Viaggio al Capo Nord - 01

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VIAGGIO
AL CAPO-NORD
FATTO L’ANNO 1799
DAL SIG. CAVALIERE
GIUSEPPE ACERBI
ORA
I. R. CONSOLE GENERALE IN EGITTO

_COMPENDIATO_
E PER LA PRIMA VOLTA PUBBLICATO IN ITALIA
DA GIUSEPPE BELLONI
ANTICO MILITARE ITALIANO.

MILANO
PRESSO L’EDITORE LORENZO SONZOGNO
_Libraio sulla corsia de’ Servi n. 602_
1832.


_Opera posta sotto la tutela
delle Leggi._
COI TORCHI DI GIO. PIROTTA.


INTRODUZIONE

Vivacità di gioventù, studiosa curiosità, desiderio di singolarizzarsi,
trassero il sig. _Acerbi_ all’ardita impresa di viaggiare sino alla
estrema punta settentrionale d’Europa. Il _Capo-Nord_ era cognito per
le carte geografiche disegnate da’ Marinai, i quali avevano navigato
il Mar-glaciale. Non sapendo che altri vi fosse andato per terra,
io, disse adunque il sig. _Acerbi_, sarò il primo a dire con verità:
ho veduto il _Capo-Nord_. I viaggi di _Regnard_, di _Maupertuis_, di
_Rudbech_, di _Linneo_, riguardavano paesi di quelle lontane e fredde
regioni; ma non comprendevano quel famoso e distintissimo punto del
nostro Continente. Non è quindi meraviglia se quando il sig. _Acerbi_
pubblicò in Inghilterra il suo _Viaggio_ al _Capo-Nord_, venne in
giusta rinomanza; e l’incontro che il suo libro ebbe presso gli
Inglesi, i viaggi de’ quali hanno tanto estesa la scienza geografica,
la storia naturale, ed altri importantissimi rami dello scibile umano,
ben presto fece che fosse riprodotto in francese. L’accoglimento che
questo libro ebbe poscia in Francia, non fu pel sig. _Acerbi_ meno
onorevole di quello che avea avuto in Inghilterra.
Ma chi lo crederebbe? In Italia, ove pure si va in traccia da verso
quaranta anni di ogni novità di questo genere, nissuno pensò a far
conoscere questo viaggio del sig. _Acerbi_, forse perchè si aspettasse
che ne desse un’autentica edizione egli medesimo nella lingua nostra.
Il che se non ha fatto, ciò debbesi con molta probabilità attribuire ad
altre occupazioni a cui ritornato in patria egli si dedicò, ed a quella
ripugnanza che i migliori ingegni sovente hanno a ritornare sulle loro
cose già fatte, ed alla mutazione seguita nelle circostanze tanto sue
proprie, quanto pubbliche.
Intanto non era giusto che la nostra letteratura fosse defraudata
di questa bella ed interessante opera. Perciò ne adorniamo la nostra
_Raccolta_, sicuri che la diligenza nostra verrà commendata.
Ma ciò facendo, d’accordo coll’illustre Autore, noi abbiamo data
un’altra forma all’opera. Molte cose scritte da lui ne’ tre suoi volumi
non sono più pel nostro tempo, altri avvenimenti essendo accaduti
ne’ paesi de’ quali egli parlava. Molti uomini fiorivano allora ne’
luoghi da lui visitati, che meritavano particolare menzione, i quali al
presente sono confusi nella massa della storia. Viaggiatori posteriori
a lui hanno più di lui copiosamente parlato di ciò, che interessa varii
rami della storia naturale, sicchè riuscirebbe ripetizione inutile in
questi giorni ciò, ch’egli a quel tempo con tutto merito aveva scritto.
