Viaggio al Capo Nord - 10

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minarlo. Ogni anno l’antica sua caducità si va vieppiù manifestando: i
progressi di questa loro vittoria sono evidentissimi; e questo grande
sostegno del globo si va distruggendo senza alcun testimonio della
sua lunga e continua decadenza. Là tutto è solitario, tutto lugubre,
tutto sterile: niuna foresta sulla cima di que’ monti, niuna verzura
sulle grigie asperità di quegli scogli: non un uccello terrestre rompe
col suo volo la pacatezza dell’aria: niuna voce vi si ode fuori del
muggito dell’onde marine, e del fischio delle tempeste. Un Oceano
immensurabile, un cielo senza orizzonte, un sole senza riposo, notti
senza risvegliamento: la infecondità, il silenzio, la desolazione, ecco
i tratti di questo quadro sublime e tremendo: ecco il _Capo-Nord_.
Qui le occupazioni, l’industria, e le inquietudini degli uomini non
si presentano alla memoria che come un sogno: l’energia della natura
animata, le sue forme diverse, le innumerabili sue modificazioni
cancellansi dalla ricordanza. Non si vede più il globo che ne’ suoi
nudi elementi. Non è più il soggiorno della vita; è un punto del
sistema dell’universo.


CAPO XVIII.
_Effetti prodotti nelle menti de’ viaggiatori dall’essere giunti
al Capo-Nord. Visita del promontorio, ed osservazioni fatte nelle
vicinanze. Angelica, e grotta. Roccie, licheni, alghe, crostacei,
spugne, ecc. Uccelli di mare. Caldo e calma sofferti nel dare
addietro dal Capo-Nord._

La ebbrietà, in che ci avea immersi la veduta del Capo-Nord; il
vivo piacere d’essere giunti al termine de’ nostri desiderii, e
quella inesprimibile impressione che sugli animi nostri avea fatto
lo spettacolo di codesti luoghi incogniti al rimanente degli uomini,
finalmente sedaronsi: noi incominciammo a pensare a noi; e la prima
riflessione che occupò le menti nostre fu quella della gran distanza,
che ci separava dalla nostra patria; ed alla idea dell’immenso paese,
che avevamo attraversato, si unì naturalmente quella dell’altro che
dovevamo scorrere per rivedere i nostri amici, e le nostre famiglie.
Noi avevamo da salire di nuovo le stesse montagne, da arrischiarci al
trapasso degli stessi deserti, da cimentarci colle stesse cataratte, le
quali cose tutte avendo per noi perduto il merito della novità, non ci
si presentavano più che nel solo aspetto della fatica e dello stento.
E come mai il desiderio solo di trovarci in sì abbandonato paese, ed a
sì grave costo, avea potuto sedurci? In qualche momento saremmo stati
tentati a condannarci giustamente di giovanil leggerezza, d’imprudenza,
di temerità. Ma le parole hanno sulle menti degli uomini una forza, che
difficilmente può calcolarsi: onde i nomi di Capo-Nord, di Mar-gelato,
di estremità ultima della Europa riscaldavano ancora la nostra
immaginazione, e ci davano nuove forze. Quindi la mano stendevasi alla
matita per disegnare que’ massi enormi che sono altrettante pagine
formidabili degli annali de’ secoli; ed allora tutti intenti all’opera
gustavamo un genere nuovo di piacere, che ogni pensier tristo faceva
fuggire da noi. Attraversando in idea la immensità del Mar-gelato,
visitammo la Groelandia, e lo Spitzberg, e più lungi quelle montagne
di ghiaccio, che rimarrannosi immobili in mezzo alle acque fin tanto
che il globo si aggirerà sul suo asse invariabile. Allora concependo,
dirò così, come cosa reale quel punto che si chiama Polo, ci godevamo
di porvici sopra per ivi contemplare lo spettacolo dell’anno diviso in
un solo giorno, ed una notte sola, e quello non meno meraviglioso del
giro immenso intorno a noi di tutti gli astri, che adornano la metà
dell’universo.
