Viaggio al Capo Nord - 07

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vicendevolmente finchè fossero satolli. In tutto questo niun’altra
regola potemmo vedere da costoro osservata, se non quella dell’appetito
e dell’istinto. Quando non erano occupati a mangiare, dormivano,
o pipavano. Avendo due di costoro preferito il pipare al dormire,
cercammo di legare con essi discorso. Ci domandarono se uno di noi
fosse il re, o un commissario del re. Si mostrarono curiosi di sapere
perchè fossimo penetrati nel loro paese, e cosa fossimo andati a farvi.
Io pensai che sospettassero in noi degli emissarii mandati per prendere
cognizione di loro, del loro stato, delle loro ricchezze e della loro
condotta; e da una folla di cose, che il nostro interprete non sempre
facilmente intendeva, ci parve poter comprendere che cercavano di
convincerci di loro estrema povertà. Nè le loro risposte alle nostre
domande erano di quella franchezza, che potevamo attenderci dalla loro
semplicità. Le passioni che sì spesso allontanano gli uomini dal buon
senso, e dalla verità, danno della politica e della destrezza al più
stupido; e non v’è passione più atta a produr questo effetto, quanto
l’amor proprio e la cura interessata di conservare la propria roba.
Ora bisogna sapere che quando i re del Nord mandarono missionarii
in quelle deserte regioni per predicarvi l’evangelo, non solamente
que’ zelanti apostoli fecero pagare ai miserabili indigeni le spese
del loro viaggio, ma diedero inoltre a intender loro che dovevano
ricompensarli delle pene che a riguardo d’essi s’aveano prese. Quel
popolo errabondo fino allora era vissuto senza ministri di culto, e
senza alcun peso a questo titolo. Invocava al bisogno, e quando così
gli piaceva, un certo numero di Dei che non gli costavano niente
fuori che il sacrifizio di una renna, la quale non veniva offerta
che di tempo in tempo, e di cui agli Dei non toccavano che le ossa
e le corna, poichè la carne mangiavasi dall’offerente. Si può quindi
presumere che non senza rincrescimento que’ poveri Laponi si vedessero
sforzati a dividere i loro beni con gente straniera, che non capivano
in che potesse loro essere utile. Ma deboli, indolenti, poltroni
per carattere, e per fisica costituzione; d’altra parte dispersi e
disuniti in virtù della loro maniera di vivere, attaccati puramente
alle loro greggie ed incapaci di combinare alcun mezzo di resistenza
al dispotismo, credettero con sommissione, e senza opposizione veruna,
a tutto quello che a’ quei zelanti stranieri piacque di dare loro ad
intendere; e per salvare il resto piegaronsi a dare a coloro una parte
del loro avere. Il Lapone ignorante e povero pagò con rassegnazione
le requisizioni de’ missionarii, i quali in ricambio gli promisero la
felicità di un altro mondo, che senza dubbio per uomini sì limitati di
mente non poteva consistere che in bere acquavite dalla mattina alla
sera. Ma l’interesse apre gli occhi anche ai più rozzi uomini. I Laponi
non potevano concepire per qual ragione, e meno poi per qual diritto
dovessero essi dividere quanto aveano cogl’inviati di un governo, la
cui polizia, le cui leggi, la cui giustizia non erano loro di alcuna
utilità. Ed in fatti non consideravano i riformatori ed altri inviati,
che come ladroni, che preferivano di vivere agiatamente a spese altrui,
piuttosto che correr dietro con tanta fatica alle renne, ed occuparsi
nella caccia e nella pesca. Essi non potevano sperare nè protezione,
nè profitto da persone, le quali infin de’ conti bevendo e mangiando,
consumavano provvigioni bastanti a cento di loro per sussistere. Così
la pensavano i veri Laponi, vale a dire quegli uomini erranti, i quali
contenti dei deserti, ove sono nati, stannosi ne’ recinti delle loro
montagne, e non si accostano mai abbastanza alle nazioni incivilite
per acquistare qualche cognizione sulla forma delle loro costituzioni.