Noi adunque, consultando il genio dei più, abbiamo levato tutto il
superfluo; ma abbiamo religiosamente conservato tutto quello che rende
veramente preziosa l’opera sua, rimanendo d’altra parte libero a chi
più particolarmente s’interessasse di certe notizie riguardanti piante,
uccelli, insetti e tali altre cose, il consultare l’opera sua di tre
volumi; e il compendio, che ne presentiamo in questo solo volume, non
la farà riuscire meno grata; massimamente che vedute le diverse cose
da altri scritte, vicendevolmente contraddicendosi intorno all’indole,
agli usi ed ai costumi de’ Laponi, con esatti confronti e con
giusta critica abbiamo potuto convincersi avere il sig. _Acerbi_ con
imparzialità pienissima, con esatta verità, e con diligenza singolare
studiato ed espresso ciò che gli si è presentato. Ma ciò basti.


VIAGGIO AL CAPO-NORD


CAPO PRIMO.
_Partenza da Helsinbourg. Gottembourg, e costumi de’ suoi abitanti.
Canale di Trolhatta. Stockholm. Descrizione di questa città.
Indole, ed usi degli Svedesi._

Il sig. _Acerbi_ incominciando il racconto del suo Viaggio prende le
mosse da Helsinbourg dirigendosi a Gottembourg. Questa è la seconda
città della Svezia, assai mercantile. Conta 15 mil’anime; e nel suo
interno si rassomiglia assai alle città olandesi. Giace poi sopra
un suolo terribilmente sterile, coperto di piccole roccie simili al
basalto. Dicesi, che vi si vive più piacevolmente che a Stockholm,
trovando dappertutto urbanità, ospitalità, e niuno impaccio di
formalità e di etichetta. Le donne sono belle, graziose, amabili, e
di conversazione piacevolissima. Quando una persona è in Gottembourg
invitata a pranzo, l’uso porta, che si trattenga in quella casa
tutta la sera, e goda di una buona cena. Ciò si pratica in tutta la
Svezia. Un altro uso è che al momento che si siede a tavola, ognuno
a bassa voce faccia devotamente una preghiera; e così pure un’altra
nell’alzarsene. Ne’ pranzi di cerimonia gli Svedesi fanno girare una
larga tazza d’argento piena di vino di Sciampagna, di cui ognuno gusta
facendo un brindisi. Ciò si eseguisce con certe cerimonie, di cui i
forestieri vengono precedentemente avvertiti. Chi per avventura non vi
si conformasse, dovrebbe bere tutta la tazza.
A 50 miglia da Gottembourg, sulla strada che va a Stockholm, s’incontra
il canale di Trolhatta, superbo capo d’opera dell’ardimento umano. Esso
è aperto a forza di polvere da cannone in mezzo a scogli durissimi, per
istabilire una comunicazione tra il mare del Nord e il lago Wennern, il
maggior lago della Svezia, lungo 89 miglia, e largo 49. Questo canale
è fatto per facilitare la navigazione fino alle cataratte del fiume
Gotha; ed è lungo tre miglia, largo 36 piedi, e profondo in alcuni
luoghi più di 50, con 9 chiuse, e parecchi bacini. La vista di questo
canale, e l’aspetto delle cataratte, che per mezzo del medesimo si sono
evitate, formano uno spettacolo sorprendente; e con ragione si tiene in
Trolhatta un gran libro, in cui i forestieri sono invitati a scrivere i
loro nomi, e qualche frase allusiva alla impressione, che le cataratte,
e gli altri oggetti del contorno hanno fatto sull’animo loro. Fra le
tante iscrizioni, che il sig. _Acerbi_ vi lesse, una fu questa: _Iddio
benedica questa buona, e valorosa Nazione!_ e v’era sottoscritto
_Kosciusco_.
Da Gottembourg a Stockholm la campagna è coltivata, come pure in tutta
la Svezia, a segala, ad avena, a piselli, a fave, e ad un poco d’orzo.
Nella Scania, che chiamasi il paradiso della Svezia, si coltiva anche
un poco di frumento. Il sig. _Acerbi_ giunse a Stockholm la sera dei 19
di settembre del 1798.
