si potesse
sceverare il concetto della divinità speculato nella mente dei fondatori
di quelle, dalla frasca sacerdotale forse vedremmo la progressione della
idea di Dio, che da principio materiale affatto diventa spirituale e
materiale. Apollo è nume propizio, libera la terra dal serpente, sana i
morbi, gli animi ferini ingentilisce co' sodalizii delle Muse, come un
mortale ama, e peggio troppo come un mortale odia. Cristo ama ed odia
come un Dio, non ammazza belve, ma conquide ipocriti, non iscortica
Marsia, bensì minaccia della geenna gli oppressori; non allieta i
mortali co' canti delle Muse, ma ne rigenera le anime, le chiama
sorelle, figlie di un medesimo padre che è ne' cieli, schiude alquanto
le porte del paradiso, e quinci prorompe un raggio, non di voluttà, ma
di suprema intelligenza e d'infinito amore; Cristo ha vinto il
paganesimo, ma non ha compite le sue conquiste: con esso in mano i
popoli possono camminare ancora per secoli nei sentieri del meglio. Sì
in verità lo possono, ma con Cristo solo.
La natura dello scritto e la materia piena di pericolo c'invita a
traversarla in fretta, pure rileviamo un'accusa la quale riesce a
immaginarsi facilissima. In questo modo, si obbietterà, la religione
convertesi in argomento di governo; e legarla così alle vicende
degl'interessi umani egli è un torla dal cielo e avvilupparla per la
terra: l'angiolo diventerebbe serpente. Si potrebbe in succinto sermone
rispondere che Aristotele si spingeva più oltre insegnando alla recisa
la religione essere stata inventata dai legislatori per contenere i
popoli e condurli a lor senno: con la vita cessate le cause del vivere,
epperò in un col corpo perire lo spirito; e le dottrine di Aristotele
invece di bandirsi da Roma sovversive alla religione, ella celebrò e
forse celebra adesso come fondamento dei dogmi ortodossi, chi lo
bestemmiò scomunicava, e sofferiva che in talune chiese della Germania
nei giorni festivi, invece di leggere il Vangelo, si leggesse un brano
dei _Morali_ di lui; ma qui non siamo nel foro dove si agita per avere
ragione, non già per trovare la verità; mal si gioca di scherma nei
gravi argomenti, epperò, buttato là lo Stagirita, insistendo, è da
dirsi: che presenta di strano chiamare la religione in soccorso al
governo degli uomini? Cristo si fece uomo e come uomo patì per approdare
all'umanità, ora quello che Dio fece, perchè repugnerebbe fosse fatto
con la legge di Dio? Da un lato si presume il temporale indissolubile
con lo spirituale e ciò per imperare; da un altro si sostiene lo
spirituale incompatibile col temporale, e ciò per fuggire servitù: nè
qui nè là ragione; mirate i Romani vetusti i quali niente di queste cose
apprendevano, come quelli presso cui la religione non formava istituto
separato, non privilegio di persona, bensì parte di reggimento e
professione della universa cittadinanza. Partesi egli l'uomo? Non si
parte, e nonpertanto lo hanno diviso per tenerlo meglio: questi si prese
il corpo, quegli l'anima; il corpo da vicino governano, l'anima da
lontano; l'uno con l'autorità della mannaia, l'altra con l'autorità del
terrore, e questa anco del premio perchè spirituale essendo non costa
nulla. Il Macchiavello, che nelle cose di stato fu quella cima di uomo
che il mondo sa, non dubitò affermare che i popoli senza il fondamento
della religione è forza che rovinino; e siccome le dottrine che spone
male si potrieno con parole più ingenue di quelle che per lui si
adoperavano riferire, così sarà prudente rimandare il lettore ai
_Discorsi intorno alle Deche di Tito Livio_, dove ne parla, e certo
sopra tutti gli argomenti che adduce forte ci percote lo esempio col
quale dimostra che, sciolto ogni ritegno, sotto la sequela delle
sventure sarebbe la repubblica senza fallo perita, se non era Scipione
che costrinse col ferro alla mano le poche legioni superstiti a giurare
di non deporre che con la vita la spada. Che importa a noi se gli
attributi conferiti a Dio dagli uomini reggano o no tutti alla prova
della virtù dissolvente della critica? — Basta alla umanità che sia
creduto ch'egli abbia quelli che dal danno la tutelano, e gli altri che
le fruttano benefizio. Pon mente: quando o la fortuna, o l'ira di Dio o
il mal talento dell'uomo, o la viltà del popolo, o tutte queste cose
insieme diedero allo stato un tiranno, chi si sentirà potente di
contenere costui uso a balenare i suoi voleri a modo di fulmine? La
forza sta nella sua destra, la legge nella sua sinistra, il gregge umano
gli rumina sotto i piedi e senza fremito. Allora non gioverà ch'egli