Liberi per diritto imperscrittibile di natura, non concepiscono punto
la necessità di leggi, atteso il modo con cui vivono. Il paese che
abitano, non converrebbe ad alcun’altra razza d’uomini. Essi trovano
nella carne delle renne, e in un vegetabile che ogni animale rigetta,
il nudrimento ad essi adattato. Società? la trovano nella unione di
alcune famiglie, avvicinate da bisogni comuni; e quando accade che
due famiglie di questo genere si trovino sul medesimo suolo colle loro
greggie, v’è spazio bastante perchè l’una si accosti all’altra, e le
tenga il discorso che _Abramo_ tenne a _Lot_: _Se tu prendi a mano
manca, io andrò a mano dritta; e se tu andrai alla dritta, io andrò a
manca._
Noi stentammo molto a persuadere que’ Laponi, che non eravamo nè
re, nè inviati, nè missionari; ma persone da curiosità, e da bisogno
d’istruirci, condotti in quelle loro contrade. Per essi anche queste
erano idee astratte, pienamente incomprensibili. In tutti però i
discorsi, che passarono fra essi e noi, non potemmo notare in essi
il minimo indizio di una credenza religiosa. Nè quando mettevansi a
mangiare, o aveano finito il loro pasto; nè quando andavano al riposo,
o la mattina si alzavano, li vedemmo mai alzar gli occhi al cielo per
ringraziare il Dio benefattore, che provvedeva ai loro bisogni.
Cercando noi di stabilire qual potess’essere il calore del sole a mezza
notte, tempo in cui colà non è alto sull’orizzonte più di due o tre
de’ suoi diametri, volemmo provare se potessimo accendere le nostre
pipe con un cristallo. I Laponi meravigliaronsi fortemente, vedendo
come tosto le nostre pipe fumarono; e noi tememmo che ci tenessero
per tanti stregoni. Per lo che domandammo loro se pensassero che tra
essi fossero uomini eccellenti in questo genere di cognizioni; ed
avevamo infatti udito molto parlarsi di stregoni di Laponia. Il fatto
è però che codesti nostri Laponi ci dissero di no; aggiungendo che
s’inquietavano poco assai se ve ne fossero, o non ve ne fossero. A
tutte le ricerche che loro facevamo, rispondevano coll’aria della più
grande indifferenza, e di un tuono da far credere che fossero stanchi
della insipida nostra conversazione. Anzi quelle ricerche nostre non
facevano che svegliare la loro diffidenza e inquietezza; e forse forse
la persuasione che fossimo veramente commissarii mandati dal Governo. E
quando loro domandammo ove fossero le loro renne, e quante ne avessero,
ci risposero essere poverissimi; che ne aveano possedute ventiquattro,
ma che loro non ne rimanevano più che sette, essendo le altre state
divorate dai lupi. E ciò era vero; e di tale disastro de’ Laponi noi
avevamo udito parlare in Uleaborg.
È un singolar fenomeno questo, che il numero de’ lupi in Laponia siasi
aumentato successivamente ciascun anno dopo il cominciamento della
guerra in Finlandia. Si sono allegate varie congetture per ispiegarlo:
io credo che il miglior partito sia quello di aspettare lumi migliori,
e sul presente sospendere ogni giudizio.
Intanto ripigliammo il viaggio per giungere a Kantokeino animati dal
pensiero che non avremmo più a sostenere i tanti ostacoli congiunti
col risalire correnti di fiumi; perciocchè il fiume che avevamo
d’avanti, guidava le sue acque verso il Mar-glaciale; e le cataratte
del Pepojovaivi non erano tali, a cui non potessero bastare i nostri
Laponi, ancorchè deboli, goffi, e facili ad imbrogliarsi per ogni
minimo intoppo, che incontrassero.
All’atto d’imbarcarci sul Pepojovaivi lasciammo sulla sua sponda la
ragazza, di cui ho già parlato. Avevamo due battelli, e tre Laponi
stavano al servizio di ciascuno di questi: uno d’essi nuotava in
avanti, un altro teneva il remo a foggia di timone, e il terzo era
continuamente occupato a gittar fuori del battello l’acqua. Costoro,
senza che noi ce ne accorgessimo fecero una diversione con animo di
andar a vedere alcune reti da essi piantate un giorno o due prima.