Noi non dobbiamo tacere la sorpresa ond’egli e il suo compagno
di viaggio furono colpiti, quando la mattina seguente andarono
a presentare alcune lettere commendatizie, delle quali si erano
proveduti. Essi trovarono, che le persone, a cui erano diretti,
sapevano tutti i fatti loro, cioè il loro arrivo, il genere di vettura,
di cui si eran serviti, la strada che aveano fatta, l’alloggio che
aveano preso, i nomi, e la qualità de’ loro domestici, l’abito che
portavano, e tante e tante particolarità simili. La capitale della
Svezia di questa maniera veniva ad annunciarsi loro coi pettegolezzi
delle più piccole città.
Ma poche città intanto sono in Europa situate così bene come Stockholm,
tanto per le occorrenze del commercio, quanto pel diletto che reca
la varietà degli oggetti, che i suoi contorni presentano. Essa giace
sopra sette, od otto isole, circondate tutte, quali da acque dolci
discendenti dal lago Malar, quali da acque salse refluenti dal mare.
Quasi tutte hanno il loro nome particolare; ed è famosa nella storia
quella di Blasiiholmen, oggi attaccata al continente, per l’orribil
fatto accaduto nel 1386 sotto il regno di _Alberto_. Due fazioni
atrocemente perseguitavansi allora, quella de’ Cappelli, e quella delle
Berrette; e la prima fece abbruciar vivi dugento patrioti svedesi
della seconda!! — L’aspetto di Stockholm è superbo, spezialmente
mirandosi dal ponte detto del Nord. Tutto ad un colpo si presenta allo
sguardo una massa straordinaria di campanili, di palazzi, di rupi,
d’alberi, di laghi, di canali, coronata poi dal castello che domina
su tutta la città; e tutta la città da quel ponte si discopre quanto
è lunga e larga, e tutta la facciata pur si vede minutamente di quel
castello, la cui architettura è semplice, nobile, maestosa, senza
nissuno di quegl’inutili ornamenti, che sfigurano tante grandiose
fabbriche simili. La immaginazione attonita a tale prospettiva può
appena sostenere siffatto incanto; e mentre è sì vivamente colpita
dall’immenso quadro, che ha d’innanzi, ove il lusso, le arti, il
commercio, l’industria pajono essersi accordati insieme per sorprendere
i sensi, il fracasso delle onde che si precipitano attraverso delle
arcate del ponte suddetto, imprime a questo spettacolo un certo
carattere selvaggio, che toglie ogni paragone.
Nell’inverno questo spettacolo cambia. I ghiacci fanno sparire tutte
le barriere, che nella estate le acque frappongono tra gli abitanti.
Non più isole: una sola pianura si presenta, senza ostacolo alcuno
aperta a slitte, a carri, a carrozze, a vetture d’ogni specie, le quali
corrono, volano per ogni verso, e s’incontrano, e s’incrociano senza
mai toccarsi; tanta è la sveltezza, colla quale a vicenda si scansano;
e tu le vedi aggirarsi intorno a vascelli, e navicelli d’ogni specie,
immobili in mezzo al ghiaccio. Su quel ghiaccio poi v’ha un popolo
immenso, che corre scivolando colla rapidità del baleno; che in un
momento apparisce, e sfugge. Le acque che bagnano le scuderie del Re, e
quelle che si precipitano sotto le arcate del ponte del Nord, sono le
sole che tolgansi al rigore dell’inverno. Esse bollono gorgogliando,
e s’alzano in bianca spuma cangiandosi maestosamente nell’atmosfera
in vapori, che poi condensati in una polvere di cristallo, presentano
allo sguardo sorpreso una vera pioggia di diamanti, che i raggi solari
tingono coi brillanti colori del topazzo, del rubino, e d’altre pietre
preziose. Gli abitanti de’ paesi meridionali faranno fatica a credere
che la bellezza di Stockholm riceva un lustro maggiore dall’inverno; e
che le comodità, e i diletti della vita dell’inverno vi si accrescano.