Ma finalmente era d’uopo rinunziare a sì seducenti e vaghi delirii.
Abbandonammo quelle cime, e scendemmo al lido. Ivi con legne, che il
mare avea gittate sulle sponde, accendemmo il fuoco per prepararci
il pasto; nè questo ci era stato mai più necessario, perciocchè la
nostr’agitazione morale, le fatiche fisiche, la vivacità dell’aria
aveano aguzzato il nostro appetito; e il buon umore succeduto alla
gravità di tanti pensieri, e sensazioni triste, condì di delizioso
sapore quanto avevamo per ristorarci; e ci pose in istato di far più
di un brindisi da que’ confini ultimi della terra ai nostri amici de’
paesi meridionali.
Cercando sul lido un luogo ove comodamente trarci a prendere il ristoro
accennato, scoprimmo una grotta formata da tre rupi, le cui superficie
liscie e lucenti dimostravano com’erano state battute dai flutti.
Nel mezzo d’essa era una pietra rotonda, sotto la quale usciva un
sottil filo d’acqua, che scendendo da una montagna vicina formava un
ruscelletto, sul corso del quale trovammo alcune piante di angelica.
Questa scoperta fu per noi di un pregio inestimabile trattandosi di una
contrada sì estranea ad ogni specie di vegetazione, e dove per certo
noi eravamo lontanissimi dal supporre che la natura volesse presentarci
qualche cosa buona per la nostra tavola. Del rimanente la grotta era sì
ben disposta, che sarebbesi facilmente creduta opera dell’arte, anzichè
della natura. Il largo masso che vi si trovava in mezzo, ci servì di
tavola; e vi ci sedemmo in modo che non avevamo se non da abbassarci
per empiere i nostri bicchieri di un’acqua eccellentemente fresca, e
dolce, quantunque fossimo a pochi passi dall’Oceano.
Dopo aver mangiato ci divertimmo a salire sul più alto sito della
roccia, e di là a fare sdrucciolare al basso enormi pezzi di rupe,
secondo che potevamo distaccarne: i quali precipitando facevano un
rimbombo simile a quello del tuono, e rovesciavano quanto alla loro
caduta si opponeva. Le roccie di quella costa sono quasi tutte di
granito; e lo stesso Capo-Nord è un ammasso di roccie dello stesso
genere, misto ad alcune vene di quarzo, e corrente da mezzodì a
tramontana. In alcuni siti ci parve vedere della neve non ancora
disciolta, i cui strati sulla riva erano quasi a livello del mare.
Questa circostanza sarebbe in contraddizione colla opinione dei dotti,
i quali hanno stabilito il sistema della regione della neve perpetua ad
una cert’altura dell’atmosfera.
Noi non trovammo nè basalto, nè produzioni vulcaniche per quel poco
tempo, che potemmo dare alla visita de’ contorni. Le pietre più
conosciute erano della natura del granito, delle pietre calcaree
miste di mica, e di un marmo grisastro, attraversato da grandi vene
di quarzo, il quale generalmente seguiva la direzione dal mezzodì a
tramontana anch’esso.
I licheni coprono dappertutto la superficie delle roccie esposte
all’aria: comunissimo vi è il licheno geografico del _Linneo_, e vi si
trova pure quello che gl’Inglesi usano invece di cocciniglia per fare
il loro bel rosso. Quest’ultimo è abbondantissimo su tutte le coste
della Norvegia, di dove se ne trae ogni anno grande quantità.
Le alghe guarniscono il piede delle roccie, che il mare bagna. I
Norvegii ne fanno soda abbruciandole; e la vendono cara agli Inglesi.