creda sopra lui senza fine più alto, ch'egli non è sul capo de' suoi
schiavi, vivere un Ente che vede, sa e può disperdere un mondo non che
un uomo, migliaia di mondi non che un gramo pianeta com'è la terra
coll'alito delle sue narici? In mezzo ai baccanali della prepotenza non
sarà bene ch'ei tema vedere di tratto in tratto sbucare fuori dalla
nuvola la mano che scriva sopra l'avversa parete la sua condanna? Se
egli ha copia di satelliti, di carnefici, e di giudici, e di commissari
straordinari, e di giunte militari, ministri del supremo Vendicatore,
paventi il tiranno la fame, la guerra e la peste. Nè il contradire
opponendo che timore di Dio non trattenne mai tiranni da trassinare i
popoli, parrebbe giusto, imperocchè i più di essi appunto non conoscano
religione, e fra coloro che o in parte, o tardi la conobbero, chi sa
quante scelleratezze ella impedì, o quante altre riparò, o di quali
amari rammarichi non fu ella semenza! Chi nol crede legga il testamento
di Filippo II, e dica poi se più l'empie di orrore la vita di lui o di
terrore la morte. Al principe che il dominio, sceso in esso tirannico da
tempi barbari, temperò con leggi volute dalla crescente civiltà dei
popoli, se mal consiglio altrui o ribollimento di superbia propria lo
inducesse a rimpiangere la passata sfrenatezza del potere, la religione
da prima gli porrebbe un dito su le labbra e gli direbbe: «taci, tu hai
giurato, e Dio è custode dei giuramenti fatti nel nome santo di lui»; e
poi seguitando lo garrirebbe: «ch'è questa arroganza? Dio, creatore
dell'universo, di cui la tua mente non può concepire, non che il tuo
occhio contemplare la immensità, Dio di petto all'universo s'impose
leggi, e dirittamente le osserva.» Così placando la sua superba febbre
lo ricompenserebbe con la serenità della coscienza onesta, col sentire
che meglio vale sicurezza giusta che ingiustizia con pericolo, e provare
che se non è eterno amore, il timore lo è anco meno, e conduce seco
l'odio per giunta. — I popoli senza religione, remolino di venti
scatenati, terribile più quanto meglio stia nelle mani loro il
reggimento, o si governino a democrazia. Chi potrà insegnare ai popoli
co' diritti i doveri da un punto all'altro, se la religione non può? Chi
varrà nel giorno della vendetta a persuaderli al perdono, se non trova
del cuore loro la via la voce del Dio che si fece popolo e perdonò dal
sommo del patibolo i suoi carnefici? Badisi a questo: l'opera criminosa
dell'uomo, prima di diventare delitto, fu peccato. La legge dà in mano
al giudice il malfattore bello e compito; il giudice tale e quale lo
consegna al giustiziere: inani riti il più delle volte e tempo veramente
sprecato procedure e giudizii; dicono ai giorni nostri proporsi nelle
pene l'ammenda del reo; non ci credete affatto, chè le sono ipocrisie
per parere; a ciò non pensano; ci pensassero, non possederebbono
abbastanza facoltà, proposito e sapere per venirne a capo; quando pure
tutte queste cose possedessero, riuscirebbe ogni partito invano,
imperciocchè inremeabili sieno i passi verso lo inferno, e che si possa
a un punto essere piombati nel baratro e comparire nel mondo; Dante lo
ha mostrato e la esperienza insegna. Non date retta a specchi, o come
volgarmente oggi si appellano: _statistiche_; queste per bugiarderia
hanno vinto la mano agli stessi epitaffi. Ad impedire il primo furto
poco ritegno basta; il solo miracolo può trattenere la mano che si
stende per la terza volta ladra alla roba altrui. Ora la legge non
arriva al peccato, i giudici non assistono al lento e progressivo
formarsi della materia perversa, che costituisce il misfatto; essi non
sanno come queste secrete infermità si guariscano, e, guarite, come se
ne impedisca il ritorno; le leggi ordinariamente non badano all'uomo che
dopo la sua pubertà, e unicamente per percuoterlo ci badano; ora a
sedici anni il malvagio ha messo il tetto. La famiglia dà alla città
l'uomo perchè glielo strozzi. A tanto guaio non può, come non deve,
riparare altro che la religione. In qual guisa, con quali partiti,
istituti ed uomini, se conservando o cancellando, ossivvero in parte
levando ed in parte mettendo del nuovo qui non è luogo a trattare; chè
solo adesso si ebbe in mira avvertire gli scopi che pei tempi che
corrono deve proporsi lo scrittore veracemente italiano. Le materie
religiose, considerate appunto dalla parte dell'utile che come istituto
governativo devono partorire al consorzio umano, ci paiono argomento
così ampio e nobile alla meditazione, come necessario alla contingenza
dei casi che ci stanno sopra gravi di molta minaccia.