La diversione consisteva in avere lasciato il corso del fiume, e in
essersi internati nell’alveo di uno minore, che in quello metteva
foce. Per darci poi ragione della cosa, risposero d’aver fatto, e di
fare ciò che conveniva; e che ci avrebbero in poco tempo condotti a
Kantokeino. Non avendo nè pratica, nè carta, con cui regolarci, dovemmo
starci al loro detto: ma non tardammo a vedere ch’era loro intenzione
raccogliere il pesce trovato nelle reti: le quali reti vedemmo in molte
parti squarciate, ed il pesce uscitone: ma tanta era la quantità del
pesce in quelle acque, ch’essi ne presero in gran copia in tutte le
reti che si erano conservate intere. Usano i Laponi tenere sempre le
reti in acqua, e quando hanno bisogno di una certa provvigione, vanno
alle reti, e prendono quello, che sono già sicuri di trovarvi, e lo
seccano all’aria, e al sole. Ma qual differenza tra questi pescatori,
e quelli dell’isola Kintasari! I secondi tengono nel miglior ordine
tutti gli utensili necessarii; e in quanto alle reti diligentemente le
asciugano tratte che le abbiano dall’acqua: i primi le lasciano marcire
nell’acqua. Ma que’ di Kintasari erano Finlandesi passati in Laponia;
quelli, che di presente avevamo, erano Laponi in tutta l’estensione del
termine.
Noi arrivammo finalmente a Kantokeino, situata al confluente del
Pepojovaivi, e dell’Alten, dopo un viaggio di 40 miglia dal luogo,
d’onde eravamo partiti. Nel corso seguito del Pepojovaivi incontrammo
diversi laghi, o spazii di alluvioni di questo fiume, i quali
presentano amenissime prospettive, per la quantità di belle betulle,
che non solo s’alzano superbe sulle sponde, ma sorgono a gruppi anche
dal seno stesso delle acque. E in queste acque veggonsi guizzare i
pesci in incredibile quantità, e molti fin anche gittarsi fuori per
attrappare gl’insetti, che vi spaziano sopra. I nostri Laponi, sorpresi
anch’essi di tanta fecondità, pensarono di approfittarne al loro
ritorno. Le cataratte poi del Pepojovaivi non erano nè considerabili,
nè guari pericolose: pe’ nostri Finlandesi sarebbero stati un giuoco,
e massime per quel bravo _Simone_ di Kollare; ma per codesti Laponi
erano una grande cosa, non avendo nè pratica, nè talento per condursi a
passarle colla facilità, colla quale potevansi superarle: ond’è che ci
toccava assai spesso scendere di battello, e fare gran parte di strada
a piedi lungo la riva. Allora due di coloro uscivano del battello,
e uno solo rimaneva sopra ciascuno de’ due. Il primo procedeva
innanzi, e rimorchiava il battello con una corda fatta di scorza di
betulla, e l’altro con egual corda stava di dietro, fermandone, o
moderandone il corso, quando la corrente era troppo forte. Ma se per
caso costoro vedevano una pianta di angelica, vi saltavano addosso con
una inesprimibile avidità; e quando le loro mani l’aveano abbrancata,
addio corda! addio battello! non se ne rammentavano più; ed avrebbero
lasciata andare la corda, e sofferto che il battello corresse a
fracassarsi tra gli scogli, piuttosto che abbandonare la loro preda.
La più parte del tempo, in cui noi eravamo in battello, essi erano ben
più occupati a ciarlar tra loro, o a pipare, che a stare attenti onde
non incontrar pericolo. Tanta loro incuria teneva in continuo studio
noi; e spesso dovevamo dar loro qualche avvertimento: ma credete voi
che badassero? Essi amavano meglio lasciar correre il battello contro
qualche scoglio, che interrompere la grave loro occupazione di mangiare
angelica, e di fumare tabacco. Ed una volta accadde loro di prendere
una falsa direzione sopra un sito del fiume basso d’acqua, e tutto
pieno di scogli; cosicchè si trovarono impegnati in mezzo a larghe
pietre per modo, che non potevano muoversi. In sì trista circostanza
il Lapone che maneggiava i remi s’alzò dal suo sedile; e vedendolo
prendere un’aria seria e risoluta, credemmo che volesse fare un grande
sforzo per superare ogni ostacolo. No, signori. Il movimento fatto
da costui con tanta importanza non avea altr’oggetto che di scaricare
il ventre. Noi eravamo ad ogni momento lì lì per perdere la pazienza
con questa razza di bestie; ma non conoscendo i luoghi, e non avendo
con chi supplire, dovemmo accomodarci alla loro stupidità, alla loro
poltroneria, e allo spettacolo della loro svergognatezza. Sono disceso
a queste minute particolarità per dare una idea de’ loro costumi, e
delle loro abitudini.