Al di sopra di queste alghe trovansi fitti prati di piccole conchiglie
bivalve, e frantumi d’altri crostacei stretti talmente insieme per
opera della natura, che si assomigliano ad un lavoro in mosaico.
Innumerabili poi sono le ghiande di mare (_lepades balani_), le quali
si attaccano, non solamente alle roccie, ai battelli, e alle navi;
ma di una specie particolarmente ve n’ha, che sì forte si attaccano
alle balene, ch’esse non possono liberarsene. Abbiamo trovato ancora
nelle nostre corse su questi lidi l’_echinus esculentus_, il _buccinum
glaciale_, il _dimidiatum_, il _pecten_, qualche specie della _venus
meretrix_, l’_helix crepidularossa_, ed altre, che il mare avea
spezzate, e frantumate a modo da non essere più riconoscibili. Ma per
la più parte aveano colori poco brillanti, e poco grati agli occhi.
Le spugne anch’esse trovansi qui, e ne vedemmo di gittate sulla riva
dalla forza de’ flutti anche a grande distanza. Ma questi zoofiti
si tengono ad una certa profondità nel mare, e i pescatori sono bene
spesso quelli che le distaccano colle loro reti. Vi ho vedute spugne di
somma bellezza, formanti ramificazioni dell’altezza di un metro e più;
e ve n’ha di perfettamente bianche, ma le loro fibre sono meno tenaci,
e più tenui di quelle, di cui ordinariamente si fa uso.
Madrepore, stelle di mare, millepore, e tali altre cose qui pure
abbondano: ma non vi si trovano coralli.
Diverse specie di uccelli di mare chiamavano la nostr’attenzione, e
la tanta loro quantità ci compensò della mancanza degli uccelli di
terra. Le _alche_ fra gli altri, in que’ luoghi comunissime, e tra
queste quella che si distingue col nome di _artica_, veniva di tempo
in tempo presso il nostro battello più dell’_alca_, e della _pica_; e
pareva che intendesse di provare quanto fossimo abili a tirare al volo.
Essa ha due qualità, che possono farle perdonar tanta baldanza. Sa
stancare il cacciatore coi mille giri, e rigiri, ch’egli è obbligato a
fare inseguendola; ed ha sì fitta la piuma, che per ammazzarla bisogna
averla ad una mediocrissima distanza. Del rimanente l’alca artica in
aria rassomiglia molto al pappagallo per la figura del suo becco blù e
rosso, ricurvo e spianato perpendicolarmente.
Anche le anitre, che ivi sono di molte specie, e numerosissime, furono
un oggetto di nostro divertimento, e particolarmente quelle che portano
alla coda due penne assai lunghe, e forcute come quelle della rondine.
Codesta specie è indigena de’ paesi settentrionali; e il _Linneo_ l’ha
chiamata _anitra iemale_.
Ma essendosi levato un venticello settentrionale i nostri uomini ci
persuasero ad approfittarne per avvicinarci ad Alten; e non avevamo
fatto più di tre, o quattro miglia quando ci venne a sorprendere la
calma, la quale obbligò i nostri battellanti a lavorare di remi, e
di braccia. Osserverò qui di passaggio, che nelle acque, in cui ci
trovavamo, qualche volta la calma è oppressiva al pari di quella che
ci viene descritta da chi ha navigato nel mare del Sud. Il calore del
sole alza una specie di sottil nebbia a sei, o sette piedi sopra la
superficie del mare, che rende l’aria sì grave, e soffocante, da non
poter respirare che a stento. Senza ombrello adunque, e senza tenda,
o coperta di sorte noi rimanevamo arrostiti dal sole, e tenendo la
bocca aperta aspiravamo quel poco d’aria esteriore, che n’era presso.
Il mio compagno di viaggio diceva di non avere provato mai un calore
sì costante: però stando alle dimostrazioni del termometro trovavamo
che quel grande soffocamento procedeva piuttosto da quella nebbia
disossigenata, che dal calore.