È difficile dire quanti scherzi, quante varietà di apparenze produca il
ghiaccio, che dappertutto in sì diverse maniere si attacca a muraglie,
a tetti, ad alberi, a carri, ad ogni cosa, che o sia immobile, o sia
mossa.
Non meno singolare riesce il soggiorno di Stockholm in estate. Ne’
lunghi giorni di quella stagione, quando i crepuscoli facendo in
certo modo sparire la notte, dispensano dal consumare olio, o cera,
le persone agiate passano alla campagna, e vi si trattengono fino
all’autunno. Allora via ogni economia; e vi si vive con più lusso, e
grandezza che in città. Le abitazioni de’ signori in campagna, oltre
l’amenità del sito, sono abbellite con tutti i mezzi dell’arte, e
fornite di tutti i comodi: tra i quali non mancano le serre, in cui
fannosi maturare le pesche, gli ananassi, l’uva, ed altri frutti
delicati, a dispetto del clima. I vini d’ogni specie, i liquori rari,
ed altre simili pregiatissime cose vengono profuse alle tavole de’
gentiluomini, de’ ricchi fabbricatori e mercatanti. Ivi non hanno luogo
nè le cerimonie, nè i formolarii che s’usano in città. — Questa bella
libertà si gode spezialmente nelle case de’ commercianti: i nobili sono
alquanto più contegnosi; e que’ moltissimi che stanno di piè fermo in
campagna, tengono anch’essi assai alla vanità del loro grado.
Gli abitanti di Stockholm usano ancora di fare delle corse o in
vettura, o per acqua ne’ contorni; principalmente al Parco reale, a
Moiksdal, ad Haga, a Drottingholm, e a Carleberg. Drottingholm, cioè
l’isola della Regina, è lontana da Stockholm sei miglia sul lago Malar:
è un palazzo ben situato, fabbricato superbamente, magnifico, ed ornato
di vasti giardini. Lo decorano varie statue d’uomini, e di animali, ed
alcuni bei vasi, la più parte di stile della scuola di Firenze, portati
via da Praga nella guerra famosa de’ XXX anni. In questo palazzo v’ha
una ricca biblioteca, un gabinetto di storia naturale, uno di medaglie
antiche e moderne, ed una galleria di quadri originali delle scuole
fiamminga, olandese e italiana. Ve n’ha un’altra piena di pitture
rappresentanti le battaglie e le vittorie dei Re, e Principi svedesi.
A proposito della biblioteca, tra varii MSS. curiosi ve n’ha uno della
celebre regina Cristina, intitolato _Mélanges de pensées_, sopra una
pagina del quale Carlo XII scrisse di mano propria, essendo ancora
fanciullo, _vincere, aut mori_.
Si crederebbe che a Stockholm un Italiano l’inverno dovesse morir di
freddo. Io, dice il sig. _Acerbi_, posso assicurare, che quantunque
qualche volta il termometro di Celsio, fisico naturalista svedese, che
accompagnò _Maupertuis_ nel suo viaggio a Keugis, marcasse il freddo
a 24 gradi al disotto del gelo, soffrii meno il rigore del freddo,
di quello che tal volta lo abbia sofferto in Italia. Dappertutto si
mettono stufe ingegnosamente costrutte a modo, che con pochissimo
combustibile diffondano il calore quanto abbisogna. Di vestiti non
si fa economia, che quelli che servono ad otto, o dieci svedesi,
empirebbero un’anticamera. Ho veduto de’ Francesi, inimici delle
pellicce, mettersi indosso fino a tre redingotti. Due paja di guanti,
calosce, una canna, sono cose indispensabili quando s’esce a piedi.