Prima di arrivare a Kantokeino noi volemmo prenderci il divertimento
della caccia sul fiume. I nostri Laponi aveano seco un cane, il
quale fu obbligato a venirci sempre dietro per terra. Non saprei dire
abbastanza l’attenzione, e il buon senso mostrato costantemente da
questo povero animale per non perderci in mezzo a tante giravolte che
noi dovevamo prendere navigando, e che dal canto suo dovea prender
esso sfondando boschi, e cespugli, e deviando per paludi, e per terre
coperte di fanghi profondi. Se gli si presentavano due strade, non
mancava mai di scegliere la migliore. Se doveva attraversare de’
laghi, o delle isole, osservava prima, paragonava, e si risolveva: tre
operazioni della mente, che i nostri Laponi non mostravano certamente
di saper fare. Nel corso della sua strada, lungo il fiume, attraverso
de’ cespugli, e de’ boschetti esso faceva alzare la selvaggina,
la quale nella stagione, in cui eravamo allora, in que’ luoghi è
abbondantissima. Noi tirammo ad alcune anitre di una specie particolare
a codeste regioni, e particolarmente all’_anitra nera_, e ad un’altra
_anitra_, distinta per la _coda aguzza_, come pure ad alcune razze
d’oca, e massime a quella che chiamasi _anitra albifronte_, e a’
_tetrai_, qui comuni. Altri uccelli curiosi io uccisi nel passare dal
fiume a Kantokeino, che n’è distante da circa un miglio. Noi arrivammo
a Kantokeino un’ora dopo la mezza notte, e fummo meravigliati trovando
tutto il villaggio spaventato, e le donne in camicia agli uscii delle
case, e gli uomini sulle strade. La scarica de’ nostri archibugii era
stata il motivo del loro terrore, perchè è d’uopo ricordarsi che a
mezza notte colà era giorno, sicchè avevamo potuto comodamente tirare
agli uccelli a quell’ora; e la gente del paese misura le azioni della
vita nelle due porzioni della giornata di 24 ore, come se una fosse il
dì, e l’altra la notte.


CAPO XIV.
_Isolamento di Kantokeino. Ragione del confine apparentemente
irragionevole. Musica lapona. Maestro di scuola: sue imprese,
e sua singolare incombenza. Notizie statistiche su questa
parrocchia, e stato economico de’ suoi abitanti. Partenza,
e cordiali addii delle donne del villaggio. Il bel fiume
dell’Alten. Cataratta magnifica. Rapidità singolare della
corrente. Chiesa pigmea. Montagne. Guerra colle zenzale. Incontro
di un pescatore di sermoni. Laberinto. Arrivo ad Alten._

Fino all’epoca, in cui mettemmo piede in Kantokeino, questo villaggio
era stato considerato come un’isola inaccessibile in questa stagione
dell’anno ad ogni viaggiatore. Il paese che lo circonda, viene dai
geografi danesi descritto come pieno di aspre montagne, separate le
une dalle altre da paludi impraticabili. E la sicurezza, in cui questa
opinione poneva gli abitanti, veniva ad essere stata turbata, siccome
ho detto, dalla esplosione delle nostre armi da fuoco. Non sapevano a
che attribuire quel rimbombo, ed erano ben lontani dal pensare di poter
avere una visita di alcuni stranieri curiosi.
Kantokeino è un villaggio di quattro famiglie, e di un ministro del
culto che serve la chiesa. Il villaggio fu compreso nei domini del re
di Danimarca nella linea di demarcazione stabilita, e riconosciuta da
questo monarca, e da quello di Svezia. Osservando la carta non si sa
comprendere come sia stato preso qui il confine, in luogo di seguire
le creste delle montagne, separazione più naturale tra il mezzodì, e
il settentrione, quando diversamente si è fatto voltare il territorio
danese verso il mezzodì con un angolo verso la Laponia, che dovrebbe
appartenere alla Svezia. Cercammo la ragione di un fatto contrario,
per ciò che apparisce, alla ragione ed alla giustizia; e ci fu detto,
che il commissario svedese si era lasciato corrompere dall’oro della
Danimarca, quell’uomo dipingendoci come perduto tra le donne e il vino.