Verso sera, o per parlare con più esattezza, quando il sole era nel
punto, in cui più si avvicina all’orizzonte, in luogo del venticello
rinfrescante, il calore crebbe, e il termometro che alla mattina
indicava 12 gradi, allora ne segnava 20. I nostri remiganti non
facevano che bere acquavite per rinfrescarsi, e non potevano lavorare.
Il battello appena appena movevasi: e pareva che in quel momento la
natura fosse sepolta in un tristo silenzio: il solo _colimbo artico_,
co’ suoi gridi lugubri, e di mal’augurio, empiva quelle acque solitarie
de’ suoi tuoni funebri, e raddoppiava nei nostri cuori la noja.


CAPO XIX.
_Ritorno ad Alten per diversa strada. Isola di Maaso: suoi
abitanti, e loro ospitalità. Vantaggio di chi viaggiando è
tenuto per un principe. Hammerfest. Penisola Hwalmysling. Fregata
inglese. Arrivo in Alten. Corsa a Felwig: gran mercato di pesce._

Non ritornammo ad Alten per la strada tenuta dianzi: ma approfittando
della occasione visitammo tutto quello che ci si era detto meritare
attenzione nelle isole che sorgono presso la costa. La prima fu l’isola
di Maaso, abitata da un ministro, da un mercante, e da una trentina
di famiglie. Il mercante ci accolse colla più alta distinzione: ci
offrì diverse qualità di liquori; ci regalò alcune delle spugne che
trovansi sulle coste, di alcune conchiglie, e di un’alca, che suo
figliuolo avea impagliata. Poscia ci fece vedere i contorni della
sua abitazione, i quali non erano che semplici rupi, e caverne, ove
andava a caccia di lontre. Alla nostra partenza alzò padiglione, e
ci salutò con tre colpi di cannone. Questi segni di rispetto, e, se
vuolsi, di sommissione, erano senza fallo meno l’effetto della semplice
ospitalità, che un omaggio ch’egli credeva di rendere a due principi,
i quali per curiosità viaggiassero in codesto paese in _incognito_,
per godere di maggior libertà. Questo errore era fondato sopra un
avvenimento precedente. Un figlio dell’ultimo duca d’Orleans dopo
avere attraversata tutta la Norvegia, venne di là su questa costa
montato sopra un vascello: da quest’isola passò ad Alten, e da Alten
continuò la sua strada a cavallo, accompagnato da un giovine chiamato
_Montjoye_. Tutti e due seguivano a un di presso la stessa direzione,
che tenemmo noi; e tutti e due viaggiavano sotto finti nomi; il primo
sotto quello di _Müller_, e l’altro sotto quello di _Fröberg_, che in
alemanno significa lo stesso che il nome francese. L’anno appresso i
mercanti furono informati dai loro corrispondenti, che uno d’essi era
il principe d’Orleans; e da quel tempo in poi tanto in Norvegia, quanto
sulla costa di Laponia si credeva che ogni forestiere accompagnato da
un amico, e da due domestici, dovess’essere un principe viaggiatore o
per propria istruzione, o per piacere. Per formarsi poi una giusta idea
della ospitalità da noi ricevuta a Maaso sarebbe necessario sapere,
se i due personaggi accennati ricevessero le stesse dimostrazioni
di rispetto, che si usarono con noi. Io viaggiai in appresso col mio
compatriota _Bellotti_ attraverso della Norvegia, ove fummo trattati
della stessa maniera, ricevendo i più distinti onori; e mi compiaccio
di ricordare con viva riconoscenza l’ospitalità che in quel paese
si praticò con noi. Se non che senza mancare alla verità non posso
dispensarmi dal dire che dappertutto eravamo tolti per principi
italiani venuti verso il Nord per passarvi il tempo delle turbolenze,
che regnavano ne’ loro paesi; e cercavasi in tutti gli almanacchi
che principi potessimo essere. Il mio compagno, di una complessione
e di una ciera delicatissima, passava pel principe incognito; ed
io, più forte e robusto, era il suo segretario, o il suo Mentore.