IX.
Passammo per l'argomento della religione al modo stesso che san Pietro
Igneo traversò la catasta delle legna accese a tutta possa correndo per
timore delle scottature; ora favellando più ad agio, diremo di altro
assunto che per consenso universale, se non pareggia la religione,
merita tenergli dietro immediatamente; questo è la poesia. Quando il
sindaco di Londra, paragonata la Inghilterra ad un vascello in mezzo
all'oceano, poichè ebbe tritamente descritto i varii ministerii degli
incoli suoi, e confrontatili con quelli degli ufficiali di marina,
interrogò Chatterton che cosa stesse a fare in mezzo a tanta operosità
il poeta? Questi rispose: il poeta è il pilota che dritto su la prua sta
speculando le stelle per indirizzare il corso del naviglio a termine
immortale. La poesia era una volta il tramite pel quale il cielo
corrispondeva con la terra; gli uomini resero a Dio quanto egli concesse
loro di divino in parole di armonia cantando in sua lode inni e peana:
nè qui si fermarono, chè intenti a trasfondere nei precetti regolatori
l'umano consorzio più che per loro si potesse di dottrina immortale,
vestirono di numeri le leggi; e questo non solo nei primordi del vivere
civile, bensì a civiltà progredita, secondochè si legge, costumò Solone
vissuto sei secoli prima di Cristo. Vati presso molte religioni defunte
furono detti coloro i quali per molto tesoro fatto di notizie antiche
riuscivano, in grazia della dotta esperienza, a divinare il futuro;
ond'è che i Romani appunto commettessero ai vati di cantare il carme
secolare, come quello che, nel mentre chiudeva la porta sulle spalle del
secolo decrepito, dall'altra parte l'apriva alla faccia del secolo
giovanetto. Omero, che fra i poeti vetusti ritrae meglio degli altri la
sacerdotale indole del vate, ne ammaestra essere cosa non pure piena di
profitto ma di onestà porgere ascolto alle parole del poeta; a patto
però che le sue parole sappiano di divinità; non diverso da lui, Orazio
definiva il poeta uomo in cui splende mente divina e talento di esporre
con eloquio illustre illustri concetti. Di qui la causa per la quale si
reputa dicevole favellare di poesia dopo la religione.
Quale si deva proporre nobile assunto la poesia, Chatterton poeticamente
espresse, il quale volendo adesso significarsi con più piano sermone,
diremo che la poesia deve, secondo la occorrenza, promovere anzi tutto
la libertà della patria da qualsivoglia tirannide domestica o straniera,
celebrare le virtù cittadine, accendere nei superstiti la venerazione
degl'incliti defunti, invogliando ad imitarne gli esempi, palesare le
gioie della famiglia, renderle desiderabili se trascurate, se amate
sublimarle, esaltare la santità degli affetti, la dignità del lavoro,
sollevare i cuori all'amore di tutto quanto è onesto, gentile, decoroso
e bello. Religione, Patria, Famiglia, triade che non conosce eterodossi
nel mondo, sia materia di nobile canto al poeta civile.
Veruna scienza od arte presuma che le possa essere fatta parte più
magnifica che alla poesia; però, quanto più grandi la mercede e la
fiducia, tanto maggiore in lei l'obbligo. Quindi severissimo pende il
giudizio sopra i poeti i quali abusarono dei doni dello spirito per
pervertire coloro che dovevano letificare; e sopra tutti meritano
infamia quelli che inaridiscono i cuori soffiandoci dentro i semi del
dubbio e della disperazione. Lo Eforo abbia facoltà di tagliare quante
più corde vuole alla lira propria od all'altrui, purchè ci lasci intatte
quelle della Speranza e di Dio.