Il mio colonnello svedese non mancò da buon patriota di rimaner colpito
da tanto tradimento dell’interesse del suo paese; e facemmo insieme
cento considerazioni, non solo sui differenti mezzi che la malizia
umana può condurre gli uomini a corrompere, e a lasciarsi corrompere;
ma eziandio sulla sottigliezza, e sui secondi fini, che i diplomatici
possono avere nelle transazioni politiche. Fatto è intanto che tutti
que’ discorsi, e tutte le nostre investigazioni, e deduzioni reggevansi
sopra un falso supposto. La vera ragione di quella eccentrica linea di
demarcazione era cosa tutta naturale, e conforme al trattato del 1751
concluso tra le Corti di Stockholm, e di Copenaghen, nel qual trattato
restò convenuto che i confini tra i due Stati sarebbero fissati dalla
sorgente de’ fiumi: cioè, che tutta la estensione de’ paesi percorsi
dai fiumi scendenti all’Oceano-glaciale sarebbe della Danimarca, e
della Svezia quelli, i cui fiumi cadessero nel golfo della Botnia.
Un anno incirca dopo il mio viaggio in Laponia conobbi a Drontheim,
capitale della Norvegia settentrionale, il commissario danese, ch’era
stato impiegato in quell’affare, uffizial bravo, ed uomo per ogni verso
rispettabile, il quale mi diede conto del vero motivo della cosa, e
rise della favola, che ne correva.
I miei leggitori s’immagineranno facilmente che io ho assai poche cose
da dire di Kantokeino. Debbo dire però, che tra i suoi pochi abitanti
uno ve n’era, il quale qualificavasi col titolo di maestro di scuola:
denominazione che mi fece concepire un’alta idea de’ Kantokeinieni;
e m’aspettava di trovare un simulacro di curato, simile a quello di
Muonionisca. Codesto personaggio, dissi tra me, verrà indubitatamente
a gustare la nostr’acquavite, e ci parlerà un poco di latino misto a
qualche parola lapona. Ma non ci era riserbata sì bella sorte. Il vero
pastore era assente, andato in Norvegia a trovare i suoi parenti; e per
ordinario i ministri e i missionarii durante l’estate non rimangonsi
in Laponia: cosa che nella circostanza a noi fu giovevole, perchè
trovammo vuota la sua abitazione, la quale però non consisteva che in
una camera; e d’essa approfittammo. Ivi adunque riposammo rifacendoci
delle fatiche sofferte; e ci trovammo poi meglio disposti a visitare
il villaggio, ove vedemmo tutta la potenza delle leggi emanate dalla
Danimarca.
Il nostro primo pensiero fu quello di pagare le nostre guide. Ma prima
di licenziarle volemmo assicurarci da noi medesimi de’ loro talenti in
un altro genere di cognizioni, distinto da quello, in cui ci aveano
comprovata la loro industria. Noi desiderammo di udirli cantare; e
così prender notizia della musica lapona. Per ottener questo feci
giuocare denaro ed acquavite, senza alcun costrutto: perciocchè que’
miserabili non seppero infine far altro che qualche urlo spaventoso,
a segno che mi vidi obbligato a turarmi ben bene le orecchie. Laonde
dovetti infine persuadermi che i Laponi erranti non hanno veruna idea
della minima armonia; e che sono assolutamente incapaci di un piacere
che la natura, per quanto ho potuto apprendere, non ha negato a nessuna
orda, o nazione. La musica pratica sembra essere affatto sbandita
in queste contrade isolate e deserte. In esse non v’è altra musica,
che quella, la quale gli uccelli fanno sentire ne’ boschi; quella
de’ ruscelli scorrenti sui loro letti ghiajosi; quella de’ venti che
fischiano attraversando le folte foreste; quella infine delle acque di
tanti fiumi, che precipitansi giù per le frequenti cataratte. Ho però
voluto tener conto di quegli urli, che ho accennati. Poche sono le note
da me registrate; più poche di quelle ch’essi urlando espressero; ma
queste non erano altra cosa che una precisa ripetizione delle prime.
Non mancai nemmeno di cercar ragione di certe parole, che articolavano
in que’ loro suoni, domandandone il significato al nostro interprete,
e sperando di udire che si trattasse di qualche tratto di un inno
nazionale, o di cosa simile; ma quelle parole che gridavano, anzichè
esprimere, non erano che una monotona e sciocca ripetizione delle
stesse idee sulle quali ritornavano in maniera insopportabile. P. e.:
_buon viaggio, miei buoni signori, signori, signori, signori, signori:
buon viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, miei buoni signori,
signori: un buon viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, etc._,
così tirando innanzi fin che avessero fiato; e quando il fiato era
mancato la canzone rimaneva finita.