Alcuni lo riguardavano come il figlio del duca di Parma; altri lo
prendevano pel figlio di quello di Modena; ed alcuni più scrupolosi
nelle loro ricerche, dicevano ne’ loro scrutinii genealogici, che
confrontando la sua età con quella d’altri principi mentovati negli
almanacchi, potevano con sicurezza asserire ciò che affermavasi della
sua condizione. Voglio credere che questa opinione influisse sopra
una certa classe di persone nelle principali città di Norvegia, ove
passammo alquanti giorni.
Da Maaso andammo ad Hammerfest, luogo, ove sono due, o tre mercanti,
un ministro, ed alcune famiglie. Tutti questi stabilimenti sulla
costa hanno molta somiglianza fra loro. Dappertutto si vede la
stessa sterilità, la nudità stessa, e lo stesso taglio delle rupi.
In quest’ultimo sito scorre un fiumicello, che passa attraverso di
una bella stretta ombreggiata di betulle; e vi si pescano sermoni
eccellenti. Alla riva direttamente posta all’incontro di Hammerfest
v’è una penisola chiamata Hwalmysling, in cui trovansi molte lepri, le
pelli delle quali fruttano al padrone ogni anno i dugento e trecento
risdalleri. Uno de’ mercanti di Hammerfest ci disse vagamente, che al
tempo de’ suoi predecessori una fregata inglese, sette od otto anni
all’incirca indietro, era venuta sulla costa con due astronomi, uno
de’ quali inalzò un osservatorio sopra una montagna vicina, mentre
l’altro, per quanto egli credeva, era andato a fissare la sua residenza
per alcun tempo sul Capo-Nord. Ma non si ricordava nè in quale anno
quella fregata inglese fosse comparsa colà, nè i nomi degli astronomi:
tutto quello che sapeva dire, si era, che l’apparizione di quella
fregata avea fatta tale impressione sugli abitanti della costa, che
andarono tutti per vederla, e ritornaronsi colla terribile apprensione,
che non forse portasse la guerra, e la distruzione in tutto il loro
circondario. Il ministro era sì grosso di persona, sì robusto, e di una
statura sì gigantesca, che se il suo ingegno avesse potuto sostenere un
parallelo colla statura, egli sarebbe stato il più gran teologo della
età nostra. Egli parlava latino e tedesco; e pareva molto sollecito
per sapere tutto ciò che appartenesse a politica. Gran piacere ebbe
in veder noi, persuaso che potremmo dargli delle nuove più fresche di
quelle ch’egli aveva. E si può farsi una idea della lenta comunicazione
di questa parte del globo col rimanente d’Europa, da questo, che
eravamo ai 19 di luglio del 1799, e il ministro di Hammerfest non
aveva ancora udito parlare de’ grandi affari politici seguiti dopo la
battaglia navale di Aboukir, accaduta nell’agosto del 1798.
Noi trovammo in Alten una persona, che io avea incaricata di farci una
raccolta di piante e d’insetti, ed un’altra per darci un saggio della
sua abilità in sonare il violino, onde poter conoscere lo stato della
musica in questa parte d’Europa. Ivi ci fermammo parecchi giorni per
fare i preparativi necessarii pel nostro ritorno verso il golfo di
Botnia. Durante questa fermata facemmo una piccola corsa a Felwig colla
intenzione di vedervi i Laponi, i quali vi capitavano da tutte le parti
per vendere i loro pesci. Chiamasi Felwig un piccolo porto tre miglia
distante da Alten; e vicinissimo a quel porto è un villaggio abitato da
alcuni mercanti, e da un ministro: vi si vede pure una chiesiuola.


CAPO XX.