In generale le Svedesi sono belle; ma belle all’uso del Nord: cioè di
una fisonomia senza espressione. Essendo gli uomini del paese poco
galanti, esse passano tutta la giornata o sole solette, o con altre
donne; e la loro conversazione, qualunque sia la educazione loro, è
senza interesse; e dandosi molta premura d’acconciarsi in ogni maniera,
non fanno ciò che per superare le altre in eleganza, e in brio, anzichè
per desiderio di piacere, o di fare conquiste. Amano però gli omaggi,
e le lodi; e mettono molta importanza in essere dette le belle del
Nord. La loro passione predominante è l’ottenere la distinzione, e i
riguardi pubblici: ed è con questo mezzo che si giunge ad ispirar loro
sentimenti di tenerezza, di amicizia, di amore, de’ quali infine sono
capaci quanto quelle che vivono in climi più caldi.
La riserva però che si osserva tra le donne svedesi di alto grado, non
si trova tra quelle di stato inferiore; e ciò nasce dall’essere queste
in circostanze diverse. Non trovandosi a Stockholm donne di partito,
come si trovano nelle altre grandi città d’Europa, gli uomini hanno
favorite, le quali pretendono di avere un certo grado nella Società;
e bisogna invero sospirare, e corteggiare del tempo tali donne per
affezionarsele. Se non che malgrado il loro contegno finiscono con
avere due o tre amanti alla volta. E non è forza di temperamento,
che a ciò le guidi: è avarizia. Ma insieme sono estremamente gelose
delle esterne forme di considerazione; e dai loro amici, e favoriti
richieggono un’attenzione, di cui un forestiere giustamente si
meraviglia. Guai a quel loro amante che esitasse a salutarle in un
luogo pubblico, o a loro baciar la mano! La facilità poi d’avere
apertamente delle relazioni con questa sorte di donne senza che la
morale pubblica rimanga offesa, fa che in Isvezia non si conosca
gelosia.
In Isvezia tutta la giornata si consacra agli affari; e la sera al
giuoco: rare volte si passa con donne. Il giuoco per gli Svedesi è una
passione universale, e furiosa. Raccontasi il seguente caso. Uno de’
più distinti signori vide un giorno passata l’ora del pranzo senza che
apparisse alcun principio de’ soliti preparativi; e discese verso la
cucina per sapere onde ciò provenisse. Egli trovò tutta la sua gente
occupata sì fortemente in una partita di giuoco, che nissuno s’era
avveduto che l’ora dei pranzo fosse passata. Il maestro di casa teneva
accordo cogli altri; e si mise di mezzo supplicando Sua Eccellenza a
tollerare alcun poco, giacchè la partita era per finire. Il signore
si arrese alla istanza: ma volle che il maestro di casa andasse
ad apparecchiare la tavola; e prese egli medesimo il posto di lui,
continuando il giuoco cogli altri!!
I vicini degli Svedesi li chiamano i Guasconi della Scandinavia. Questa
imputazione, effetto della gelosia, e dell’antipatia, che tante volte
hanno disuniti popoli, che la natura, e il loro interesse volevano anzi
intimamente uniti tra loro, non vuole dir altro, se non che gli Svedesi
sono animati dal desiderio della gloria, e da quello di distinguersi
al disopra delle altre qualità che predominano generalmente ne’ cuori
di tutti i popoli valorosi, generosi, ed arditi. La Svezia è piena
di stabilimenti scientifici e letterarii; ed ha avuti, ed ha uomini
di merito distinto. Eccettuate poi l’Irlanda, la Scozia e Ginevra,
non v’ha in Europa paese, in cui l’istruzione sia generalmente sparsa
nel popolo quanto che nella Svezia. S’insegna a leggere, a scrivere,
e far conti a tutti, sì nelle città e ne’ villaggi, sì in qualunque
più piccolo gruppo di paesani, senza eccezione, o distinzione veruna.