Ho detto dei musici laponi: debbo dire del maestro di scuola lapone.
Il titolo, quando lo intesi la prima volta, mi fece senso, considerando
che si era in un paese enormemente lontano da ogni fonte d’istruzione;
e se non altro per la singolarità del caso, colui che se ne
qualificava, avea ragione di andarne superbo. Ed infatti n’era invanito
come un cortigiano che nei nostri paesi arrivi ad avere un cordone, od
una tracolla rossa o turchina. Ad osservarlo, gli si vedea in faccia
l’uomo glorioso e beato. Ma costui non era in sostanza nè di persona,
nè di maniere più che un vero lapone, come tutti quanti quelli, in
mezzo ai quali viveva; se non che per un difetto di conformazione egli
avea qualche cosa in proprio, per cui nel camminare faceva ridere;
e questa qualche cosa era il tenere i piedi costantemente rivolti di
fuori nella maniera che i nostri maestri di ballo chiamano di prima
posizione.
Quest’uomo, stato qualche tempo in Norvegia, avea imparata la lingua
danese, o più veramente il gergo che si parla in Norvegia; e questo era
stato il gran capitale, che gli avea fruttato l’impiego più singolare
che io m’abbia mai avuta occasione di osservare in alcun paese del
mondo. Il ministro della parrocchia non sapendo una parola della
lingua lapona non poteva comunicare i suoi pensieri al suo uditorio;
e intanto voleva, o per dir meglio, doveva predicare. Per rimediare
all’inconveniente, ecco il partito che si prese. Il maestro di scuola
si metteva sotto la cattedra; e quando il ministro avea recitato un
periodo del suo sermone, si fermava; e il maestro di scuola lo ripeteva
a tutta l’adunanza in lingua lapona. Immaginate l’effetto che dovea
produrre su que’ popolani la così interrotta e mutilata eloquenza del
pastore; e confesso che avrei pagato qualche bella cosa per trovarmi
testimonio di questa scena. Siccome poi il predicatore non sapeva una
parola di lapone, e perciò non intendeva cosa il maestro di scuola
gli facesse dire a quella povera gente, l’assurdità della scena
evidentemente cresceva; e per certo voleavi in quel pastore la più gran
buona fede del mondo per lusingarsi, che la sua predicazione facesse
frutto.
Del resto importa assai al governo danese che la lingua sua si
estenda possibilmente in tutte codeste contrade; e per questo esso ha
stabilito in Kantokeino un maestro di scuola, che insegni il danese
nelle vicinanze, ed istruisca tutti quelli, che possa tirare a sè. Ma
non pareva che quel maestro avesse molto approfittato nella sua dimora
in Norvegia, almeno per ciò che riguarda il buon gusto, perciocchè
volendo prender moglie avea fatta una scelta, da cui Iddio guardi ogni
fedel cristiano. La moglie di costui era una donna non alta più di
tre piedi e mezzo, e la più sporca e brutta che potesse mai vedersi di
là del circolo artico. Però ci parve che in ricambio il marito avesse
acquistato in Norvegia l’arte astuta della persuasione; e che sapesse
molto innanzi in fatto di galanteria; perciocchè s’avea acquistato il
cuore di una giovinetta della parrocchia, la quale poco tempo dopo si
trovò in uno stato, da cui la indiscrezione scoprì quanto il maestro di
scuola fosse stato capace d’insegnarle. Questo fatto mise in un brutto
imbroglio il pubblico funzionario tanto rispetto alla ragazza, quanto
rispetto alla moglie, la quale era ben lontana dal doverlo tassare
d’infedeltà. La cosa però finì bene, perchè la creatura nata morì
dopo pochi giorni di vita; e la moglie del maestro di scuola prese più
vanità dai favori che suo marito avea ottenuti, di quello che rimanesse
mortificata dalla prova che le era stato infedele.