_Imbarco, e navigazione sull’Alten. Tre singolari cataratte. Motivi
di rimontarne una, e sforzi inutili. Viaggio per le montagne,
e gran cambiamento di temperatura. Si ripiglia la navigazione
dell’Alten. Arrivo a Kantokeino. Passaggio ad Enontékis.
Viaggiatori inglesi, e loro memorie. Memoria di un emigrato
francese. Estratto di un manoscritto del curato di Enontékis.
Partenza da Enontékis per Tornea ed Uleaborg._

Io risparmierò al mio lettore le particolarità del nostro ritorno
attraverso del deserto; e lo condurrò rapidamente a Tornea
presentandogli in compendio la sostanza del mio giornale.
Noi rimontammo il fiume Alten in due battelli, avendo contro di noi
tutte le cataratte, che con uno sforzo incredibile di perseveranza
superammo in più lunga misura, che mai si fosse fatto. Il cammino pel
fiume presenta vedute pittoresche quante, e quali la immaginazione
di un pittore possa mai desiderare. Le sponde dell’Alten qualche
volta sono graziosamente ornate di belle betulle, e qualche volta
presentano un orrido aspetto, la cui asprezza non si vede però senza
un certo secreto diletto; ed è là che veggonsi masse di rupi a picco,
ed inaccessibili, fra le quali apronsi precipizii profondi. Seguendo
il fiume trovammo una cascata che veniva giù perpendicolarmente da una
rupe, che sarebbesi presa per le ruine di una gran cattedrale. A’ piedi
di quella rupe era un laghetto avente sulle sue sponde degli scaglioni
tagliati naturalmente nello scoglio: il che dava ad un tale accidente
della natura l’apparenza di un tempio antico. Qui noi vedemmo un orso
venuto al fiume per bere; ma appena ci ravvisò, corse ad internarsi nel
bosco. Anche una volpe venne sul sito medesimo per bere; e si tenne
nel suo cammino direttamente in faccia alla tenda, sotto cui avevamo
passata la notte: declinò però anch’essa a quella vista, ma senza
mostrar paura.
Più lungi fummo colpiti dalla vista di due cascate opposte l’una
all’altra, e tutte e due precipitantisi da un banco del fiume Alten,
il quale a poca distanza forma anch’esso una cascata insormontabile.
Tre cataratte tanto vicine l’una all’altra in sì piccolo spazio sono
un fenomeno di tal genere, che non ne avea ancora veduto l’esempio; e
se lo avessi veduto presentato in un quadro, io l’avrei preso più per
un capriccio ideato da pittore immaginoso, che operato realmente dalla
mano della natura. Noi facemmo tutti gli sforzi possibili per rimontare
la cataratta del fiume, sebbene mostrava di ridersi del nostro disegno;
e dover essere il _non plus ultra_ della nostra navigazione. Per
riuscire nella impresa disponemmo i nostri Laponi in diverse maniere,
facendo loro tenere in mano delle corde per fermare il battello, ed
altre legando alle nostre reni pel caso, che il battello venisse a
spezzarsi sopra uno scoglio, o cedendo al vortice si affondasse. E
mancò poco infatti, che così non succedesse: se non che fortunatamente
il Lapone, che teneva la corda ferma al di dietro d’esso battello,
seppe tirarla a tempo. I pericoli da noi corsi su questa cataratta non
sono qui presentati con esagerazione: essi furono reali; e noi non vi
ci esponemmo, che per evitare la fatica de’ lunghi giri, che avremmo
dovuto fare per terra.