Meditando su la materia, sembra a prima vista che la dottrina del dubbio
e della disperazione abbia a nuocere meno se sprilli dal canto che dalle
altre scienze morali: imperciocchè si possa credere che il poeta si
commetta volentieri in balia dello impeto della passione, e guardando,
com'egli di frequente fa, i beni ed i mali a traverso le lacrime del
dolore e della gioia, veda gli oggetti alterati nel colore o nella
forma: inoltre la natura poetica tende al superlativo, e talora ostenta
disperazione per avere conforto, sfiducia per essere smentita:
finalmente si adoperò talvolta la disperazione artatamente per destare
con ogni maniera di punture la inerzia dei cittadini; e di vero la
umanità rinnovandosi giovaneggia sempre; ed in noi stessi provammo,
allorchè più il sangue bolliva, quanto ebbe virtù di abbrivarci con
impeto ai più subiti partiti, come alle risoluzioni più magnanime quel
provocarci che altri faceva, dicendo noi non essere da tanto, il potere
non bastarci nè il volere; chi va senz'ale si rassegni a rasentare la
terra! — Siffatte scuse poi non si addicono alle altre discipline che
procedono pacate per via di dimostrazione e di raziocinio.
Nelle storie sopra tutto questo pessimo vezzo torna pregiudicevole,
dacchè dobbiamo estimare che lo storico, dopo avere interrogato con
molta circospezione le antiche e le moderne vicende, indagato le arcane
ragioni di quelle, distinto gli errori, le colpe e le necessità, si
disponga a ordire la tela per ammaestramento dei contemporanei e dei
posteri. Se lo storico, o prima del suo pellegrinaggio traverso i
documenti della storia, o dopo, va convinto come la stirpe nostra sia
incorreggibile, e allora o perchè scrive egli? Cotesta sua è vaghezza di
gufo o di tale altro maligno uccello della notte. Forse non gli pare
abbastanza squallido il cimiterio, ond'ei venga co' suoi maluriosi
singulti ad aumentarne l'orrore? Che se poi non sentendo cosiffatta
convinzione così egli adoperi per una sua certa acrimonia di sangue o
capriccio dello spirito, allora costui meriterebbe non solo essere
bandito dal novero degli scrittori, bensì ancora dalla comunione degli
uomini.
La mente, dettando queste sentenze, trascorre spontanea a Carlo Botta,
scrittore di molta efficacia di stile, e che, malgrado la disparità dei
giudizi, non invenustamente forse potrebbesi paragonare a Paolo
Veronese. Però, quanto nelle forme del dire degno di lode molta, con
poca mistura di biasimo, altrettanto nei concetti e nella moralità della
storia reprensibile: conciossiachè sia che lo muova certa sua acerbezza
di spirito o levità d'intelligenza, procede invaghito a manifestarsi
scontento perpetuamente di tutti e di tutto, quale governo meglio si
confaccia all'umano consorzio egli non ci sa dire, anzi alla scoperta
non assolve veruno: forse talvolta in pelle in pelle sorride
all'aristocrazia, ma indi a breve anco a lei fa il viso dell'arme, e
condanna alle gemonie. Che pro ricava l'uomo dallo indefesso
travagliarsi a migliorare le sue sorti? La felicità non è fiore che
cresca in questi nostri giardini terrestri. Tali proposizioni, che
sarebbero biasimevoli nei sermoni del più spericolato fra i predicatori,
devono reputarsi indegni di storico grave. Che se egli quello che
scrisse pensò, doveva tacere, e se nol pensò fu peggio che tristo
scrivendolo, perchè bugiardo a sè, nemico altrui. E certo i generosi che
si collettarono per dargli abilità di dettare con animo scevro da ogni
sollecitudine la continuazione delle Storie del Guicciardini, nol fecero
già con lo intendimento che da lui si mandassero auspicii tanto alla
patria nefasti. È sapienza più spesso riprendere l'uomo che lodarlo,
ammaestrarlo sempre, disperarlo giammai.
Al miglioramento umano vuolsi credere non come ad una di quelle cose che
portano in fronte le parole: _adora e taci_ (imperciocchè correremmo
grandissimo rischio che per siffatta prosunzione moltissimi non
credessero punto), bensì come a dimostrazione di problema geometrico.
L'uomo nascendo porta seco molta parte di bestia, ed il negarlo è vano;
nè da questo lato trovi in lui cosa buona; se ben consideri, conoscerai
le bestie nascere naturalmente cattive, come quelle che governate dallo
istinto della voracità, sieno pure quanto vuoi mansuete, pel pasto si
osteggiano; dopo il pasto, la gelosia per le femmine partorisce le
offese. Però l'uomo possiede talenti fisici ed intellettuali per modo
estesi da trovare spediente a soddisfare i propri appetiti, e in parte
moderarli senza danno altrui; all'opposto contribuendo all'utile
universale. Ormai non fa mestieri avvertire nè meno che la
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