Prima di abbandonare Kantokeino è giusto esporre alquante osservazioni
di statistica, e di geografia riguardanti il paese. In tutto il
distretto della parrocchia, che si estende per circa 200 miglia in
lunghezza sopra 66 di larghezza, non vi sono che due luoghi occupati da
stabilimenti di Laponi, i quali tutti insieme non contano più di dodici
fuochi: gli altri abitanti sono tutti della classe de’ pastori erranti;
e per questa ragione non si può additare il numero degl’individui. I
Laponi erranti durante l’inverno abitano paesi montuosi; e vanno colle
loro tende, e colle loro renne da un luogo all’altro. In estate poi si
volgono alle coste, onde avere più facile la pescagione. Ne’ contorni
di Kantokeino trovansi alcune belle praterie, e terre coltivabili,
che danno orzo e segala, quanto per sei mesi possono gli abitanti
consumarne. Qui non si hanno cavalli; e chi vuol viaggiare deve far
uso delle sue gambe, o andare per acqua in battello, se è estate: in
inverno si va colle slitte tirate dalle renne. Il fieno che si taglia
serve per le vacche: le granaglie che si raccolgono, vengono messe
in farina, poichè la farina è diventata un articolo di sussistenza sì
necessario agli abitanti, che chi non ne ha per tutto l’anno è stimato
poverissimo. Ma i Kantokeinieni si ajutano anche più colla pescagione,
e cacciagione; ed un popolo avvezzo a tutte le vicende di una vita
errante, preferisce alle laboriose occupazioni dell’agricoltore questi
mezzi, comunque incerti, onde provvedere a’ suoi bisogni. Il pesce
che per loro è superfluo, lo cambiano in granaglia; e così fanno delle
pelli d’orso, e d’altri animali. Bisogna però dire, che qui i fiumi,
e i laghi sono tanto abbondanti di pesce, che vi si può fare sopra i
conti con tutta sicurezza. Così un Lapone guadagna più sopra una pelle
d’orso, che sul raccolto che potesse dargli un mezzo acro di terreno
coltivato.
La maniera di dar la caccia all’orso in Laponia è la stessa che si usa
in Finlandia; ma la caccia della renna selvatica esige sì violenta
fatica, che non vi vuole che un Lapone per sostenerla. La renna
selvatica non vive in compagnia, ama di star sola in mezzo de’ boschi
e nelle montagne; ed ha un incredibile istinto per guardarsi da ogni
pericolo. Quando un Lapone la scopre, e lo fa alla distanza di un
mezzo miglio, fa un giro sotto vento, e va insensibilmente guadagnando
terreno, a forza di strascinarsi a quattro piedi, ed anche sul ventre,
finchè possa giungere a tiro di fucile. Un Lapone mi ha assicurato
d’essersi così strascinato attraverso del musco, e de’ cespugli per
cinque miglia per giungere a luogo più conveniente, onde prendere di
mira la sua preda.
Ogni anno in febbrajo si fa una fiera in Kantokeino, alla quale
accorrono i Laponi del vicinato, e i mercatanti di Tornea. Questi
prendono pelli di renne, di volpi, d’orsi, di lupi, e guanti e
stivaletti; e danno invece flanelle comuni, acquavite, tabacco, farina
e sale.
Gli abitanti hanno delle vacche, le quali somministrano loro del
latte; ed hanno montoni, della cui lana si giovano pei loro bisogni.
Quando per nudrire le vacche non hanno fieno sufficiente, raccolgono
il musco, di cui le renne si nudrono; e la necessità fa che le vacche
se ne contentino. Pe’ montoni v’ha sulle montagne una specie di musco,
ch’essi mangiano volentieri; e come codesti animali non sono un oggetto
di cambio, vengono generalmente venduti per poca cosa: per modo che
noi, comprandone per nostro uso, non li pagammo più di 18 soldi l’uno.
Il popolo di questa contrada non è senza cognizione dell’uso della
moneta; nè può dirsi senza passione di averne: di che ci fu prova,
quando ci disponemmo a partire, l’esserci stato domandato un piccolo
scudo al giorno per ognuno degli uomini, che dovevano accompagnarci;
somma enorme per quel paese, e considerabile per noi, che avevamo
bisogno di cinque persone. E quando il nostro interprete volle dire
che tale pretensione era stravagantissima, seppero rispondere che
nella stagione andando alla pesca avrebbero guadagnato di più. Nè
mancarono certamente di calcolare, che siccome ben di raro si veggono
viaggiatori in quelle contrade, se ne capitano alcuni fuori di fiera, e
senza straordinaria evidentissima ragione, si deve credere che abbiano
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