A questa generale istruzione i paesani svedesi debbono le belle
qualità che li distinguono, la franchezza, la lealtà, l’umor lieto,
l’ospitalità, il cuor buono, il coraggio, e lo spirito.
Oltre le accademie di scienze, di lettere e d’arti, la Svezia ha
eziandio parecchie università; ed è un problema difficile a sciogliersi
questo, se altra nazione avesse mai fatto tanti progressi nelle
scienze, e nelle arti liberali e meccaniche, quando avesse dovuto, come
la Svezia, trionfare del suolo, del clima, delle discordie domestiche,
e della gelosia di vicini orgogliosi e potenti.


CAPO II.
_Partenza da Stockholm per Grisselhamn. Condizione di chi fa questo
viaggio. Traversata sul ghiaccio del mare ed accidenti occorsi.
Vitelli marini. Paesano svedese e suoi ragionamenti. Isole di
Aland e loro abitanti._

Ai 16 di marzo del 1799 il sig. _Acerbi_ partì sulle 7 ore da
Stockholm, ben avviluppato egli e i suoi compagni in pellicce di
pelli d’orso della Russia, colla testa, le mani e le gambe difese da
berretta, da guanti e da stivali foderati di pelli, per difendersi
dal freddo, accolti entro a slitte di paesani, la vettura meglio
conveniente di ogni altra, e ch’erano sicuri di poter trovare
ad ogni posta sino ad Abo. Essi giunsero la sera a Grisselhamn,
villaggio distante da Stockholm 69 miglia all’incirca. Nulla di
notabile trovarono in questa corsa per un suolo nè montuoso, nè piano
totalmente, se non sia una quantità di volpi, le une ferme, le altre
tranquillamente moventisi sulla superficie nevosa, senza paura, e senza
diffidenza di sorte: solo che, mentre imperterrite guardavano le nostre
slitte al momento che queste passavano o si fermavano, davansi alla
fuga. Per fare poi che si arrestassero, bastava trarre un fischio,
chè allora volgevansi indietro; e fissavano gli occhi su chi avea
fischiato.
Chi viaggia da Stockholm a Grisselhamn, dice il sig. _Acerbi_, non
deve pensare nè a pranzo, nè a merenda, nè a dormire. La ragione è
chiara: per tutta questa strada non v’è ombra d’osteria; e i paesani,
le cui capanne s’incontrano, sono povera gente, che non ha più che
del pane, del latte e de’ salumi: cose, che i viaggiatori non possono
apprezzare gran fatto. Il pane è in forma di bracciatelle, fatto di
segala e d’orzo, ed insipidissimo: rari poi sono i pomi di terra, non
avendo costoro fino al presente imparato il modo pur tanto facile di
preservarli dal gelo. La birra e l’acquavite sono per essi oggetti
di lusso. Si contentano adunque, oltre quel pane e il latte, di carne
salata, o di pesce salato od affumicato.
Grisselhamn è una piccola città di posta, ove tanto d’inverno, quanto
di estate i viaggiatori si fermano nel loro cammino da Svezia in
Finlandia. In inverno il passo per mare è pericoloso, se la stagione
non sia mitissima; ed invece bisogna andare per terra a Tornea. Nulla
di notabile è in Grisselhamn; non commercio, non manifatture, non casa
ove alloggiare; e la casa sola che sia fatta di mattoni, è quella del
maestro di posta, circondata di casupole di legno.
Quando un viaggiatore vuol passare d’inverno in Finlandia,
attraversando il golfo sul ghiaccio, i paesani l’obbligano a
raddoppiare il numero de’ cavalli, che avea al giungere in Grisselhamn.