Noi stavamo sufficientemente bene in quel nostro battello; ma se dopo
tutte le pene sostenute la navigazione che rimaneva da farsi per quel
fiume si fosse renduta impraticabile, non avremmo avuto altro partito
che quello di attraversare la catena di montagne terribili, e di fare
un lungo, e faticoso viaggio a piedi con grande pericolo di perderci
ne’ deserti. Al contrario più che noi ci fossimo internati nel paese
seguitando il fiume, più la nostra strada per terra sarebbe riuscita
breve. Superando poi questa cataratta era a presumere, che il fiume
divenendo piano di più, e navigabile per un più lungo spazio di via,
potrebbe permetterci l’uso de’ nostri remi; e queste presunzioni erano
abbastanza fondate per impegnarci a fare qualche sforzo: noi facemmo
tutti i possibili; ma inutilmente.
Ripigliammo adunque la strada delle montagne facendo nuove giravolte
per evitare fiumi e laghi; e non passò gran tempo che ci trovammo in
un’altra temperatura, poichè il termometro di _Celsius_ cadde ai 4
gradi; e alcune nubi che passavano sulle nostre teste ci coprivano di
fiocchi di neve. Camminammo dodici ore di seguito prima di riguadagnare
l’Alten; nè ci fermammo che per qualche istante, necessitati a pigliare
un po’ di fiato. Il timore di qualche mutazione di tempo, o di qualche
temporale procelloso ci faceva menar le gambe ben bene: per questo non
facemmo mai in questa traversata alcuna fermata vera; e il cammino non
fu meno di cinquanta miglia. Finalmente giungemmo al sito, ove avevamo
lasciati i Laponi di Kantokeino coi loro battelli: essi aspettavanci
per ricondurci a quel villaggio. Avevamo già spedito loro qualcuno per
avvertirli del nostro ritorno, ed impegnarli a venirci incontro. Un
venticello di settentrione alquanto forte risparmiò alla nostra gente
la fatica di remigare contra la corrente; e alcune frasche di betulla
in questa stagione tuttora verdi, piantate a poppa, ci tennero le veci
di vela.
Arrivati a Kantokeino fummo costretti a fare un altro lungo viaggio a
piedi fino ad Enontékis, luogo che volevamo conoscere per collocarlo
nel nostro itinerario. Non si sapeva a quel tempo che ne fosse aperta
la strada, nissuno avendola per l’addietro praticata. Le montagne,
che separano Enontékis da Kantokeino, non sono della metà alte come
quelle che separano Alten-Gaard da Massi; ma noi eravamo destinati
ad incontrare qui difficoltà maggiori che le provate nella Laponia
norvegia. Ci bisognò passare fiumi a guazzo: poi ci trovammo in
mezzo a paludi estesissime, e in qualche sorta perduti in orrendi
deserti. I nostri buoni Laponi non ne sapevano più di noi: erano
in continui dispareri; e senza il soccorso del nostro compasso
correvamo pericolo di errare in que’ boschi sino all’approssimarsi
dell’inverno, o d’essere obbligati a ritornare a Kantokeino. Per
fortuna finalmente scoprimmo la punta del campanile di Enontékis dopo
una strada di due giorni e mezzo, ed una corsa di quasi cento miglia.
Vi arrivammo il dì appresso che n’erano partiti due Inglesi, i quali
aveano intrapreso l’istesso viaggio, che noi: ma essendo uno d’essi
stato preso da febbre, furono obbligati a dare addietro dopo essersi
ivi fermati alcuni giorni. Erano questi il sig. _Clook_, e il sig.
_Cripps_, due giovani molto bene istruiti, e studenti del collegio
di Gesù in Cambridge. Il sig. _Clook_ era stato in Italia, e sapendo
che un italiano viaggiava verso il Nord, e che potrebbe prendere
forse la strada verso questo luogo, avea scritto sul registro tenuto
dal ministro quattro versi dell’_Ariosto_, che eccellentemente si
appropriavano alla mia situazione, e che dipingevano al naturale le
fatiche del mio viaggio. Eccoli.
_Sei giorni me ne andai mattina e sera_
_Per balze e per pendii orride e strane_,
_Dove non via, dove cammin non era_,
_Dove nè segno, nè vestigia umane._
Questi due Inglesi aveano passata una settimana in casa del curato, ed
erano stati trattati da tutta la famiglia colla più cordiale amicizia.