Noi dovemmo dunque uniformarci all’uso, il quale non è altrimenti
un’angheria, ma l’effetto di una precauzione prudente. Questa
formidabile traversata sopra una immensa pianura di ghiaccio è di
43 miglia, 30 delle quali si fanno senza toccar terra. Un siffatto
viaggio sopra tanto vasto spazio di mare gelato offre per un abitante
de’ paesi meridionali un colpo d’occhio straordinario; e confesso che
prima di conoscerlo, me n’avea fatto un’idea falsissima. M’aspettava
semplicemente di avere a scorrere una pianura senz’altro limite che
quello dell’orizzonte, il cui uniforme aspetto m’ispirerebbe una
fastidiosa melanconia, e la cui superficie non mi presenterebbe nissun
pericolo. Ma come e quanto la mia sorpresa, l’ammirazione, mista
d’inquietezza, e dirò pur di terrore, ivano crescendo a mano a mano
che ci andavamo allontanando dal luogo, da cui eravamo partiti! Questo
mare gelato, dapprima tutto liscio come un cristallo, insensibilmente
diventava disuguale, aspro, ondeggiato, in quanto esprimeva i flutti,
che ne aveano solcata la superficie. Vedevasi, per dir così, la mano
dell’inverno, che toccata l’acqua schiumante, l’avea in un istante
fermata, indurita, convertita in ghiaccio; e di ghiaccio fattine i
cavalloni, che dianzi la procella alzava furiosamente: in varii siti
que’ cavalloni ammucchiati gli uni sopra gli altri, presentavano
l’aspetto di enormi rupi, le cui fronti scoscese, come sospese in aria,
prendevano la somiglianza di piramidi e di guglie, e minacciavano di
cadere al basso, e di coprir tutto sotto le loro ruine. Quindi per
quanto l’occhio potesse discernere, non vedevansi che colossi di un
cristallo trasparente, spezzati e dispersi, ove coperti di bianchissima
neve, ove splendenti per la riflessa luce, ed ove mostrantisi tinti
di azzurro: nel complesso loro formando un terribile spettacolo di
spavento e di orrore.
Nè poche erano le difficoltà, poche le fatiche che i conduttori e i
cavalli andavano incontrando per ritrovare la strada sovente perduta
in mezzo ai tanti giri e alle tante diversioni, ch’erano obbligati di
fare per iscansare que’ gruppi di ghiaccio, che qua e là sorgevano
per attraversarci il cammino. A malgrado poi di tutte le cure della
prudenza, e di tutte le precauzioni della paura, ad ogn’istante
le nostre slitte rovesciavansi; e servivano or l’una, or l’altra
di segnale alla carovana perchè si arrestasse. Ma una circostanza
impossibile a prevedersi venne ad accrescere i nostri pericoli. La
vista delle nostre lunghe pellicce fatte di lupo o d’orso di Russia,
e l’odore che n’esalava, spaventarono qualcuno de’ cavalli a tanto,
che li trasse a furore. Accadde ciò singolarmente quando rovesciata la
slitta, occorrendo di uscirne per drizzarla, venivamo ad avvicinarci
a’ cavalli, i quali per cagione di quelle pellicce confondendoci
cogli animali, da cui erano tratte, dibattevansi tra le stanghe e le
redini, mordevano il freno, cercavano in ogni maniera di fuggire con
immenso spavento de’ viaggiatori e de’ conduttori. In quel frangente il
paesano per paura di perdere il suo cavallo in mezzo a tanto deserto,
s’incatenava, dirò così, alla briglia; e piuttosto che separarsi dal
cavallo, lasciavasi a costo della vita strascinare per que’ rottami
di ghiaccio, le cui punte sovente gli aprivano larghe ferite sulle
membra; e durava in quella funestissima condizione, fin tanto che
stanco il cavallo pe’ suoi inutili sforzi, e scoraggiato dai crescenti
ostacoli, si fermasse. Allora noi rientravamo nelle slitte, mentre il
conduttore istruito dalla esperienza prendeva in fine la precauzione
di bendare gli occhi al cavallo. Uno però di questi animali, il più
selvatico e focoso della carovana, spaventato scappò; e ci toccò
vedere il povero suo conduttore, che dopo essersi lasciato strascinare
attraverso de’ ghiacci per lunga corsa, non potendo più resistere
ai dolori che lo laceravano, ne abbandonò la briglia. Fatto allora
libero quel cavallo raddoppiò la rapidità della corsa; imperciocchè
il rumore, che per rimbalzi fra que’ ghiacci faceva la slitta, che
seco traeva, accrescendo il suo spavento, pareva che gli prestasse
vere ali alla fuga. Noi lo seguimmo lungo tempo cogli occhi, a misura
che andava internandosi nell’orizzonte; e lo vedevamo di tratto in
tratto sulle sommità de’ flutti gelati come una macchia nera, la quale
insensibilmente s’impiccioliva, finchè in ultimo disparve affatto.
Allora poi conoscemmo come la prudenza voleva che si avesse qualche
cavallo di più per siffatte occorrenze; e conoscemmo nel tempo stesso
ne’ pericoli di quella traversata quanto una tale precauzione fosse
stata negletta. Il padrone di quel cavallo montò sopra una slitta di
riserva, sperando di ritrovarlo correndo sulle traccie di esso; e noi
continuammo il nostro viaggio verso le isole di Aland, prendendo, per
quanto ci era possibile, il mezzo de’ passi più spianati, non però
senza esserci rovesciati di nuovo, e senza essere ancora in pericolo di
perdere l’uno o l’altro de’ nostri cavalli: cosa che ci avrebbe messi
in un estremo imbarazzo.
Difficilmente può figurarsi la tristezza che infonde la solitudine di
quell’immenso campo di ghiaccio. In sì vasto spazio niun essere vivente
si presentò a’ nostri sguardi; non uomo, non quadrupede, non volatile:
ivi la natura era morta. Che abbandono! che isolamento! che silenzio!
Qualche volta venti in contrasto tra loro cozzando impetuosi su quelle
rupi gelate, mettevano un fischio profondo, che propagavasi nello
spazio, e vi si estingueva: qualche volta l’aria condensata in quelle
masse gelate si apriva violenta una strada, e le spezzava con orribil
rimbombo, che in un momento rompeva il cupo silenzio spaventosamente, e
in un momento quel silenzio repristinavasi, e diventava più terribile.
A tante cagioni di malinconia che opprimeva l’anima, a tanti pericoli
che ad ogni passo moltiplicavansi, bisogna aggiungere l’incontro
frequente di profonde crepature, che presentano all’occhio l’abisso
delle acque coperte di ghiacci. Desolante è l’apparizione di quelle
crepature, massimamente perchè non aspettate; e talune obbligano a fare
un ponte di tavole per valicarle.
Noi abbiam detto che in queste orribili solitudini tutta la natura
presentasi come morta. Ciò non è esatto. V’hanno creature viventi,
che ne amano il soggiorno; e queste sono le _foche_, o direm meglio,
i vitelli marini. Nelle caverne de’ ghiacci depongono i frutti de’
loro amori; ed insegnano a’ loro piccoli a sopportare i rigori della
più cruda stagione. Le madri ve li depongono nudi affatto, come sono
nati; e i padri hanno cura di assicurarsi di qualche apertura, per la
quale possano avere pronta comunicazione coll’acqua. Al comparire di
un cacciatore corrono a salvare sè stessi, le loro femmine, la loro
prole per quella via. Fuori di quel pericolo, per quell’apertura vanno
a procacciar cibo per sè e per la famiglia; e questo cibo è pesce.
La maniera con cui i maschi fanno quell’apertura, è singolare. Nè
denti, nè zampe v’hanno parte: servonsi del solo loro alito caldo, che
dirigono diligentemente e con intensa perseveranza sul medesimo punto,
onde scioglierne il ghiaccio. I paesani delle isole vicine sono i più
fieri nemici di queste bestie; perciocchè quando essi ne scuoprono
qualcheduna, si mettono in imboscata a qualche distanza, appiattati
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