Durante il tempo di malattia, che li obbligò a fermarsi, vollero dare
uno spettacolo assai proprio per attirare i Laponi di tutti i cantoni
del vicinato, e capace di fare sulle anime di questo popolo semplice
la più viva impressione: consisteva questo spettacolo in alzarsi in
aria entro un pallone. Ignoro l’effetto che la vista di un tal prodigio
avrebbe prodotto sopra questa gente; ma sarei tentato a credere che il
concorso non sarebbe stato numeroso. Mancarono loro i mezzi materiali
per eseguire il loro divisamento. Alla loro partenza scrissero i loro
nomi sul registro coll’apostrofe seguente: _Straniero, qualunque tu
sii, che visiti queste contrade remote del Nord, ritornando al tuo
paese nativo, di’ a’ tuoi, che la filantropia è insegnata presso
le nazioni incivilite, ma che non si pratica se non là, dove la sua
teoria non penetrò mai._ Sulla pagina opposta del libro era il nome
di M. _Vesvroti_, venuto ivi per far sapere ai Laponi, come lo avea
annunciato ai Filandesi, in un latino infranciosato, ch’egli era
stato in addietro presidente del Parlamento di Dijon. Ecco la sua
nota: _Libertatem querens, seditionisque theatrum fugiens, hic fuit
die quindecimo martii anno millesimo nonagentesimo secundo Carolus
Richard de Vesvroti, dijionensis, praeses in suprema rationum Curia
Burgundiae._
Il ministro di Enontékis era persona istrutta: egl’impiegava il
tempo dalle sue funzioni lasciatogli libero in ricerche statistiche
e filosofiche. Avea fatte molte raccolte in istoria naturale; avea
anche scritto un picciol libro contenente le risposte a varie domande
fattegli da un naturalista svedese che viaggiò in codeste contrade
pei progressi della storia naturale. Avendo egli nella sua sposa una
donna di molta intelligenza, ed assai bene educata, noi ad essa facemmo
varie ricerche sulla popolazione, e sulle produzioni naturali di questa
porzione di mondo; ed ella per dispensarsi dal lungo proloquio, che la
materia richiedeva, per tutta risposta ci diede il libro di suo marito
dicendoci che vi troveremmo quanto desideravamo di sapere da lei. Il
manoscritto era diviso in cinque capitoli: il primo trattava della
popolazione della parrocchia, il secondo degli affari ecclesiastici;
il terzo delle colonie stabilite ne’ contorni; il quarto de’ Laponi
nomadi, ossia pastori; e il quinto delle produzioni naturali del
paese. Feci qualche transunto del manoscritto, che io inserisco qui più
brevemente che mi sia possibile.
La popolazione del villaggio di Enontékis è di circa 930 abitanti: 258
sono coloni, Laponi fissi, e 662 sono nomadi, ossia famiglie erranti,
che vivono nelle montagne, e che non si occupano che della cura delle
loro renne. Il manoscritto taceva sulla rendita che il ministro traeva
da’ suoi parrocchiani; ma si estendeva molto sulla rinomanza della
chiesa di Enontékis, della quale parlavasi fino alle estremità del
Nord!!
I Norvegi, diceva il manoscritto, quando si dispongono a lungo e
pericoloso viaggio sogliono mandare un cereo da bruciarsi in questa
chiesa, ed altri piccoli doni votivi. Assicurava, che malgrado tutto
ciò ch’egli avea potuto fare per recare la luce evangelica in mezzo
alle montagne più lontane, i Laponi non conservavano meno un residuo di
paganesimo. Trovansi qua e là, diceva egli, nel deserto delle pietre,
le quali hanno qualche somiglianza colla figura umana; e quando mutando
stazione colla loro famiglia e i loro armenti passano presso a codeste
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